IL GOVERNO CRAXI E L’ACCORDO DI SAN VALENTINO (14 FEBBRAIO 1984)

  di Silvano Veronese – Vice presidente Socialismo XXI |   In questi giorni, in occasione dell’anniversario della morte di Bettino Craxi, si sono sviluppate moltissime occasioni di dibattito pubblico  sulla rivalutazione positiva – anche da parte di alcuni suoi avversari del passato – sulla Sua opera di statista, sul piano nazionale ed a livello internazionale, rivalutazione che non esce affatto offuscata dalle vicende giudiziarie che l’avevano colpito.   Non si è ricordato in questi eventi uno dei primi ed importanti risultati del suo Governo, e cioè l’accordo “triangolare” Governo/Imprese/Sindacati del Patto sociale del 14 febbraio 1984, detto anche “accordo di S.Valentino” che fu sottoscritto in quel giorno, dopo varie e complesse trattative, da tutte le Organizzazioni Imprenditoriali dell’industria, commercio e servizi, artigianato, agricoltura e cooperazione (comprese quelle c.d. di “sinistra”), da CISL e UIL e con la manifestazione di consenso della corrente socialista della CGIL. Non venne firmato, all’ultimo momento (dopo aver concorso in precedenza con i suoi segretari confederali  a scrivere molte pagine dell’intesa),  dalla sola CGIL).   Solamente alcuni strumentali e superficiali servizi giornalistici e televisivi hanno ricordato quell’evento, ma definendolo ancora una volta come il “decreto sul taglio della scala mobile” o, addirittura, con l’infamante bugia del “taglio dei salari” come lo presentava a quel tempo nella polemica politica la vulgata comunista per giustificare il ricorso al referendum voluto dal segretario del PCI on. Berlinguer, con il dissenso della corrente “migliorista”. Referendum che venne sconfitto nella consultazione popolare.  Se questo “patto sociale” si fosse limitato a questa determinazione, ci sarebbe stato bisogno di scrivere ben 25 pagine dell’intesa?  Crediamo, perciò, opportuna un po’ di chiarezza per rendere – anche su questo aspetto – giustizia sull’operato del compagno Craxi, Presidente del Consiglio dell’epoca, nonché di Gianni De Michelis che – in qualità di Ministro del Lavoro – promosse e  coordinò le trattative.  Intanto la scala mobile, che era il meccanismo di tutela del potere d’acquisto dei salari e la cui dinamica era collegata all’andamento dell’inflazione,  non fu né “tagliata” né tantomeno “soppressa” dall’accordo di S.Valentino (come affermava  l’infamante propaganda del PCI dell’epoca).  Per la cronaca,  la sua “soppressione” – con il trasferimento della sua funzione ad uno specifico strumento dei C.C.N.L. – avvenne anni dopo nel contesto degli  accordi “triangolari” con i Governi  Amato e Ciampi, rispettivamente del 1992 e 1993, questa volta anche con la firma della CGIL.  L’accordo di  “S.Valentino”, nato all’inizio come verifica  del precedente patto sociale detto “accordo Scotti” (dal nome del Ministro del Lavoro che l’aveva promosso), prese la forma di un vero e proprio patto di concertazione sociale sotto l’impulso di Craxi e De Michelis  per concordare con le parti sociali una complessa manovra tendente a sviluppare una vigorosa azione anti-inflattiva (non va dimenticato che il Governo Craxi ereditò una grave  situazione con l’inflazione del 20%) e di rilancio delle attività produttive, della ricerca e dell’occupazione per poter agganciare il sistema economico nazionale ad una ripresa mondiale mentre la nostra economia reale marcava all’epoca (come ora) una preoccupante stagnazione.  Con l’accordo di concertazione 14 febbraio 1984 vennero convenuti e sottoscritti determinati obiettivi per ognuno di vari fattori: aumento annuale del PIL, della produzione, dell’occupazione, degli investimenti e della produttività, contenimento del costo del denaro e dell’andamento dell’inflazione. Le parti sociali ed il Governo si impegnarono in comportamenti virtuosi coerenti con gli obiettivi convenuti.   La riduzione dell’inflazione (per difendere  il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi) e conseguentemente della dinamica  prevedibile della derivante  contingenza, vennero programmate attraverso la “prederminazione” per il solo anno 1984  dei futuri scatti di contingenza o “scala mobile” e la parallela “predeterminazione” delle dinamiche delle tariffe e dei prezzi controllati e con un impegno da parte delle imprese a “muovere”  i prezzi liberi in coerenza con tali obiettivi.  L’inflazione – a seguito di questi virtuosi comportamenti – scese rapidamente e sensibilmente, mi sembra attorno al 4/5%. Tale risultato portò a far coincidere il tasso reale di inflazione con quello programmato, anzi a rendere inferiore il primo rispetto al secondo. Dov’era dunque il “taglio” dei salari blatterato dalla propaganda comunista?  Al limite si poteva parlare di contenimento dei futuri aumenti di scala mobile!  L’accordo di “S.Valentino” non trascurò il fattore “lavoro”:  fu determinata una importante riforma del mercato del lavoro con l’introduzione di nuove tipologie di contratti per favorire nuova occupazione, fu introdotto il “contratto di solidarietà” per mantenere l’occupazione nelle aziende in crisi, fu prolungato (al contrario di ora) il periodo della CIG e della mobilità. Vennero istituite nuove società pubbliche per la promozione di nuove attività in sostituzione di quelle decotte e salvare così  l’occupazione ivi esistente.  Vennero affrontate positivamente  alcune questioni riguardanti  il  FISCO e lo sviluppo della DOMANDA PUBBLICA (all’epoca come ora bloccata), ma una parte considerevole del “patto sociale” affrontò la decisa materia della Politica Industriale per dinamicizzare l’economia  attraverso l’individuazione di nuovi strumenti e di vari interventi pubblici, con il concorso di quelli privati, a carattere settoriale e/o territoriale con particolare riferimento alle aree depresse ed a settori in crisi di competitività e di mercato.  Da allora, a parte i succitati patti sociali “triangolari” con i governi Amato e Ciampi del ‘92/93, non si è piu’ prodotto uno sforzo programmatorio di questa qualità e quantità di interventi, tanto che all’epoca il “sistema Italia” superò al quinto posto la Gran Bretagna nella classifica delle sette maggiori economie del mondo. Un esempio positivo ed importante di socialismo riformista, di “una sinistra di governo” capace di coniugare obiettivi di crescita economica con la salvaguardia dei bisogni sociali fondamentali.  Oggi purtroppo, l’Italia si trova in coda persino in Europa nell’andamento del PIL, della produzione (in calo) e  della produttività! Un quadro economico e sociale che appare desolante al confronto della situazione di quel periodo. Un motivo in piu’ per aggiungere anche l’accordo “S.Valentino” nella rivalutazione di Bettino Craxi come uno dei maggiori statisti del dopoguerra italiano.  Una campagna di chiarificazione. Avanti!  Febbraio 1984 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e …

