di Renato Costanzo Gatti Socialismo XXI Lazio |

 

Certamente la crisi del 2007, fu una crisi endogena, una crisi cioè insita nel sistema neoliberista dell’attuale fase storica del capitalismo. La causa va fatta risalire all’eccesso di creazione di debito privato, nella fattispecie finalizzato all’acquisto di una casa anche da parte di chi non se la poteva permettere. Questo approccio risulta tuttavia approssimativo in quanto le crisi generalmente non hanno una causa unica e determinante; come scrive Gramsci commentando la crisi del ’29 (pagina 1756 nell’edizione Gerratana):”

“Si potrebbe allora dire, e questo sarebbe il più esatto, che la crisi non è altro che l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma lo sviluppo del capitalismo è stato una continua crisi, se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno preso il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di crisi, che sono più gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano”

La coronavirus-crisi appare essere una crisi esogena, causata cioè da un elemento esterno al meccanismo economico. Ma forse più correttamente il coronavirus è un elemento che prende il sopravvento su altri elementi che prima erano in stato di equilibrio, determinando quel disequilibrio che sfocia in una cosiddetta crisi. Quali sono i disequilibri che possiamo identificare essere generati nell’attuale fase e che impatteranno sul futuro della crisi?

Il virus, con la costrizione in casa della cittadinanza che appare essere, come l’esempio cinese insegna, l’unica strada per combatterlo, innesca uno shock combinato sia alla domanda che all’offerta in quantità inedite. Si ferma la produzione e questa di conseguenza causa un impoverimento dei lavoratori con conseguente crollo della domanda, peraltro in alcuni specifici campi, è il crollo della domanda a causare il blocco dell’offerta; si pensi ad esempio al settore turistico. Ma questo crollo, in un mondo globalizzato, causa una diffusione a 360 gradi della domanda da un primo paese a tutti i paesi del globo.

Si pensi già nel mese di gennaio al blocco di molte industrie in un occidente ancora non infettato, causato dalla mancata fornitura di componenti essenziali prodotte in Cina. Questi effetti si sono assommati alla crisi generale di tutto il mondo occidentale che conosceva già situazioni di calo della produzione se non addirittura situazioni di recessione. E’ ovvio che le imprese il cui fatturato cala precipitosamente, si troveranno in crisi finanziaria, con difficoltà cioè di liquidità e di conseguenza di difficoltà nei confronti delle banche. Certo molto dipende dalla durata dell’emergenza, ma è ovvio che questa più si prolunga più saranno le imprese che entrano in crisi, incrementando il numero di sofferenze al sistema bancario. Se la cosa si protrae ecco che la crisi del settore bancario vedrà rendersi necessario l’intervento dello Stato, come successo nel 2008.

Intervento che riguarda sovvenzioni alle imprese e alle famiglie dei lavoratori che perdono il posto di lavoro e nel caso del coronavirus rifinanziamento del sistema sanitario con annessi acquisti di attrezzature e materiali sanitari. Il tutto in periodi di calo di redditi dichiarati associati a rinvio di pagamento delle imposte.

Le regole europee, in questa situazione, ma soprattutto in vista della devastante recessione che ci aspetta a causa di questa emergenza, paiono del tutto superate; il rendersi conto di ciò costituisce la sopravvivenza o meno della comunità; purtroppo la presidente della BCE non si è dimostrata all’altezza della situazione e dovrebbe essere rimossa, recentemente con la decisione di stanziare 750 miliardi per affrontare la crisi ed uscire dal patto di stabilità, l’Europa pare essere sensibile al tema.

Il punto sembra tuttavia essere un altro; dovremmo chiederci se quell’equilibrio instabile, che sempre più spesso crolla di fronte a cause esogene o endogene, possa essere in qualche modo governto dall’uomo, dalla razionalità oppure, lasciandoci adagiare nell’ideologia liberista, dobbiamo ritenere che ogni intervento della società politica, ogni provvedimento preso al di fuori delle logiche di mercato, non solo sarebbe inutile ma addirittura dannoso.

