IO SONO KARL MARX: AUTOBIOGRAFIA POSTUMA DI UNO SPETTRO CHE SI AGGIRA PER L’EUROPA

di Massimo Lunardelli* |

Perché ho scritto questo libro? Ho scritto questo libro perché scrivere significa imparare. Non sapevo quasi nulla di Karl Marx, prima.

Io sono Karl Marx. Porto un nome germanico che nella sua radice significa uomo e un cognome tipico delle comunità ebraiche. Dovrei forse dire che fui, che ero, che sono stato Karl Marx; la mia fugace apparizione terrena è banalmente racchiusa, come quella di tutti, in due luoghi e in due date: nacqui a Trier, nella Prussia renana, il 5 maggio 1818, morii a Londra, in quella casa al numero 41 di Maitland Park Road, il 14 marzo 1883. Però no, sento che ancora esisto; percepisco il mio vagare per il mondo sotto forma di vivido pensiero: sono speranza per qualcuno, incubo per altri. Da questo limbo in cui mi trovo non riesco ancora a comprendere in cosa mi abbia trasformato l’infinito mutarsi della materia; mi serve altro tempo per capire se aveva ragione Epicuro sostenendo che la morte esiste quando non esiste la vita o se invece aveva ragione Hegel quando parlava di un progredire dello spirito in dio. Un dio che però non ho ancora incontrato in questo mio etereo vagabondare, perciò resto convinto che dio è parola impronunciabile e che la religione è la più meschina tra le finzioni inventate dai potenti per addormentare le coscienze ed impedire ai popoli di ribellarsi di fronte alle diseguaglianze.

Sì, io sono ancora Karl Marx. Ateo, comunista, nemico giurato di tutte le tirannie, di tutte le borghesie, di ogni società divisa in classi. Mi sposto col vento in questa eternità mobile tanto cara a Platone, in questo prima e in questo poi disegnato da Aristotele. Mi è chiaro da qui quello che ho sempre saputo: il tempo che passa non è metafisica ma storia, vale a dire il processo in perpetua evoluzione dello stare insieme degli uomini. Continuo ad osservare con smisurata passione il succedersi delle singole generazioni; vedo che sono cambiati i tempi, i modi e gli strumenti, ma che la sostanza è rimasta la stessa: ogni generazione si affanna a sfruttare le risorse accumulate dalle generazioni precedenti al solo scopo di aumentare le proprie ricchezze, reiterando così la follia del capitale. 

Rido quando sento i profeti del tempo presente ricondurre tutti i mali dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo a ciò che hanno definito con il termine globalizzazione. Fanno finta di non sapere che si tratta di un pessimo neologismo che niente aggiunge all’antico e consolidato meccanismo: già ai miei tempi ciò che accadeva in India o in Cina determinava ciò che accadeva in Inghilterra o negli Stati Uniti. Mi dispiace che nessuno ponga la domanda cruciale: perché la storia precedente determina sempre la storia successiva? Mi tornano in mente certi filosofi a me coevi che tra le rovine degli imperi che crollavano e le conseguenti feroci restaurazioni, blateravano di un uomo nuovo che avrebbe dovuto ribellarsi ai dogmi e alle chimere che lo tenevano prigioniero, perché soltanto liberandosi dai nefasti parti della sua mente l’uomo avrebbe potuto liberarsi dalla falsa realtà che lo circondava.

A quanto pare, purtroppo, ogni epoca è costretta a fare i conti con pecore che si credono lupi. Triste è il destino di chi non comprende che la realtà non è un fatto astratto partorito dall’autocoscienza, ma un fatto assolutamente concreto, dimostrabile empiricamente. Basterebbe guardarsi intorno per averne conferma: ogni individuo ne è la prova nel suo mangiare, nel suo bere, nel suo vestirsi, nel suo andare e venire. Occorrerebbe non farsi confondere dagli illusionisti e non dimenticare mai che gli uomini hanno solo un modo per modificare la realtà e quindi il mondo in cui vivono: cambiare i rapporti di forza tra le classi attraverso le rivoluzioni sociali.

Osservo dai giardini pubblici la villetta a schiera costruita al posto dell’ultima delle tante case che presi in affitto. L’intera Maitland Park Road è stata trasformata in un complesso residenziale edificato nel secondo dopoguerra sulle rovine dei bombardamenti. Il Camden Council ha voluto apporre una targa per ricordare il mio passaggio, hanno scritto: Karl Marx, 1818-1883, philosopher, lived and died in a house on this site 1875-1883.  Sì, sono vissuto qui otto anni; otto anni mi paiono adesso un battito di ciglia, ma allora sono stati il mio tempo. Ricordo ogni dettaglio di quell’appartamento al primo piano, con l’ampia finestra che dava sui prati. Passavo le ore nel mio studio, confortato dall’ordinato disordine e dall’odore di acquavite e tabacco rimasto anche dopo che su ordine del medico avevo smesso di bere e di fumare. Rivedo la mia scrivania, i libri impilati, la sedia di legno con i braccioli, il caminetto con sopra le foto dei miei cari, il divano di pelle dove dopo pranzo mi appisolavo, il tappeto consumato dal mio andare avanti e indietro in cerca di un nuovo concetto, di un nuovo punto di partenza.