TARANTO CITTA’ MARTIRE

di Beppe Sarno – Critica Sociale | Scriveva Francesco Forte nel maggio 1969 sulla rivista “Critica Sociale”: “sono comunque del parere che la forza fondamentale di contrapposizione alle gradi imprese private e di salvaguardia del potere politico dalla loro influenza sta nell’azione delle imprese pubbliche e nell’espansione di tale azione. Per quanto “vecchia”  possa apparire questa dottrina essa è invece estremamente attuale. Rendere sempre più pubblica l’azione delle imprese pubbliche e mantenere e potenziare lo sviluppo dell’imprenditorialità pubblica sono i due elementi base per lottare contro la destra economica e contro le forze del potere economico privato come forza di dominio economico e di ipoteca politica.” Non credo che il maestro con il passare degli anni abbia mutato parere, anche se espresse oggi queste idee lo farebbero mettere al bando da chi invece vede nel liberismo economico spinto e nel libero mercato la soluzione di tutti i problemi economici e politici. Le parole di Forte, però, possono illuminarci ed indicare una possibile via d’uscita dal groviglio dell’ex Ilva di Taranto. Facciamo un passo indietro e ripercorriamo le tappe che ci  hanno portato all’attuale situazione. Con la legge 3 dicembre 2012 lo stabilimento dell’ILVA viene qualificato come “stabilimento di interesse strategico nazionale” ciò perché doveva essere assicurata la “continuità produttiva dello stabilimento in considerazione dei prevalenti profili di protezione dell’ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali.”  La legge aveva quindi il compito di trovare soluzioni che ponessero in atto misure per risanare l’ambiente contaminato dalle scorie e dai fumi dello stabilimento; di impedire che diecimila persone andassero in mezzo ad una strada, creando  non solo problemi di miseria, ma soprattutto problemi di sicurezza che una disoccupazione così spinta avrebbe creato. Il decreto legge 4 giugno 2013 autorizzava il Presidente del Consiglio dei Ministri a nominare Commissari per la gestione di stabilimenti di interessi strategici nazionali in caso di oggettivi “pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza reiterata dell’autorizzazione integrata ambientale.”. L’art. 2 del decreto fa espresso riferimento allo stabilimento di Taranto. Lo  Stato con inusitata sensibilità, con questi due strumenti legislativi aveva preso atto della gravità della situazione di Taranto  ed è intervenuto in prima persona perché le vicende dell’ILVA  incidono in modo grave sull’economia nazionale, affidando ai commissari la gestione  dello stabilimento. Successivamente il ministro dell’ ambiente nominò un comitato di tre esperti che hanno realizzato il Piano Ambientale dell’ILVA per risolvere il problema dell’inquinamento dell’area intorno agli altiforni. Accade però che nel 2015 c’è una prima inversione di tendenza il “Pubblico” si fa da parte e con il Decreto legge 5 gennaio 2015 il governo dà disposizioni ali Commissari di trovare un affittuario o un acquirente  “tra i soggetti che garantiscono la continuità produttiva dello stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”. Di fronte alla gravità del problema di Taranto qualcuno non ha avuto il coraggio di intraprendere una via difficile e tortuosa e piena di incognite e sicuri insuccessi. E’ cosi che lo “stabilimento di interesse strategico nazionale” scala di rango. Il 15 gennaio 2016 i Commissari Straordinari bandiscono la gara per l’affitto o la vendita dello stabilimento di Taranto. Di 29 soggetti interessati  vengono ammesse alla gara solo la Arcelor Mittal e Acciaitalia s.p.a. Siam o al 30 giugno 2016. La Arcelor Mittal nella gara era in cordata con la Marcegaglia Carbon Steel s.p.a., ma la Commissaria Europea alla Concorrenza impone l’esclusione della Marcegaglia da gruppo d’acquisto e  la vendita da parte della Mittal di sei stabilimenti di proprietà. Allo stato non risulta che questa seconda condizione sia stata rispettata. La società Acciaiatalia era invece in partenariato con Cassa Depositi e Prestiti, Delfin, Arvedi acciai, Jsw Limited. In questo secondo gruppo è da evidenziare la presenza della Cassa depositi e prestiti società per azioni il cui capitale sociale per l’80% è di proprietà del Ministero del Tesoro e la restante è detenuta da Fondazioni bancarie che a loro volta son a gestione sia pubblica che privata, inoltre Presidente e Amministratore Delegato sono nominati dallo stesso Ministero e gestiscono di fatto un patrimonio economico e finanziario che si aggira intorno ai 230-250 miliardi di euro – oltre a decine di miliardi in obbligazioni e alla totalità delle azioni SACE – destinati sostanzialmente alla crescita economica del Paese. Inoltre  l’Arvedi, società tutta italiana, ha una tecnologia produttiva che la Mittal non possiede. A prima vista sembrerebbe che la seconda dia maggiori garanzie da ogni punto di vista, ma per il governo non è così. Il 5 giugno 2017 Il Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda autorizza l’aggiudicazione in favore dell’Alcelor Mittal in maniera del tutto apodittica tenuto conto che gli stessi tecnici nominati dai commissari definiscono il piano della Mittal “Incoerente” e che la società Acciai Italia pare abbia offerto migliori garanzie della Mittal. Gentiloni e Calenda tirano dritto. In data 28 giugno 2017 viene sottoscritto il contratto fra i Commissari e la Alcelor Mittal e successivamente il 14 settembre 2018 viene sottoscritto un accordo modificativo e in data 31 ottobre 2018 venivano sottoscritti i contratti attuativi con decorrenza degli affitti aziendali dal primo novembre 2018. Ad oggi dei 180 milioni di affitto da pagare non c’è traccia. Nel frattempo  i sindacati approvano l’accordo intervenuto fra i commissari e l’Alcelor Mittal. Il 92% dei lavoratori dice “sì” all’accordo e i capi sindacali parlano di autentico plebiscito. Cosa prevedeva l’accordo? Il versamento di 1,8 miliardi di euro per l’acquisizione del gruppo ILVA; la garanzia di una produzione di 6 milioni di tonnellate all’anno, con l’impegno ad arrivare al 2023  a dieci tonnellate, in cambio si chiedevano  ingenti tagli occupazionali 9.440 con un taglio di 4.880 unità lavorative, per poi scendere nel 2023 a 8.400. Sotto il profilo ambientale la Mittal si impegnava a impiegare nuove tecnologie, a bassa emissione di anidrite carbonica, che poi si è scoperto non avere, la copertura dei parchi minerari, e investimenti per il risanamento ambientale paria euro 1,15 miliardi. Dal punto di vista industriale la Mittal si impegnava al rifacimento del forno “5” …

