di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |
Una questione di stile
“Alla fine del summit europeo del giugno 2012, mentre la cancelliera Merkel si preparava ad uscire, Monti chiese la parola. Con un tono pacato e in modo elegante espose quella che forse sarebbe stata la dichiarazione più spinosa della sua vita. La cancelliera si rimise a sedere, aveva capito che se Mario Monti prendeva quella linea, dietro doveva esserci qualcosa di significativa importanza”.(Yanis Varoufakis I deboli sono destinati a soffrire? Pag. 364)
Il commento di quel summit sulla stampa tedesca fu duro con la Cancelliera, accusandola di avere subito per la prima volta una sconfitta in Europa. Ma, sostiene Monti, “lo scopo non era battere la Germania, ma completare l’uscita dell’Italia dalla crisi finanziaria e far sì che l’intera eurozona si dotasse di una rete di sicurezza. Questo non sarebbe stato possibile senza forzare in parte il dogma dell’ortodossia monetaria tedesca. Costruimmo su questo una serie di alleanze, da Hollande a Obama, e cercammo fino all’ultimo una soluzione condivisa. Ci furono momenti di contrasto duro con la Merkel ma strettamente funzionali all’obiettivo, senza clamore esterno. A me interessava vincere la battaglia nell’interesse dell’Italia e dell’Europa, non avere il plauso degli italiani perché ero battagliero. Ma per vincerla abbiamo seguito un metodo molto tedesco: silenzioso lavoro, preparazione di documenti solidi su cui negoziare. Del resto – proprio come la Merkel e, ben prima di noi, Luigi Einaudi – prediligo il “conoscere per deliberare”, non l’ansia della velocità che porta al deliberare, poi semmai conoscere. Per me, che ho evitato ogni spettacolarizzazione, narrattiva e story-telling segnano l’eutanasia della politica che rispetto, quella che mette l’interesse generale al di sopra di quello personale. I “pugni sul tavolo” avrebbero infranto non i dogmi tedeschi, ma le mani dell’Italia. Invece sono stati quei dogmi a cominciare ad infrangersi di fronte alla forza delle nostre argomentazioni, condivise da altri paesi”.
Una questione di stile e di strategia politica quella perseguita dal premier Monti che, esaltando il lavoro silenzioso, la preparazione di documenti solidi, la costruzione di alleanze, il mettere l’interesse generale al di sopra di quello personale e la ricerca di soluzioni condivise, fa risaltare la grossolanità provinciale dei comportamenti di alcuni membri dell’attuale governo ai tavoli europei.
Di che si trattava
Si trattava della proposta per cui le banche che necessitassero di iniezioni di capitale potessero farsi prestare i soldi direttamente dal fondo per il salvataggio europeo, il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) bypassando completamente i governi senza gravare sul debito nazionale dei paesi membri. Monti aveva infranto un protocollo tabù, e l’aveva infranto con un’iniziativa radicale che mirava ad una vera e propria Unione bancaria come quella operante negli USA. La costruzione di una unione bancaria avrebbe tenute separate le questioni di crisi bancaria da crisi dei debiti sovrani, evitando una spirale che aggravasse entrambe le posizioni.
I contenuti riguardavano inoltre, un patto sulla crescita, un primo abbozzo di golden rule sugli investimenti pubblici e, soprattutto, le misure a breve termine antispread per stabilizzare i mercati. Misure come lo scudo antispread e la valutazione qualitativa della spesa pubblica (leggi golden rule) serviranno a tutti, ma all’Italia molto di più perché pur essendo un Paese adempiente, pur avendo avviato riforme importanti (pensioni e mercato del lavoro) il nostro paese è vittima di uno stereotipo negativo che ci penalizza sui mercati con tassi troppo elevati per finanziare il nostro debito pubblico.
Le reazioni negative
Contro questo progetto, una lettera firmata da 160 economisti tedeschi che, prendendo spunto da un appello pubblico lanciato da Hans-Werner Sinn, numero uno dell’Institute for Economic Research (Ifo), perorano affinché Angela Merkel e gli altri leader europei rinunciassero al progetto di unione bancaria. Secondo Sinn, attuando l’unione bancaria, la Germania dovrebbe accollarsi tutto il costo della crisi degli altri Paesi. “Ci siamo impegnati a rimborsare i debiti delle banche del sud-Europa”, ha dichiarato l’economista, secondo cui “lo stato tedesco è stato trascinato nella crisi del Sud” e “gli investitori di tutto il mondo, che hanno speculato, possono cavarsela all’ultimo momento”. E ancora: “E’ stata organizzata una caccia spietata per poter arrivare al nostro denaro, si è accusata la Germania di avere ambizioni imperiali e profetizzato l’odio dei popoli nei nostri confronti”.
