QUANDO LA NAZIONE DEGLI OPPRESSI DISSE: «FACCIAMO UN PARTITO!»

La Romagna fine Ottocento di Andrea Costa, l’abbandono della politica insurrezionale e il lavoro organizzato tra le masse. Sono i passaggi storici affrontati nel secondo volume Einaudi della Storia del socialismo italiano, che ha per sottotitolo «Dalle prime lotte nella valle Padana ai Fasci siciliani». Ne abbiamo parlato con Renato Zangheri, che da qualche anno sta portando avanti un’opera avvincente ed imponente.

di Guido Liguori |

Dall’epoca dei pionieri, degli individui isolati, a quella dei primi gruppi e movimenti di massa. Consiste in questo il passaggio dal primo al secondo volume della Storia del socialismo italiano, opera imponente e avvincente che Renato Zangheri sta scrivendo da qualche anno. Il nuovo tomo, in libreria proprio oggi, ha come sottotitolo Dalle prime lotte nella Valle Padana ai Fasci siciliani (Einaudi, pp. 620, lire 90.000). È lo sviluppo del movimento socialista, dunque, negli ultimi due decenni dell’Ottocento: anni contrassegnati dalle prime lotte organizzate, dalla nascita delle Camere del lavoro e dei sindacati di categoria, dagli scioperi che prendono il posto delle rivolte spontanee, dallo sviluppo della stampa socialista, dal farsi partito del movimento stesso. Un ciclo di eventi dimenticato. Che abbiamo ricapitolato con l’autore del volume.

Zangheri dove cresce il movimento socialista italiano, e come mette radici?

Avviene in Romagna, con la nuova politica di Andrea Costa e dei suoi amici, che abbandonano la politica insurrezionale e iniziano a lavorare tra le masse. Nei primi anni ottanta dell’Ottocento è attivo in molte città il Partito socialista rivoluzionario romagnolo, esce il primo Avanti! spesso sequestrato dalle autorità. I maestri e altri intellettuali iniziano una propaganda tra le popolazioni rurali. Sorgono presto altri gruppi: a Mantova, dove agiscono, fra i muratori e fra i lavoratori della terra, uomini che vengono dal garibaldinismo, dalla molteplicità di esperienze ostacola dapprima la creazione di un partito nazionale, ma è un grande fattore di radicamento tra le masse.

Siamo ai primi anni dell’unità nazionale. Come vi si rapporta il movimento socialista? Contribuisce a creare un senso comune nazionale o consolida la più che comprensibile sfiducia delle masse proletarie verso lo Stato unitario?

La sfiducia prevale. La critica viene del resto anche da esponenti delle classi dirigenti, da Jacini a Sonnino. La loro preoccupazione è che le plebi rurali, influenzate da un clero antiunitario, si pongano definitivamente fuori dallo Stato: e sono la grande maggioranza degli abitanti del Regno, analfabeti, decimati dalla pellagra e dalla malaria, privi – diremmo oggi – di diritti di cittadinanza. Alla polemica democratica, mazziniana, contro lo Stato monarchico, si affianca la polemica dei socialisti, creando un clima di sfiducia, di delegittimazione delle istituzioni nazionali. Ma c’è anche un rovescio della medaglia: il movimento socialista porta un ordine dove c’erano tumulti, incoraggia e promuove l’alfabetizzazione, suscita una speranza, rende consapevole i braccianti mantovani, gli operai di Torino, i contadini siciliani di una sorte comune, li fa partecipare alla vita pubblica, nelle lotte elettorali e politiche. Anche le feste, soprattutto il 1° maggio, che si incomincia a celebrare nel 1890, costituiscono un appuntamento, l’occasione di una nuova socialità.

I giornali socialisti sono poco letti, specie nelle campagne. Ma i cantastorie girano nelle fiere, raccontano le novità. Giovani intellettuali abbandonano gli studi per andare a propagandare il socialismo.

Perché non avviene in Italia quel processo di «nazionalizzazione delle masse» che avviene, ad esempio, in Francia?

