I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA

“Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)”

RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI

Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343

ANNO ACCADEMICO 1978-1979

 

PARTE SECONDA

IL CAPITALISMO DI STATO

I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO

La teoria del capitalismo di Stato prese vita nel periodo seguente il 1930 nel campo internazionale grazie alle teorie elaborate dal gruppo trotskista dissidente di sinistra, il cui esponente di rilievo fu lo slavo Ante Ciliga e nel campo italiano grazie alle considerazioni svolte da Amedeo Bordiga e dalla frazione a lui collegata della ‘Sinistra comunista’ negli stessi anni.

È inutile precisare che per i sostenitori di questa teoria o la Rivoluzione di Ottobre non produsse affatto nessun cambiamento in senso socialista nella realtà russa o, se lo produsse, questo avvio socialista è ormai da considerarsi terminato.

Veniamo quindi ai bordighisti e in particolare all’articolo di Prometeo, rivista del Partito Comunista Internazionalista, “La Russia sovietica dalla rivoluzione ad oggi” (1), il più importante e il più completo tra tutti gli articoli dedicati dalla rivista al modello sovietico. L’articolo parte dall’analisi del periodo della NEP e dell’economia mercantile che da essa ebbe origine. Essendo per i bordighisti l’esistenza del mercato elemento significativo della natura capitalista di un’economia, segue necessariamente che la politica della NEP, introducendo principi mercantili, indirizzò la Russia verso la trasformazione completa in stato capitalista. D’altronde, per l’articolista, questo indirizzo di politica economica fu un portato delle circostanze internazionali: la mancata rivoluzione in Occidente pose l’economia sovietica non di fronte alle immense risorse capitalistiche industriali europee, ma la abbandonò al ristretto campo delle sue povere risorse.

Fu proprio la necessità di consentire la continuazione del potere politico proletario e al tempo stesso la necessità di assicurare la vita materiale delle masse ed uno sviluppo dell’industria non inferiore a quello che si sarebbe realizzato nel paese anche senza rivoluzione proletaria, a produrre una svolta nella politica economica sovietica. Per sedare il malcontento contadino e impedire eventuali rivolte contro il governo sovietico (delle quali segno premonitore era stata quella di Tambov) (2), nel 1921 fu abolita l’odiata (dai contadini) requisizione forzata dei prodotti agricoli e si concesse loro il libero commercio degli stessi, una volta detratta l’imposta in natura che dovevano allo stato. Ma per fare in modo che i contadini collocassero effettivamente la loro produzione sul mercato questo mercato doveva esistere: cioè si doveva fare in modo che:

“I contadini trovassero sul mercato contro moneta i prodotti manifatturati dall’industria del superstite artigianato, di cui abbisognavano.” (3)

Per cui anche le aziende industriali e i pochi Sovkhoz furono organizzati sulla base dei meccanismi mercantili capitalistici: dovendo agire sul mercato furono infatti costretti a “rendere attiva la differenza tra la cifra monetaria delle entrate e quella dell’uscita, così come fanno le aziende dell’economia privata capitalistica”, afferma l’autore. Si venne in questo modo a determinare una situazione ibrida, in cui accanto ad alcuni elementi socialisti (la statizzazione delle banche, il monopolio del commercio estero, la statizzazione delle grandi industrie da parte del proletariato al potere) sussisteva un’economia mercantile.

L’autore riconosce che Lenin e Trotzky erano perfettamente coscienti della pericolosità della situazione creatasi e consapevoli che solo una rivoluzione comunista del proletariato dei paesi industriali poteva permettere loro di passare alla “estirpazione radicale di ogni base capitalistica”:

“Lenin, Trotzky ed il partito bolscevico non dissimularono, ma anzi dichiararono sempre apertamente che questo quadro economico anfibio tra elementi capitalistici e socialisti della produzione e della distribuzione consentiva economicamente l’accumulazione capitalistica e, socialmente, il formarsi di nuovi ceti con interessi anti proletari, ma si prefiggevano di fronteggiare l’influenza politica di questi col saldo potere del partito e dello Stato operaio allo scopo di guadagnare, evitando la caduta del popolo russo nella carestia economica che avrebbe significato la vittoria della controrivoluzione esterna, gli anni necessari ad attendere la vittoria del proletariato mondiale, per passare all’estirpazione radicale di ogni base sociale capitalistica.” (4)

In definitiva il mancato avvento della rivoluzione mondiale fu, per i bordighisti, la causa ultima della sconfitta del socialismo in Urss e della conseguente vittoria del mercato capitalistico sulla socializzazione dei mezzi di produzione oltre che di scambio.