RINO FORMICA AI SOCIALISTI

I SOCIALISTI SOPRAVVISSUTI ALLA GRANDE GLACIAZIONE DEVONO DARE VITA AD UNA CONCENTRAZIONE SOCIALISTA, DELLA SINISTRA RIFORMISTA E REVISIONISTA, DISTINTA E DISTANTE DAL RENZISMO E DAGLI ASSALITORI DELLA COSTITUZIONE. (Cit. Rino Formica) Il contributo che i socialisti possono dare è enorme. Non ci si può esimere nel dare voce alla gente che patisce l’imposizione dell’austerity neoliberista, con l’eliminazione dei diritti sociali conquistati e delle regole democratiche con l’assalto alla Costituzione. Proporre sulla base di giustizia sociale, democrazia, libertà, tutela dei diritti, tutela del patrimonio artistico e paesaggistico del Paese. Quest’ultimo preso di mira, dopo la svendita (liberalizzazioni) delle migliori realtà del Paese nel settore industriale. C’è bisogno di un’alternativa concreta a tutto ciò, che ridiano speranza e fiducia, che richiamino alla voglia di partecipare tutti quei cittadini che ormai da tempo vedono nella politica non lo strumento della risoluzione dei problemi, ma il problema principale. (abnorme astensionismo e potere nelle mani di pochi). Dovrà essere questo il punto d’incontro tra soggetti per un Socialismo del XXI secolo, un punto di forza che ci permetta il massimo sforzo unitario per reagire con vigore all’attacco in qualunque forma si presenti il sistema finanz-capitalista, ormai elemento asfissiante che con il suo peso, diventato insostenibile, ha stretto nella morsa gli spazi di democrazia e dei diritti sociali.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA FORZA DIROMPENTE DEL REFERENDUM