In Francia c’è una borghesia democratica, repubblicana, che in Italia è debole, dispersa. In Italia spetta ai socialisti condurre nella comunità nazionale le masse diseredate, e vi riescono, in una certa misura, sebbene contrastati e perseguitati. Crispi prima si definisce un «borghese rivoluzionario», poi finisce per reprimere duramente i lavoratori e scioglierne il partito. Non punta a «nazionalizzare» le masse, ma contribuisce a mantenerle fuori e contro lo Stato. Solo alla fine del secolo, con Giolitti e Zanardelli, e grazie anche a un forte slancio industriale, si faranno avanti settori di borghesia più liberale.

Cosa comporta il fatto che il movimento socialista abbia, nel nostro paese, un iniziale tratto agrario?

Una maggiore capacità di espansione in ceti non operai. L’80% della popolazione italiana viveva nelle campagne. La conquista delle campagne è un grande evento nazionale. Anche sul piano ideologico ci sono conseguenze rilevanti di questo socialismo rurale: una ripresa in forme nuove di antichi miti, di una attesa quasi messianica. Il socialismo italiano si adegua necessariamente a questa visione, la qualcosa comporta anche una rinuncia alla laicizzazione delle mentalità. Se i contadini mettevano insieme (non solo nel Sud) Garibaldi, Marx e la Madonna, non era per scelte superficiali o solo per la debolezza teorica degli apostoli socialisti. Corrispondeva a risonanze culturali profonde.

Qual è il ruolo specifico della classe operaia industriale in questo periodo? E quali sono le prime categorie a organizzarsi e a essere conquistate alla causa socialista?

La classe operaia è poco concentrata, la manifattura tessile è ancora prevalente. Gli orari di lavoro raggiungono le 14-16 ore, i salari sono molto bassi, insufficienti spesso ad acquistare due chili di pane al giorno. L’organizzazione del lavoro muta in questi anni, ad esempio a Milano, ma limitatamente a una quota del 20-30% degli operai meccanici e metallurgici. Entra in crisi il mestiere, sorge la nuova professionalità degli specializzati, aumentano gli operai comuni. Gli scioperi si intensificano, specie in Lombardia, Piemonte, Emilia, nell’edilizia, nel tessile e nei trasporti. Più tardi si allargano al metalmeccanico e all’alimentare. Muratori e tipografi sono fra le categorie più organizzate. Molti tipografi aderiscono al Partito operaio italiano. Ma i voti che raccolgono i candidati socialisti nelle elezioni legislative sono ancora scarsi. I primi deputati (Costa, Badaloni, Prampolini) vengono da zone rurali.

1892: nasce a Genova il partito socialista. Che rappresentatività territoriale possiede?

Alle regioni dell’Italia settentrionale e all’Emilia si aggiungono la Toscana e la Sicilia. Garibaldi Bosco, leader dei Fasci siciliani, è chiamato alla presidenza del Congresso di Genova. E’ in questo momento che il movimento socialista oltrepassa veramente l’ambito regionale. E rompe con anarchici da un lato e repubblicani e radicali dall’altro, affermando così nettamente una nuova identità. L’alleanza con i partiti «affini» venne poi recuperata pochi anni dopo, sotto i colpi della reazione, per difendere le libertà democratiche. Ma la leadership era passata da Costa a Turati.

Tu parli di una forte presenza femminile, agli albori del movimento operaio italiano. Qual è l’origine sociale e culturale di questa presenza?

Un gran numero di donne erano nella produzione tessile, molte nelle manifatture di tabacchi, moltissime nelle campagne. Nelle manifestazioni sono spesso le donne in prima fila, e cadono per prime. C’è anche una forte tendenza di intellettuali (maestre, giornaliste): sono socialiste e femministe, come Anna Maria Mozzoni, per non dire Anna Kuliscioff. Si divideranno purtroppo tra quelle che ritengono necessarie speciali misure di protezione per le donne lavoratrici e quelle che invece pensano a una assoluta parità. Sarà una divisione grave, non sufficientemente valutata dalla storiografia socialista.