La dannosa teoria del ‘socialismo in un solo paese’, a parere dell’autore, fornì il classico cacio sui maccheroni, sancendo la sconfitta anche ideologica della prima rivoluzione proletaria. Quindi, se all’inizio vi fu la consapevolezza del pericolo rappresentato dall’introduzione del mercato (‘quadro economico anfibio’), alla fine cause di ordine internazionale (la mancata rivoluzione mondiale) e cause di ordine interno (la teorizzazione del ‘socialismo in un solo paese’) diedero il colpo finale, provocando non la vittoria del settore socialista sul settore capitalista, ma l’esatto contrario. In Urss si delineò quella particolare forma di economia politica che i bordighisti definirono ‘capitalismo di Stato’. L’autore passa quindi in rassegna e in modo molto dettagliato le ragioni e le motivazioni di queste affermazioni. La permanenza del mercato è l’elemento fondamentale per poter definire capitalistico lo stato sovietico:

“Se il capitalismo non è il solo tipo delle economie mercantili, perché aggiunge al semplice mercantilismo i caratteri specifici della concentrazione dei mezzi produttivi e del lavoro associato, non è però possibile sradicare il capitalismo senza sradicare il mercantilismo della distribuzione.” (5)

Per l’autore infatti sarebbe errato attribuire enorme importanza alla pianificazione economica ed alla statizzazione dei mezzi di produzione senza attribuire un’importanza altrettanto profonda all’esistenza dei meccanismi mercantili nel settore della distribuzione. In Marx, sostiene Prometeo, la dottrina del plusvalore e dell’accumulazione “riposa sull’analisi e sulla critica della distribuzione mercantile:

“Un banale luogo comune sul marxismo è che questo abbia esaurito tutta la critica della produzione capitalistica delibando appena quella della distribuzione. All’opposto tutta la dottrina del plusvalore e dell’ accumulazione mercantile e tutta la costruzione del capitale parte dal fatto monetario e mercantile. Dice Marx: ‘nella società capitalistica il denaro diviene capitale, il capitale produce il plusvalore, ed il plusvalore va ad aumentare il capitale’. E aggiunge: ‘il rapporto ufficiale tra il capitalista e il salariato ha un carattere strettamente mercantile’.” (6)

Attraverso il mercato si realizza infatti il ‘fatto’ capitalistico dello scambio denaro-merce- denaro che produce alla fine del ciclo un aumento del capitale iniziale, generando l’estorsione del plusvalore. Questo concetto è evidente: se infatti, a causa dell’esistenza delle leggi di mercato, ogni azienda deve rendere attiva la differenza tra costi e ricavi, dovrà pure, secondo la legge del valore esposta da Marx, estorcere plusvalore alla forza lavoro, cioè retribuirla in misura inferiore al valore reale del tempo-lavoro impiegato, per poter ricavare un utile sul mercato dove le merci sono vendute tendenzialmente in relazione al valore-lavoro in esse contenuto. L’esistenza quindi del mercato, sostengono i bordighisti, produce inevitabilmente estorsione di plusvalore. Per cui una società veramente socialista che voglia porre fine al processo di estorsione del plusvalore deve estendere la socializzazione anche ai mezzi di scambio, deve socializzare la distribuzione, abolendo il meccanismo mercantile capitalistico dello scambio denaro-merce-denaro:

“Tutta la spiegazione del fenomeno capitalistico prende le mosse dal quesito storico che indaga come mai una quantità di moneta si cambi in un equivalente di merce, tale merce si cambi di nuovo in un equivalente di moneta e la moneta si trovi aumentata …. Finché il prodotto sarà una merce, il produttore sarà uno sfruttato. La formula corrente di socializzazione, ossia di soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione, va innanzitutto inseparabilmente estesa ai mezzi di scambio, e per questi non si devono solo intendere i mezzi di materiale trasporto della merce dalle fabbriche ai luoghi di consumo, ma tutta la specifica organizzazione del commercio borgese all’ingrosso e al minuto.” (7)

Se l’esistenza del mercato e del conseguente meccanismo denaro-merce-denaro (sia che la merce sia rappresentata da prodotti o dal lavoro umano) provoca inevitabilmente l’estorsione di plusvalore, il sorgere del profitto; poca importanza ha il fatto che questo profitto venga incamerato dallo stato o addirittura suddiviso tra i produttori stessi, non essendo questo lo scopo che uno stato socialista deve proporsi, non colpendo in questo modo al cuore il sistema capitalistico di produzione, dato che:

“Non è soluzione socialista, totale o parziale, la confisca del profitto e la sua distribuzione più o meno eguagliata ai lavoratori della singola azienda (cooperazione, associazionismo, azionariato sociale) come non è socialismo la distribuzione di esso a tutti i cittadini, ammesso pure che lo stato, anziché nelle mani di classi minoritarie, sia passato nelle mani del proletariato: questo è pur sempre capitalismo di Stato.” (8)

Il programma comunista consiste quindi, oltre che nell’abolizione del padrone anche e principalmente nell’abolizione dei meccanismi mercantili di distribuzione:

“Carattere discriminante delle realizzazioni socialiste nell’economia è lo svincolo di una massa di forze produttive dal meccanismo monetario mercantile e la loro organizzazione in funzione del più alto rendimento del prodotto reso sociale …. Il programma comunista non consiste nell’identificare i prestatori di lavoro coi padroni dell’azienda, ma consiste nel sopprimere il padronato, il trattamento della forza lavoro come merce e l’estorsione del plusvalore che si verifica sempre quando l’azienda vede le sue attività amministrate col sistema monetario mercantile, sia che il suo titolare giuridico sia un privato, una società di privati, lo stato o anche l’associazione di tutti i dipendenti dell’azienda.” (9)