di Franco Astengo | “La forza dirompente del referendum”: sotto questo titolo il Corriere della Sera pubblica un intervento dell’ex-ministro Giulio Tremonti sul tema del referendum confermativo al riguardo della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari da 945 a 600. Nel suo articolo Tremonti sostiene, tra l’altro, che la portata politica di questo referendum è enormemente più forte di quello che, con il suo esito, decretò nel 1993 il passaggio dalla formula elettorale proporzionale a quella maggioritaria. Formula maggioritaria poi temperata dal mantenimento di una quota del 25% riservata al proporzionale (con tanto di “scorporo” e di “liste civetta”) come stabilito dalla legge di cui fu relatore l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Giovanni Sartori in quell’occasione coniò la definizione “Mattarellum”). Subito dopo il varo della nuova legge l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sciolse i due rami del Parlamento (la Camera era presieduta da Giorgio Napolitano, il Senato da Giovanni Spadolini) motivando a questo modo “ “Lo scioglimento trova la sua principale motivazione, non già in una disfunzione creatasi nel rapporto tra Parlamento – governo, bensì nel radicale cambiamento delle regole elettorali imposta dal referendum popolare del 18 aprile 1993, nonché nei profondi mutamenti emersi nel corpo elettorale e nelle stesse realtà politiche organizzate”. Tremonti dunque sostiene che il referendum che dovrebbe svolgersi il prossimo 29 marzo risulti molto più incisivo sulla realtà istituzionale del Paese che non quello promosso dai Comitati Segni ventisette anni or sono: la ragione di questa superiore capacità d’incidenza risiederebbe non solo nella mutata composizione numerica ma anche nella funzione di rappresentanza territoriale che dovrebbe essere svolta dai due rami del Parlamento e nella meccanica della sua efficienza decisionale. Ancora: una volta entrati in vigore Camera e Senato a ranghi ridotti rispetto all’attuale composizione si stabilirebbero anche rapporti diversi tra maggioranza e opposizione e di riflesso tra le forze politiche come queste sarebbero rappresentate in un Senato ridotto a 200 membri. Sono tutti elementi da considerare e da riflettere per quanti si sono già schierati per il “NO” a questo ennesimo tentativo di deformazione costituzionale. C’è da aggiungere che non solo il referendum previsto per il 29 marzo è assolutamente più dirompente di quello del 1993 ma che, sul piano della valenza costituzionale, equivale perlomeno a quello del 4 dicembre 2016, allorquando la proposta di revisione della nostra Carta Fondamentale portata avanti dal PD a segreteria Renzi fu respinta a grande maggioranza dal voto popolare. Oggi siamo di fronte a una situazione che deriva dall’aver sparso a piene mani il veleno dell’antipolitica e il referendum stesso sulla riduzione del numero dei parlamentari (riduzione posta come pregiudiziale dal M5S al PD soltanto per aprire la trattativa sulla formazione del nuovo governo) assume un evidente ulteriore effetto di delegittimazione complessiva di un Parlamento ormai ridotto ad una sostanziale autoreferenzialità. E’ il caso di ricordare come la caduta di credibilità del Parlamento abbia una delle sue principali cause nel reiterarsi ormai da tre legislature di elezioni legislative svoltesi su liste bloccate. Scrive ancora Tremonti e vale la pena riprenderne le argomentazioni: “Ma ciò che è peggio è l’infima cifra della politica che viene così espressa: mai nella nostra storia così pochi hanno pesato e pesano tanto male sul presente e sul futuro di tutti gli altri”. Tra pochi giorni ci troveremo dentro a una campagna elettorale che non solo sarà sbilanciata nell’attribuzione del peso mediatico tra le diverse opinioni in campo ma sarà anche invasa dalla facile mistificazione circa l’abbattimento delle poltrone e dei privilegi della “casta” (posizione paradossalmente sostenuta da chi della “casta” fa ormai interamente e integralmente parte). Più o meno lo stesso tipo di mistificazione con cui ci trovammo a fare i conti nel già ricordato referendum del 1993, con l’idea facilmente propagandata e colpevolmente amplificata dai media di allora della semplificazione nel ruolo del Parlamento intesa come panacea di tutti i mali della democrazia italiana in quella fase alle prese con Tangentopoli, lo smarrimento dovuto alla caduta del muro di Berlino e all’inopinato scioglimento del PCI, al ritardo accumulato sulla strada dall’adeguamento ai dettati dell’appena firmato trattato di Maastricht e dell’avvio del percorso verso la moneta unica. L’analisi fin qui compiuta ci dimostra che l’oggetto del contendere, nel referendum del 2020, non è certo quello della semplificazione del meccanismo parlamentare : ancora una volta, come già nel 2006 e nel 2016, siamo di fronte alla determinazione di arrivare ad un mutamento nell’equilibrio dei poteri così come questi sono stati configurati nel modello di democrazia repubblicana stabilito dalla Costituzione del ‘48. Il tema, almeno dal nostro punto di vista di chi intende sostenere il “NO”, non deve quindi essere quello della conservazione del numero dei parlamentari ma quello del mantenimento e se possibile del rafforzamento di una “balance of power” della quale è parte indispensabile la rappresentazione nelle massime istituzioni legislative delle più importanti sensibilità politiche, sociali, culturali presente in una dimensione rilevante nel Paese. Così come è fondamentale la presenza nei due rami del Parlamento di un equilibrio nella rappresentanza territoriale che, invece, sarà massacrata dalla riduzione numerica che, alla fine, presenterà situazioni di sicuro profilo incostituzionale. E’ necessario inoltre ripensare alla formula elettorale, al meccanismo di scelta individuale dei parlamentari, di distribuzione della rappresentanza sul territorio. Soprattutto va ripreso e avviato un diverso discorso culturale al riguardo dell’agire politico: la difesa dell’integrità anche numerica delle Camera può rappresentare, in questo senso, un primo passo perché si riaffermerebbe la centralità della Costituzione Repubblicana e uscirebbe sconfitta una inaccettabile idea di mortificazione della rappresentanza politica. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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IL DIBATTITO SULLA PRESCRIZIONE

  di Silvano Veronese – Vice presidente Socialismo XXI |   Nota Nel dibattito che si è acceso in questi ultimi tempi non solo nell’ambito politico e istituzionale, ma anche nella società civile attorno al provvedimento governativo riguardante la prescrizione non è mancata la presa di posizione pubblica (sulla stampa ed in televisione) del magistrato Davigo, oggi membro del CSM. Intanto, considero l’intervento di un magistrato, tanto piu’ componente del CSM, del tutto fuori luogo – al limite del golpe “istituzionale” perché i magistrati devono applicare correttamente e con imparzialità la legge (e non sempre lo fanno) e non pretendere di influenzare o determinare le leggi in materia di giustizia. Il Presidente della Repubblica, anche nella sua qualità di Presidente del CSM, dovrebbe intervenire per far restare nei “ranghi” il protagonismo di vari Magistrati. Ma al di là delle arcinote posizioni giustizialiste dell’ex-P.M. del pool di “Mani pulite”, ci sono state recenti affermazioni di Davigo che fanno rabbrividire sul piano umano e sulla concezione che ha della giustizia. L’uomo che inventò all’epoca di “mani pulite” il teorema giudiziario, alquanto obbrobrioso, del “non poteva non sapere” per incolpare senza prove taluni indagati ma non altri che si trovavano nelle medesime condizioni, ha infilato ora un’altra perla. Ha detto che, piuttosto di vedere libero un colpevole prosciolto per scadenza dei termini temporali, preferisce un innocente in galera. Una concezione che non ha niente da invidiare a quella che animava il giudice dei processi stalinisti Viscinsky! Ed, in effetti, sulla base di questa perversa “filosofia del diritto”, che ebbe il suo culmine applicativo nel nostro Paese nel biennio ‘92/’94, migliaia di indagati prosciolti in istruttoria, o assolti con la sentenza in primo o secondo grado, da innocenti si sono fatti prima mesi e mesi di carcere e subito lo “sputtanamento” presso l’opinione pubblica, nonché bruciata la carriera! Sono queste posizioni che, al di là delle inconcepibili lungaggini delle istruttorie e dei processi, giustificano le posizioni di coloro che parteggiano per la prescrizione. Al di là delle soluzioni che in materia il Parlamento dovrà trovare con il necessario equilibrio, non disgiunte da una riforma delle procedure processuali per riportare i tempi in termini ragionevoli e comuni a quelli dei Paesi civili, quello che spaventa è la disumanità e la perversità del pensiero del Davigo, anche per le responsabilità che Egli ricopre a livello istituzionale.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