Del giorno che sono morto ricordo che era un mercoledì. Me ne stavo seduto in poltrona, era già pomeriggio, avevo pranzato e ingurgitato le mie solite pastiglie. Ho sentito la vita andare via come una brezza nell’ultimo respiro, come un incaglio che tronca di netto l’ultimo pensiero. Non ho mai capito cosa mi abbia ucciso veramente: forse il cronico mal di fegato o forse la tubercolosi venuta a dare il colpo di grazia a un corpo ormai vecchio e malandato. Ho memoria delle sorgenti sulfuree di Enghien, dell’aria salubre di Argenteuil e dell’Isola di Wight, dei lunghi soggiorni ad Algeri e sul lago di Ginevra, dell’arseniato di sodio che bevevo al mattino per calmare la tosse fortissima e dello sciroppo a base di oppiacei e codeina che bevevo la sera per vincere l’insonnia: a quanto pare niente servì a rimettermi in sesto.

Poi quella fastidiosissima laringite che sopraggiunse a rendermi difficoltosa la deglutizione costringendomi a nutrirmi di solo latte, alimento che ho sempre detestato. Ma più di ogni malattia, penso che ad uccidermi davvero sia stato il dolore che si aggiunse al dolore: la mia adorata Jenny, compagna di tutta la vita, era morta da un anno e mezzo, stroncata da un cancro tra atroci sofferenze; Jennychen, la nostra primogenita, era morta da appena due mesi, non ancora quarantenne, anche lei per un cancro. Non sopportai più. 

Fu Lenchen ad accorgersi della mia morte. Mi girò intorno, mi scosse, si chinò ad accertarsi che non respiravo più; pianse restando per qualche minuto incerta sul da farsi, un fermaglio le cadde dalle mani, poi spalancò la finestra e i suoi singhiozzi vennero coperti dal rumore delle carrozze che passavano in strada. Povera Lenchen, la nostra Lenuccia; avrei voluto abbracciarla, consolarla. È stata per tutta la vita governante ed amica fedele, ha condiviso le pene della nostra famiglia, ci ha seguito ovunque in Europa senza praticamente percepire mai uno stipendio a causa delle terribili ristrettezze economiche in cui mi sono sempre dibattuto.

Arrivava dalle campagne del Saarland, terre rigogliose vicine al confine francese; entrò in casa nostra come una sorta di dono di matrimonio da parte dei genitori di Jenny. Helene Demuth era il suo vero nome, ma lo dimenticammo presto a causa della mia abitudine di affibbiare a chiunque un nomignolo. Una donna alta, giunonica, con i capelli biondi quasi sempre raccolti dietro la nuca: sapeva preparare dell’ottima birra e le piaceva discorrere di politica, era dei nostri, una militante. Mi fu anche amante, la prendevo certe notti in quella casa di Dean Street sulla brandina dove si coricava, sistemata per mancanza di spazio accanto alla scrivania dove mi attardavo a lavorare. Diventò madre persino di un mio figlio non voluto; lo chiamò Frederick, in onore del mio amico Fried che se ne assunse la paternità al posto mio salvandomi dalle ire di mia moglie.

Fried, così ho sempre chiamato Friedrich Engels, mio inseparabile compagno di tante battaglie. Quel pomeriggio di marzo era appena uscito a comprare i giornali della sera; quando tornò, vedendomi cadavere su quella poltrona, mi maledì. Avevamo lasciato in sospeso i nostri soliti discorsi: dovevamo fare il punto sull’imminente congresso del partito socialista operaio che si sarebbe tenuto a Copenaghen e mi sarebbe piaciuto tormentarlo ancora un po’ a proposito dei nuovi volumi del Capitale che avrebbero dato seguito al primo. Da quando era tornato da Manchester non gli davo tregua, mi interessava moltissimo il suo parere sul ciclo del capitale monetario, sul ciclo del capitale produttivo, sul ciclo del capitale-merce, sul tempo di circolazione, sul capitale fisso e capitale circolante. 

Povero Fried, non l’ho lasciato in pace neanche da morto: si è fatto carico dei miei scritti incompiuti riordinando e decifrando migliaia di fogli sparsi, si è occupato come un padre delle mie figlie, si è preso in casa Lenchen che, senza di me, sola e anziana, non aveva un posto dove andare. Ricordo che mentre il medico sbrigava le formalità del decesso, mi sfilò dal taschino del gilet le foto mia moglie, di mia figlia Jennychen e di mio padre da cui non mi separavo mai. Me le restituì il giorno del funerale infilandole nella bara prima che il becchino la chiudesse. Poi pronunciò per me una toccante orazione: mi definì un gigante, un titano che aveva scoperto la legge dello sviluppo della storia umana, un rivoluzionario che aveva ridato speranza ai popoli.