Quale è il rapporto di questo nascente movimento socialista con la Chiesa e la cultura cattolica?

La Chiesa si comporta in modo diverso davanti ai moti del macinato (1869), che non condanna, e nei confronti dei successivi moti agrari nella Valle Padana, quindici anni dopo, che vengono deprecati apertamente dalle autorità ecclesiastiche. Il conflitto sociale è visto a questo punto come un pericolo maggiore del contrasto politico con lo Stato unitario. Nei momenti di scontro, la tradizionale guida ecclesiastica dei contadini viene meno. Questo segna una differenza di fondo rispetto al socialismo di altri paesi, assai più in difficoltà nelle campagne. Di lì a poco, con la Rerum Novarum, la Chiesa sì pone in ascolto delle rivendicazioni sociali, forse per la pressione dell’episcopato non italiano, specie nordamericano.

Che ruolo hanno, in questa prima fase espansiva, i miti e i simboli, nel consolidarsi del socialismo italiano?

Ho compiuto uno spoglio dei necrologi apparsi sulla stampa socialista: le virtù esaltate, gli ideali che hanno sorretto gli scomparsi, il compianto di chi resta, aiutano a farci un’idea della storia e della mentalità dei militanti, dei più oscuri, dei più semplici. C’è il combattente del Risorgimento, deluso che si è volto a nuove idee; il mazziniano in politica e socialista in economia; l’ateo che respinge il prete e, meno spesso, il credente che il prete accoglie in chiesa insieme alla sua bandiera; gli orfani, l’impegno ad aiutarli nella vita; la donna che ha combattuto portando una nota di gentilezza.

Quale la ricorrenza più celebrata?

Quella della Comune di Parigi, il 18 marzo, che è la data più ricordata fino all’affermarsi del 1° maggio. Per sfuggire ai divieti, si pongono bandiere rosse sui campanili, sugli alberi, persino su palloni aerostatici. Le beffe sono frequenti, si irridono gli avversari con uno stile carnevalesco. Si inscenano rappresentazioni teatrali di strada e di stalla. Tutta una cultura popolare è in movimento.

Come nasce il, socialismo teorico nel nostro paese? Prima di Antonio Labriola esso è tutto compattamente di impronta positivistica?

Marx è conosciuto male in Italia prima di Labriola, di seconda mano, attraverso le deformazioni degli avversari o fraintendimenti dei seguaci, anche se la sua fama vastissima, in quando fondatore dell’Internazionale, ed esaltatore della Comune. Achille Loria ne ha dato una interpretazione banale, che farà infuriare Engels. Il clima positivistico attira il pensiero di Marx in un‘orbita fatalistica

Ma li fatalismo corrisponde anche (come ha intuito Gramsci) a una debolezza e arretratezza delle forze popolari, a un bisogno di certezze, al di là delle traversie del presente. Il positivismo ha del resto tante facce, non tolte deteriori. E sarebbe sbagliato limitarsi a compilare un elenco degli errori. L’idea che i lavoratori, le donne, i più deboli possono reagire all’ingiustizia ed elevarsi è una grande acquisizione culturale, il cui senso non è esaurito, al di là degli errori e dei fallimenti.

Vi è dunque, da questa storia, anche una lezione per l’oggi?

Quello che il socialismo sarà non è compito dello storico stabilire, anche se è compito abbastanza urgente riprendere le fila di una ricerca a questo riguardo, uscendo dal quotidiano. Allo storico spetta di ricostruire il passato fuori dalle convenzioni e dalle leggende di partito, e dalle denigrazioni interessate, per capire quale mutamento il socialismo ha portato nella cultura delle donne e degli uomini del nostro tempo. Per discernere ciò che resta di duraturo e ciò che è caduco. Una salvaguardia della memoria, ma anche una preparazione senza pregiudizi ai compiti del presente e del futuro.