VIA INTITOLATA A CRAXI: “QUANTA IPOCRISIA SERPEGGIA A MILANO”

Intervista a cura di Vladimiro Poggi – Telereporter | Dopo il pasticcio andato in scena sulla via da dedicare a Bettino Craxi con la maggioranza che ha ripassato il cerino nelle mani del sindaco Beppe Sala, il Consiglio comunale è tornato a dividersi sul ricordo di Tangentopoli. Lite in Consiglio comunale sull’idea di dedicare una strada al capo del pool Mani pulite Francesco Saverio Borrelli.Interviene il presidente nazionale di Socialismo XXI, Aldo Potenza. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PADRE DEL SOCIALISMO ITALIANO

di Carlo Tognoli | Filippo Turati non amava la definizione “riformisti”, ma la riconosceva perché permetteva di contraddistinguere la sua corrente. Egli fondò nel 1892, a Genova (dove i congressisti si riunirono per usufruire degli sconti ferroviari concessi per le Celebrazioni Colombiane – 400° anniversario della scoperta dell’America) il Partito dei Lavoratori, divenuto poi Partito Socialista Italiano, insieme ad Andrea Costa e ad Anna Kuliscioff. Turati fu un grande ‘leader’ (diremmo oggi) del socialismo italiano ed europeo. Si identificò con il PSI quanto meno dalla fondazione (1892) sino al 1912 quando venne messo in minoranza. Tuttavia sino al 1926 fu la personalità eminente del socialismo e, dopo la sua fuga in Francia, fu tra i capi più ascoltati ed apprezzati dell’antifascismo. Aveva ereditato da Arcangelo Ghisleri la rivista culturale di orientamento positivista ‘Cuore e Critica’, che, con Anna Kuliscioff (la sua compagna della vita e della politica) egli denominò, nel 1891, ‘Critica Sociale’. La nuova pubblicazione, che aveva una cadenza quindicinale, fu la più importante del socialismo italiano. Ad essa collaborarono, tra gli altri, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Olindo Malagodi. Turati morì il 29 marzo 1932, settant’anni fa, a Parigi, in casa della famiglia di Bruno Buozzi, in Boulevard Raspail, dove era ospitato. Venne considerato un perdente, perché non riuscì ad impedire l’avvento di Mussolini e del regime fascista, di cui aveva lucidamente e profeticamente intuito le intenzioni totalitarie, al contrario di Gramsci e Togliatti (e della stessa Kuliscioff) che prevedevano una breve durata della ‘parentesi’ Mussolini.(1) Fu a lungo dimenticato Turati fu poco ricordato dopo la seconda guerra mondiale (eccezion fatta per Saragat, per il PSDI e per il gruppo della ‘Critica Sociale’ – la rivista creata con la Kuliscioff nel 1891 – i cui redattori, Ugo Guido Mondolfo e Giuseppe Faravelli, insieme ad altri, tra cui Antonio Greppi, erano stati suoi giovani discepoli). Il ‘riformismo’ infatti era bandito nei due maggiori partiti del movimento operaio, il PCI e il PSI, uniti tra loro dal patto di unità d’azione, sottoscritto prima della guerra e rimasto in essere sino al 1957. Se l’oblio non coincise con la ‘damnatio memoriae‘, poco ci mancò. Per la verità nell’ottobre 1948 la traslazione delle ceneri di Turati e di Treves, dal ‘Père Lachaise’ di Parigi al Cimitero Monumentale di Milano, avvenne in un mare di folla. Ma fu l’ultimo riconoscimento delle ‘masse’ ai grandi costruttori del socialismo italiano. Le feroci parole che Togliatti su ‘Lo Stato Operaio’ dell’aprile 1932 dedicò a Turati = ‘…una intiera vita politica spesa per servire i nemici di classe del proletariato – per servirli nel seno stesso del movimento operaio… la sua abilità di parlamentare incarognito… corrotto dal parlamentarismo… rifugiato all’estero (e Togliatti dov’era? n.d.r.) …rimasticava i luoghi comuni della mistica democratica… = lasciarono il segno nei decenni successivi nei confronti del riformismo. Il dirigente comunista Giorgio Amendola, figlio di Giovanni, protagonista con Turati della secessione ‘aventiniana’ (astensione dei deputati democratici antifascisti dai lavori della Camera dopo l’assassinio di Matteotti) parlando nel dicembre 1957 = (dopo la repressione sovietica della rivolta d’Ungheria il PSI aveva preso le distanze dall’URSS e dal PCI) = all’assemblea delle fabbriche di Milano, esprimeva la sua preoccupazione perché, “…abbiamo assistito, e non possiamo negarlo, al rapido crescere in alcuni settori del movimento operaio di una influenza riformista nei suoi vari aspetti, del riformismo socialdemocratico, del riformismo cattolico e anche del semplice qualunquismo…forme in cui si esprime la rinuncia rivoluzionaria…” (riformismo = qualunquismo – sic!). Craxi rilanciò il riformismo Fu Craxi, con la sua volontà revisionistica e con la sua politica, a restituire al riformismo socialista la sua dignità, a ricordare che senza i riformisti il PSI non sarebbe cresciuto, non sarebbero nati sindacati e cooperative, non sarebbero stati conquistati diritti fondamentali per il mondo del lavoro e per il movimento operaio. Craxi anche formalmente, al congresso del PSI di Palermo (1981) diede il nome di riformista alla propria corrente, ricollegandosi idealmente al riformismo turatiano. Naturalmente il riformismo liberalsocialista di Bettino Craxi aveva caratteristiche differenti rispetto a quello dei primi anni del novecento. Erano trascorsi 60 anni dal periodo più felice per il PSI di Turati. Erano cambiati i tempi e i problemi. Ma non cambiavano il metodo e la volontà di percorrere la strada delle innovazioni e del rinnovamento delle istituzioni e della società, a vantaggio di un mondo del lavoro diverso e molto più vasto e nell’interesse della maggioranza dei cittadini e della nazione italiana. Era la riaffermazione definitiva della democrazia e della libertà come scelte di fondo di una sinistra indipendente dall’URSS, legata agli interessi italiani ed europei, svincolata dal massimalismo e dall’estremismo, capace di governare il Paese e di difendere i lavoratori senza ‘spaventare’ i moderati. I comunisti più corretti diedero ragione a Turati In seguito a questo ‘rilancio’ del riformismo, proprio nel 1982, in occasione del 50° della morte di Turati in esilio, e in parallelo all’evidente crisi del sistema sovietico e del comunismo, ci fu finalmente un dibattito storico politico su scala nazionale che investì la sinistra ed ebbe eco sui grandi organi di stampa e in televisione. Autorevoli dirigenti e fondatori del Partito Comunista, come Umberto Terracini, riconobbero che Turati aveva avuto ragione. Nel suo profetico discorso al Congresso di Livorno del 1921 (quello della scissione che diede luogo al Partito Comunista d’Italia) aveva tra l’altro detto: “…Ond’è che quand’anche voi aveste organizzato i soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualcosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga, come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – a ripercorrere completamente la nostra via (riformista) la via dei socialtraditori di una volta, perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe…“. Non fu quindi solo un perdente, Filippo Turati. Certo dovette soccombere al fascismo, commise degli errori tattici, fu prigioniero della sua lealtà verso il PSI la cui maggioranza massimalista e velleitaria considerava tradimento la partecipazione dei socialisti a un governo democratico di …