C’è cioè da chiedersi se in campo economico l’uomo possa essere gestore del suo destino operando razionalmente e pianificando i suoi comportamenti o debba subire i capricci di equilibri instabili sui quali non sia ammesso alcun intervento. Ma, inoltre, mi rendo conto della superficialità di questo confronto, infatti non è vero che noi ci dobbiamo confrontare con un mercato dove operano tanti fenomeni “naturali”  che talora si autoimmunizzano e in altre occasioni si sbilanciano causando le crisi; credo infatti che la cosiddetta “naturalità” del mercato altro non sia che un pallido sipario a regole precise volute e dettate dai detentori del potere economico. La regola di non intervenire non determina la naturalità degli eventi economici, bensì costituisce un intervento della società politica teso a vietare che la stessa interferisca con la società civile.

Ma anche quì occorre approfondire; le regole del capitale, a causa delle crisi e grazie al keynesismo, non sono più dirette a tenere lo stato fuori dall’economia, sono invece dirette al fine di usare lo stato come stampella del claudicante capitalismo intervenendo con politiche monetarie e fiscali a rimediare a quegli squilibri generati dalle crisi. E generalmente lo stato interviene per socializzare le perdite, lasciando che i profitti rimangano privati.

Ora, quella che va rivista è la filosofia del capitale, partendo dalla analisi delle sue contraddizioni: si produce per produrre profitto e non si produce per cercare di soddisfare i bisogni; i bisogni sono inculcati nelle menti dei subordinati con la potenza di persuasori palesi e occulti; i bisogni inculcati non servono ai subalterni, ma servono ai produttori di profitto per realizzare lo stesso; si vorrebbe che i subalterni spendessero sempre più soldi nell’acquisto dei prodotti produttori di profitto ma dall’altro lato si vorrebbe abbassare i salari pagati ai subalterni; ogni produttore vorrebbe che gli altri produttori pagassero alti salari ai loro dipendenti per incrementare la domanda e nel contempo vorrebbero che i propri dipendenti fossero invece pagati il meno possibile; si investe in tecnologia per ridurre al minimo il lavoro necessario e poi ci si accorge che la domanda cala; si cercano in altri paesi nuovi sbocchi per i propri prodotti e per nuova mano d’opera a basso costo creando depressione e recessione all’interno del proprio paese.

Ma la ricerca di un’altra filosofia non nasce oggi: nel 1967 Riccardo Lombardi in un discorso tenuto al salone Matteotti disse:

”I socialisti vogliono la società più ricca perché diversamente ricca: è il tipo di benessere, il tipo cioè di consumi che noi vogliamo cambiare, sono veramente le basi delle aspirazioni e delle preferenze e delle soddisfazioni da dare a queste preferenze che noi vogliamo cambiare, perché il socialismo è un progetto dell’uomo, soprattutto, è un progetto dell’uomo diverso, che abbia diversi bisogni e trovi il modo di soddisfare questi bisogni. (…)

La scelta dei consumi non è più di pertinenza del consumatore, poiché la società moderna, la società neocapitalistica è dominata dal produttore; lo schema di Einaudi, di una democrazia di consumatori che tutti i giorni coi loro acquisti depongono un bollettino di voto e dicono alla società che cosa essa deve produrre, se deve produrre più profumi e più cosmetici, o deve produrre più scuole attraverso la scheda data dall’acquisto, non è vero: oggi i tre quarti dei nostri consumi sono indotti dalla necessità della produzione. Sono i produttori che stabiliscono quello che noi dobbiamo desiderare e quello che noi dobbiamo consumare, e badate bene, compagni, questo è un problema che sta diventando endemico non soltanto nella società di capitalisti, ma nella società socialista (…)  la nostra lotta è contro la società affluente e il benessere, non già perché non vogliamo il benessere, ma perché vogliamo un certo tipo di benessere, non quello che domanda tremila tipi di cosmetici o una dispersione immensa di risorse, ma quello che domanda più cultura, che domanda più soddisfazione ai bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso, perché questa, che preconizziamo, è una società in cui l’uomo diventa diverso a poco a poco e diventa uguale; diventa uguale all’industriale o all’imprenditore non perché ha l’automobile, ma perché è capace di studiare, di apprezzare i beni essenziali della vita.”

Dieci anni dopo, nel 1977 Enrico Berlinguer indicò la strada dell’austerità (cosa ben diversa dall’austerity che viviamo ai nostri giorni) dicendo che:

«Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata. […]

Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità».

Continua Berlinguer: ”L’austerità a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate”

Superare il principio del “produrre per produrre profitto” con il principio di “produrre per i bisogni”, costituisce una proposta seria per ricominciare dopo che gli effetti del corona virus saranno lasciati alle spalle.