Le banche devono poter fallire. Questa è la tesi sostenuta con forza da Sinn e dagli altri firmatari della missiva, e questo perché “se gli investitori decidono di prendere dei prestiti per fare affari allora devono essere i soli a pagare in caso di default. Altrimenti si finisce per regalare sussidi a Wall Street, alla City e a una manciata di investitori e banche nei guai”. Ma i sussidi, guarda caso, li aveva presi la Germania quando non pagò i danni di guerra, e poi ancora al momento della riunificazione ed infine nel caso del default greco.
In un celebre passo Keynes osserva che i creditori cronici debbono cercare di rinunciare a quella posizione, e ciò non per umanità o spirito crocerossino, ma per la ragione che ad un creditore cronico corrisponde un debitore cronico che prima o poi non sarà in grado di onorare i suoi debiti, fallendo lui ma creando enormi difficoltà anche a chi gli avesse prestato i soldi. Questo è il lampante caso di ciò che è successo in Grecia. Le banche tedesche finanziarono quelle greche per favorire l’acquisto di prodotti tedeschi; quando sopraggiunse la crisi l’onere ricadde sui paesi membri dell’unione che dovettero finanziare le banche greche affinchè queste ultime potessero onorare i loro debiti con le banche tedesche. Certo una unione bancaria avrebbe evitato questa solidarietà forzata e a senso unico conseguente al protocollo ordoliberista.
Il dopo summit del 2012
Col voto favorevole di Raioy e di Hollande anche la Merkel si adeguò alla proposta Monti con la precondizione che la ricapitalizzazione diretta delle banche avvenisse solo dopo che i paesi membri avessero concordato l’istituzione di una unione bancaria all’interno dell’unione monetaria.
Dopo il summit tutta la stampa riconobbe lo sforzo positivo con cui l’Europa era riuscita ad istituire il primo fondamentale ammortizzatore al sistema monetario europeo. Ma bastarono poche settimane perché il tutto si ridimensionasse; una lettera del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble pubblicata sul Financial Times completava il suo formale apprezzamento per la soluzione presa ma precisava di non riuscire ad immaginare come avrebbe potuto funzionare in pratica una unione di più di seimila banche. Berlino chiese allora di limitare l’unione a solo 124 banche (eliminando, tra l’altro, dall’unione tutte le banche regionali dei lander tedeschi) e di limitare l’azione della unione bancaria alle verifiche della BCE sulle grandi banche, lasciando l’onere finanziario di eventuali problemi alle competenze nazionali.
La lentezza di ogni progresso verso l’unione bancaria è testimoniata dal “backstop”; una “rete di sicurezza” che nell’ambito dell’Unione bancaria, sarebbe attivata nel caso in cui, anche dopo aver imputato perdite agli azionisti e ai creditori delle banche, il Fondo di risoluzione unico non disponga temporaneamente di risorse sufficienti per agevolare la risoluzione ordinata delle banche in difficoltà. Gli Stati membri si sono accordati sulla creazione di un backstop per il Fondo di risoluzione unico nel 2013. A distanza di quattro anni, tale dispositivo non è ancora operativo. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 2017, il Presidente Juncker ha sottolineato la necessità di renderlo operativo in via prioritaria.
La lunga coda della crisi del 2007
Il fallimento del capitalismo finanziario del 2007 continua ad avere effetti nefasti sulla sopravvivenza delle economie europee, in particolare sui sistemi bancari che soffrono di una serie di problemi sintomo di un malessere tutt’altro che risolto.
Pensiamo al problema dei Not Performing Loans (NPL); ai limiti che si vorrebbero porre alle banche nel possesso di titoli di stato; all’incestuoso riflesso spread-valutazione dei titoli di stato-mark to market; alla presenza nei bilanci di molte banche di derivati senza valutazione di mercato; alla crisi della Deustche Bank; alla decisione improvvida della Vestager della commissione europea antitrust e aiuti di stato, su banca Tercas, decisione bocciata e che ha avuto riflessi sul salvataggio di altre 4 banche italiane.
Rilanciare con convinzione e stile montiano il tema dell’Unione bancaria pare quindi uno degli obiettivi che, dopo le recenti elezioni europee ed il rinnovo delle cariche, i paesi membri dovrebbero porsi ed in particolare dovrebbe porsi il nostro governo ed i nostri rappresentanti alle istituzioni europee. Un obiettivo forte, che insieme ad altri obiettivi quali il meccanismo di riciclo dei surplus, alla costituzione di un vero budget europeo ed all’applicazione della golden rule di Delors potrebbero ridare vitalità ad una depressa unione europea.
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