ASSEMBLEA DEI SOCI FONDATORI E DEI COORDINATORI REGIONALI DI SOCIALISMO XXI

  di Silvano Veronese – Vice presidente Socialismo XXI |   RELAZIONE Roma, 1° Febbraio 2020 – Sezione L. De Angelis, Garbatella A distanza di quasi un anno da Rimini 2019,  per il 18 Aprile prossimo è stata fissata la data di convocazione per  la Conferenza di Organizzazione. Venne indicata come “Assemblea dei Circoli” anche come verifica dello stato di avanzamento del progetto fondativo. Perciò, questa riunione dei Soci fondatori e dei Coordinatori/Promotori p.t.  ha lo scopo di preparare l’appuntamento di Aprile che avrà come o.d.g. la verifica prima ricordata e la Presidenza “allargata” vi propone al riguardo alcune riflessioni per raccogliere un Vostro riscontro e i Vostri pareri sul percorso fino ad oggi effettuato e sul suo proseguimento. Questa nostra riflessione incrocia una situazione complicata  ed un  dibattito assai vivace e tormentato  in seno ad un  quadro politico affatto assestato che le recentissime elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria (caricate di valenza politica) non hanno migliorato e chiarito.  Infatti una stagione politica sembra destinata a finire come ci spiegò con lucidità e puntualità – nella sua bella relazione   in un nostro recente Seminario –  il compagno Beppe Scanni, vice presidente. La prospettiva, anche per quanto riguarda la tenuta dell’attuale Governo e la stessa governabilità del Paese,  rimane incerta e precaria. Sta infatti  dissolvendosi il M5S,  che in Parlamento (e nel Governo)  è la maggiore forza politica, almeno nelle sue attuali dimensioni; sta “perdendo pezzi” continuamente in termini di parlamentari, di aderenti e di consensi elettorali. Il suo stato di crisi (culminato con le dimissioni del suo capo politico)  ed  un continuo tracollo elettorale (rilevante l’ultimo  sia in Emilia che in Calabria) non possono sorprendere. E’ un epilogo naturale di  un  movimento di protesta  che, sorto e cresciuto sulla mera contestazione antisistema, ha dovuto assumersi la responsabilità di governare senza averne la vocazione, la cultura, l’esperienza e le competenze. I numerosi insuccessi elettorali locali ed alle “europee” sono anche frutto della delusione di tanti  suoi elettori  per la mancata o confusa  attuazione di molte delle facili e superficiali promesse. Il risultato elettorale in Emilia Romagna sembra – a giudizio di vari commentatori –  aver bloccato  ed  invertito  il logoramento che registra il PD da molto tempoma non è cosi’ perché in Calabria  il PD ha perso notevolmente (non solo la corsa al “governatorato” ma anche come lista del  Partito) aggiungendo questa Regione alle altre 10 (dieci) perdute e che prima governava! La scarsa affluenza di votanti  nella regione meridionale conferma la tendenza diffusa registrata in molte altre precedenti elezioni  di parte del c.d.  “popolo di sinistra” a  rifugiarsi  nell’astensione perché fa fatica a  riconoscersi  in un partito dalla incerta ed ambigua identità, percepito lontano – nelle sue  scelte di governo – dai bisogni di vasti ceti sociali colpiti dalla crisi (i c.d. “ultimi” tanto cari a Pietro Nenni ma anche i “penultimi” cioè quel ceto medio proletarizzato perché impoverito dalla crisi). Non è un caso che il risultato emiliano (in controtendenza) sia frutto soprattutto   – bisogna riconoscerlo – di una buona amministrazione impersonata dal Presidente Bonaccini che non ha  voluto presentarsi in campagna elettorale come esponente e rappresentante di Partito, il suo PD!  Nelle centinaia di comizi non ha mai accennato ad un solo provvedimento dell’attuale governo giallo-rosa, anzi NO , due volte, ma per parlarci contro! Il suo segretario Zingaretti punta, per uscire dalla “secche”, ad un rinnovamento piu’ formale che altro cambiando denominazione e simbolo al PD  quando le criticità di quest’ultimo stanno nella ambigua identità di un “amalgama mal riuscito” (copyright di D’Alema) e nei limiti dei suoi programmi di politica economica e sociale. Non sarà certo l’aumento e la strutturalità del “bonus fiscale” a favore di una parte dei ceti mediobassi a fargli guadagnare consensi. L’incapacità a stringere alleanze ed a leggere i cambiamenti intervenuti in una società in profonda trasformazione completano il suo bilancio politico deficitario. Situazione analoga, se non peggiore, è  per F.I., il cui declino – pur con motivazioni diverse – è tipico di forze politiche prossime piu’ a comitati elettorali e di interessi individuali o di gruppo da tutelare che rapidamente aggregano, ma anche si esauriscono quando vengono meno i risultati a causa della lontananza dal potere. Non sono certo i richiami a valori liberali piu’ declamati che praticati a risollevare le fortune di un movimento padronale a rischio di assorbimento in altri partiti della destra in particolare nelle avanzate ed importanti Regioni settentrionali. Rimane un fiorire di deboli presenze, prevalentemente da scissioni dal PD e da irrilevanti eredità della tradizione post-comunista, mentre si è invece affermata una destra illiberale, rozza, con seduzioni autoritarie, xenofoba ed antieuropea. Non solo la Lega di Salvini   che ha mutato il suo DNA originale ma anche FdI della Meloni. Una situazione preoccupante certamente per il Paese che perde sempre piu’ credito a livello internazionale (vedi il caso della crisi libica che ci ritroviamo alle porte di casa ma che ci vede del tutto ininfluenti), che non riesce a recuperare i livelli produttivi antecrisi del 2007/8 ed a ribaltare le situazioni di stagnazione se non di decrescita dell’economica reale con negative ripercussioni sull’occupazione. Ma tutto ciò puo’ rappresentare per noi una occasione irripetibile, per far  rinascere un soggetto di chiara impronta  socialista e riformista, che – assieme al popolarismo di ispirazione cristiano-sociale ed al liberalismo progressista –  può riempire un  vuoto – che si sta creando per le crisi partitiche prima ricordate –  di proposte e di competenze capaci di invertire il declino del Paese. E che ci sia la necessità di coprire questo vuoto lo dimostra un fatto eccezionale (che ci ripaga in parte di tante amarezze degli ultimi anni): MAI, dico mai, si è discusso nel passato così tanto di un leader politico, di uno statista da molti anni scomparso così come si è discusso recentemente, e si continuerà a discutere, di Bettino CRAXI e delle sue alte capacità di statista e degli impareggiabili  risultati per il Paese realizzati con la Sua  esperienza di governo. Dei problemi che riguardano l’agenda politica, economica e …