Mi seppellirono al cimitero di Highgate, ma non nel mausoleo dove sono adesso, un po’ più in basso, nella zona destinata ai poveri. Vennero in pochi quel giorno: oltre a Fried e a Lenchen, mia figlia Laura con suo marito Paul Lafargue; l’altra mia figlia Eleanor; mio genero Charles Longuet rimasto vedovo di Jennychen; qualche vecchio militante come Georg Lochner e Carl Schorlemmer; Wilhelm Liebknecht, leader emergente del partito socialdemocratico tedesco; Ray Lankester, un giovane biologo allievo di Darwin con cui avevo stretto amicizia da qualche anno. Ho memoria di telegrammi inviati dai partiti operai d’Europa, di corone di fiori rossi, del canto dell’Internazionale. Mi sono sempre piaciute quelle paroledi Eugène Pottier scritte per celebrare la Comunedi Parigi:

In piedi, dannati della terra / in piedi forzati della fame! / La ragione tuona nel suo cratere / è l’eruzione finale. / Del passato facciamo tabula rasa / folle, schiavi, in piedi! In piedi! / Il mondo sta cambiando radicalmente / non siamo niente, saremo tutto!

La prima notte al cimitero fu terribile. Sigillato in quella cassa di zinco, accanto alla mia Jenny eppure lontanissimo da lei. Rammento il coccoveggiare delle civette appollaiate sui cipressi e il miagolio dei gatti in amore. Poi arrivò la primavera e sulla tomba fiorirono le primule. Vidi il mio corpo marcire lentamente, ma non riuscivo a staccarmi, una specie di elastico mi teneva legato alle mie cellule in decomposizione mentre nel disincanto del mondo il vento mi portava il puzzo del colonialismo europeo impegnato a spartirsi l’Africa.

Da vivo ho dedicato pochissimo tempo al pensiero della morte, mi sono divertito a mettere in conto al capitale ogni mio acciacco, comprese le emorroidi che mi hanno spesso costretto a lavorare in piedi. Diceva Spinoza che non pensare alla morte quando si è vivi è una caratteristica degli uomini liberi; ammetto di aver derogato in qualche raro momento immaginando di morire come Epicuro, immerso in una tinozza d’acqua calda mentre sorseggiavo del vino, un attimo dopo aver esclamato Siate felici e memori del mio pensiero! 

Quel che mi rimprovero è di essermi lasciato beffare dallo scorrere del tempo, mi sono ritrovato vecchio illudendomi di essere al sicuro nei miei banali gesti quotidiani: bere caffè nero al risveglio, sfogliare i giornali, scrivere e studiare alla scrivania, mangiare aringhe affumicate di cui sono sempre stato ghiotto. La semplicità è stata la qualità che più ho apprezzato, il cambiamento la mia idea di felicità, la sottomissione la mia idea di infelicità, Spartaco il mio eroe, rosso il mio colore, l’alloro la mia pianta preferita, Eschilo e Diderot i miei approdi necessari. Feuerbach, che ai miei tempi era assai influente, sosteneva che quello che è di noi dopo la nostra morte è lo stesso che già è stato prima della nostra nascita; un concetto simile a quello del greco Parmenide, che 500 anni prima di Cristo affermava che ciò che è non può esistere in futuro perché inevitabilmente ciò che era, così come ciò che deve essere, non è.

Sotto due metri di terra però, la filosofia non mi è bastata più. Mi sono domandato dove fosse l’intero teorizzato da Platone: non l’ho visto nella putrefazione della carne; non l’ho visto nel fuoco fatuo innescato da una miscela di metano, magnesio e potassio; non l’ho visto nel pirotecnico spettacolo della disgregazione atomica. Ho visto invece l’idrogeno, l’ossigeno, il carbonio, l’azoto, il potassio, il cloro, lo zolfo di cui siamo fatti, liberarsi da ogni vincolo e mettersi in viaggio. Così finalmente ho spezzato quella specie di elastico che mi teneva ancorato al mio corpo e il mio pensiero, nella sua forma più pura, ha cominciato a viaggiare nel tempo e nello spazio. Non sono morto oscuro, considero ripagati i miei sforzi terreni se chiunque in vece mia può continuare a dire che la storia di ogni società finora esistita è storia di lotta di classi. 

* Massimo Lunardelli è nato a Torino nel 1961 e vive a Cagliari, dove fa il bibliotecario. Ha pubblicato: “Guardie e Ladri: l’unità d’Italia e la lotta al brigantaggio” (Blu Edizioni, 2010); “Dieci pericolosissime anarchiche” (Blu edizioni, 2012); “Indagine sullo scudetto revocato al Torino nel 1927” (Blu Edizioni, 2014); “È Gramsci, ragazzi. Breve storia dell’uomo che odiava gli indifferenti” (Blu Edizioni, 2017). È autore dei seguenti documentari: “Carmine Crocco, dei briganti il generale” (Colombrefilm 2008); “Carlo Cafiero il figlio del sole” (Studio Digit 2011); “L’anarchico Tomaso, appunti per un film” (Mu Film, 2017). Ha collaborato con diversi giornali e riviste.

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