OGGI TUTTI “RIFORMISTI”, MA VERSO LA DISUGUAGLIANZA SOCIALE

grafica a cura di Mauro Biani |   di Marco Raveggi– Socialismo XXI Toscana |   Rispondendo ha una considerazione di un compagno, un responsabile nazionale di partito, ha scritto citando Renzi elevandolo a riformista di rango della “sinistra”, nel solco del socialismo e ne ha tessuto le lodi, accostandolo a Macron (altro grande riformista “socialista“) per poi lodarne le riforme come gli 80€, il Job’s Act o le modifiche costituzionali, per poi dire che oggi il socialismo deve guardare ai nuovi ultimi che non sono più gli operai o i contadini, bensì i “40enni professionisti precari” (parole sue).  Ho risposto ponendo questa riflessione: “leggendo la querelle di post e risposte, ho finalmente capito molto bene la differenza fra essere socialista oggi od essere un riformista moderato. Io sono uno di quelli che non ha apprezzato il Job’s Act ed ha contrastato la “riforma” costituzionale, vincendo il referendum. “L’appecoronamento” sulle posizioni renziane è evidente che non ha fatto bene certamente in special modo al Psi. Sono state quelle le scelte che ci hanno oramai relegato non alla marginalità politica, ma alla totale inesistenza. Inutile oltremodo citare Macron (amato da Renzi non dai socialisti), non è l’esempio del socialista moderno, anzi, è l’esempio tipico del socialista “ancien regime“, trasformista, opportunista, sempre pronto al salto della quaglia. Il socialismo difende i deboli e questi non sono i “giovani professionisti precari fino a 40 anni“, è veramente una affermazione insulsa (aggiungo qui, quasi offensiva), i deboli sono i “riders“, i deboli sono i ragazzi che fanno i promoter nei centri commerciali, i deboli sono le donne e gli uomini che fanno lavori di pulizia notturna per conto delle cooperative sociali (sociali de’ che?), i deboli sono i 50/60enni che si ritrovano senza lavoro e che non godono di nessun aiuto per reinserirsi, di nessun contributo formativo, i deboli sono gli anziani rimasti soli che improvvisamente scoprono che dopo anni e anni di passione, lavoro, attivismo, non sono più niente, per nessuno. Questi sono i nostri target da socialisti, non i 40enni professionisti precari. Il Socialismo non è un’associazione professionale è un movimento di liberazione ed emancipazione, certo nel senso odierno e occidentale ma è questo, non è un club di prescelti.”  Aggiungo qui che una riflessione vera su quali siano oggi i settori sociali che dobbiamo affiancare, tutelare e aiutare la dobbiamo fare.  Appare evidente che tutte le parole spese su Bettino e il suo operato politico, forse sono state inutili e gia disperse al vento. Il riformismo tanto sbandierato è una parola vuota se non indica quali sono le riforme che realmente vogliamo fare e per quali strati sociali le vogliamo fare. La riforma della prescrizione dei 5 stelle è riformismo?, la riforma di Berlusconi sul falso in bilancio è riformismo?, il famigerato Job’s Act di Renzi è riformismo? l’abolizione dell’Art. 18 è riformismo? la cosiddetta “buona scuola” è riformismo?…e si potrebbe continuare.Ma sono riforme di destra o di sinistra? Per capirlo basta riflettere su chi è il reale percettore dei benefici di queste riforme. Il socialismo è riformista?  Certamente si, ma le riforme che il socialismo deve produrre devono avere dei beneficiari ben individuabili negli strati più deboli della società e migliorarne le condizioni. Ovviamente anche le imprese e l’economia devono essere tutelate ed oggetto di queste riforme, ma il socialismo sta prima di tutto con la gente e fra la gente, non nelle segrete stanze del potere, oppure no?  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

VERSO GENOVA

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Ci stiamo avvicinando all’appuntamento di Genova dove si tenterà il rilancio del SOCIALISMO a seguito di un percorso iniziato da Socialismo XXI secolo; in vista di quell’appuntamento vorrei affrontare un tema che, a mio avviso, dovrebbe essere al centro dei nostri obiettivi. Il SOCIALISMO cui puntiamo è sicuramente un socialismo democratico, nessuno di noi ha in mente la realizzazione delle nostre idee percorrendo strade estranee alla democrazia e che rimandino ad esperienze rivoluzionarie che, connotate dal romanticismo della violenza o da forme di governi autoritari, spesso nel passato, oltre ad essere condannate dalla storia, hanno di fatto ritardato il cammino verso l’obiettivo. Sicuramente però non ci possiamo accontentare di una democrazia formale che ricerca la realizzazione dell’eguaglianza nei diritti civili di tutti i cittadini, con ciò mettendo le basi per una convivenza più accettabile, ma che si dimostra incapace di fornire alla società una democrazia concreta che miri ad una uguaglianza sostanziale dei soggetti membri della società. Voglio con ciò sottolineare il fallimento della vita reale del nostro Paese nel realizzare l’obiettivo contenuto nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Nel secondo dopoguerra il percorso del nostro Paese è cosparso di provvedimenti legislativi, di maturazioni culturali e mutazioni nella struttura del Paese che costituiscono passi in avanti nella realizzazione dell’art. 3 della Costituzione, nessuno può negare le conquiste realizzate dal riformismo, ma contemporaneamente non possiamo nasconderci che, in questo momento storico, quel cammino riformista si sia interrotto facendo anche riscontrare significativi passi indietro nella legislazione, nella cultura del paese, nel senso comune, nella prassi quotidiana. Se osserviamo la società attuale non possiamo non rilevare, oltre ad un aumento delle disuguaglianze, il crollo nella speranza in un futuro che sia capace di invertire la tendenza. Se osserviamo l’indice Gini (il misuratore delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza) vediamo che esso è in continuo aumento e ciò in tutti i paesi occidentali. L’Italia poi, in sede europea, è tra i paesi con le disuguaglianze più elevate, sia nella distribuzione del reddito che in quello della ricchezza. C’è in me la convinzione che il meccanismo economico, in particolare dopo lo scoppio della crisi del 2007, non generi sviluppo economico, ma generi da una parte debito e dall’altra disuguaglianza, in una spirale che non dà alcuna illusione di poter essere rovesciata. Il trickle-down E’ crollato il mito della società del trickle-down (sgocciolamento verso il basso) quella dottrina economica, che ha i suoi capostipiti nella coppia Tatcher-Reagan, che si basa sull’assunto secondo il quale i benefici economici elargiti a vantaggio dei ceti abbienti (in termini di alleggerimento dell’imposizione fiscale) favoriscono necessariamente, e ipso facto, l’intera società, comprese la middle class e le fasce di popolazione marginali e disagiate. Ogni giorno sentiamo parlare dell’impoverimento delle classi medie, della situazione disperante delle periferie in un paese con la disoccupazione a due cifre con indici enormi nella disoccupazione giovanile pur decongestionati dall’aumento dei Neet. Siamo usciti dalla crisi con l’1% della popolazione che diventa sempre più ricco ed il 99% che diventa sempre più povero. Osserviamo che le disuguaglianze non sono solo un disastro dal punto di vista sociale, ma anche da quello strettamente economico. Proprio gli anni della crisi dimostrano che la teoria del trickle-down é falsa e, di fatto, i ricchi stanno diventando sempre più ricchi, i poveri più poveri. Ci troviamo di fronte al fatto che 62 persone detengono la metà della ricchezza mondiale: sono dati davvero inconcepibili e forse non riusciamo neppure a renderci conto bene di cosa in realtà questi dati significhino. I difensori dell’esistente sostengono che la nuova crescita economica riequilibrerà la situazione sociale e che lo stesso mercato avrà una funzione redistributrice della ricchezza e dei redditi. I fatti ci dicono che tutto questo non si sta realizzando; l’Italia è un esempio lampante della falsità di tali dichiarazioni. Tagliamo gli stipendi, tagliamo la spesa sociale, tagliamo il Welfare, tagliamo le tasse sulle imprese in modo da diventare più competitivi, puntiamo tutto sull’export, senza porci il problema che la diminuzione della capacità di spesa delle famiglie e la crisi dei mercati emergenti proibiscono la ripresa seguendo questo percorso. L’ascensore sociale Chi nasce in una famiglia ricca rimane ricco e chi nasce in una povera rimane tale. Si è fermato l’«ascensore sociale», la possibilità di migliorare il proprio stato, di generazione in generazione. Le «condizioni di partenza» (ceto, sesso, luogo di nascita, scuole frequentate) sono diventate decisive e vincolanti. Lo dicono recenti e autorevoli studi: il dossier della Banca d’Italia «Istruzione, reddito e ricchezza: la persistenza tra generazioni in Italia» e gli ultimi rapporti Istat e poi la ricerca di Oxfam «Non rubateci il futuro» e il WeWorld Index 2019. I figli restano ai livelli dei padri. Chi nasce in una famiglia ricca rimane ricco e chi nasce in una povera rimane tale, col rischio di regredire. I figli dei laureati arrivano a laurearsi, invece, chi è figlio di genitori senza laurea, in 92 casi su 100, a sua volta, non avrà accesso all’istruzione universitaria. Se le cose non cambieranno, dice Oxfam, i discendenti di chi oggi fa parte del 10 per cento più povero delle famiglie italiane, vedranno passare cinque generazioni, prima di percepire il reddito medio nazionale. Ma un Paese bloccato non è solo un problema per chi rimane indietro, ma un guaio serio per tutti, perché, come scrivono i ricercatori Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio nello studio di Banca d’Italia «la possibilità di conseguire un miglioramento delle condizioni di vita costituisce un potente incentivo allo sviluppo delle proprie capacità, all’innovazione, all’impegno nel lavoro; ne trae …