Se in Russia inoltre ogni industria deve orientare la propria produzione verso la realizzazione del profitto (esistendo tuttora i meccanismi dell’economia mercantile) esisteranno sempre anche i mali del capitalismo: sfruttamento del lavoro attraverso l’estorsione del plusvalore e distruzione delle forze produttive, naturali ed umane, causata dall’anarchia del funzionamento del mercato: rialzo e caduta dei prezzi, crisi nelle vendite, fenomeno conseguente della disoccupazione, eccetera. Tutti questi mali, infatti, derivano dal fatto che in Russia si deve garantire il profitto, mantenendo inalterati i meccanismi mercantili e non il ‘prodotto sociale’, cioè il prodotto la cui natura non è quella di essere ‘merce’, scambiata sul mercato contro un equivalente in moneta:

“Il regime economico borgese, infatti, viene accusato e condannato non per il fatto bruto del consumo di tutto il profitto delle aziende da parte della minoranza padronale, che in sostanza costituirebbe una lieve sperequazione distributiva sociale, ma invece per lo sperpero cento volte maggiore di forze produttive che deriva appunto dal tendere tutta la presente impalcatura economica e sociale ad assicurare e garantire il profitto privato e non il profitto sociale.” (10)

Ma se il fatto della statalizzazione dei profitti, ovviamente anche nelle perdite, o addirittura la loro redistribuzione fra i produttori stessi, non costituiscono elemento sufficiente per definire socialista una società, ne segue per via necessaria che neppure la statizzazione , o nazionalizzazione, dei mezzi di produzione è misura sufficiente a tale scopo, in quanto non elimina il fatto dello sfruttamento del lavoro attraverso le estorsioni del plusvalore. In un altro articolo di Prometeo si afferma infatti:

“Un punto fermo dell’analisi marxista della società e del sistema di produzione borgese deve ormai essere considerato il fatto che l’intervento e il controllo dello Stato nell’economia non solo non rappresenta una frattura nelle leggi fondamentali dell’economia capitalista, ma è il portato inevitabile e naturale di tutto il suo sviluppo storico e che quest’ultimo intervento può spingersi fino all’eliminazione della forma giuridica della proprietà individuale dei mezzi di produzione; non solo senza eliminare, ma al contrario potenziando, quello che è il fatto fondamentale del sistema di produzione capitalista: lo sfruttamento del lavoro umano attraverso l’appropriazione di plusvalore…. Di fronte alla campagna pubblicitaria che i partiti dalla ricostruzione nazionale svolgono in tutti i paesi per gabellare la politica delle nazionalizzazioni come un passo avanti verso il socialismo, l’avanguardia rivoluzionaria deve avere il coraggio di affermare che al contrario quella politica rappresenta il più raffinato metodo di sfruttamento intensivo del lavoro, di conservazione totalitaria del profitto.” (11)

Al concetto della statizzazione attuata in Russia l’autore contrappone il solo ideale socialista, quello della socializzazione:

“Non si deve confondere statizzazione con socializzazione, in quanto la statizzazione è attuabile perfettamente in regime capitalistico. Lo stato borghese non espropria ma acquista, contro indennità, grandi aziende private e le gestisce con la stessa tecnica delle aziende private capitalistiche anche se per avventura in qualche caso ne colma il passivo, per motivi politici, con altre risorse del suo bilancio. I lavoratori di tale azienda non cessano di essere salariati e sfruttati. La generalizzazione di questo sistema che, in un certo senso, va attuandosi con l’evolversi dell’imperialismo monopolistico, conduce non ad una prima forma di socialismo, ma al capitalismo di Stato.” (12)

Ora, se la statalizzazione attuata dall’economia borgese non elimina di certo lo sfruttamento del lavoro, l’articolista sostiene che neppure in un regime nel quale il potere sia nelle mani del proletariato essa possa eliminare automaticamente lo sfruttamento stesso, poiché solo attraverso la disintegrazione del mercato può essere eliminato il principio del profitto e della conseguente estorsione di plusvalore:

“Fra statizzazione delle aziende e socializzazione dell’economia vi è quindi una differenza talmente sostanziale che non solo in tempi di potere borgese esse sono in aperta antitesi, ma anche dopo il passaggio del potere al proletariato rivoluzionario non coincidono automaticamente, bensì soltanto nella misura in cui la soppressione della proprietà privata delle aziende si accompagna a quella del meccanismo privato mercantile dell’organizzazione dell’azienda di distribuzione.” (13)

Se socialista non è il sistema di produzione industriale basato sulla proprietà statale dei mezzi di produzione, tanto meno lo sarà quello agricolo kolkoziano, cooperativo, dove addirittura la proprietà dei mezzi di produzione è per la maggior parte privata (cioè quella proprietà è strettamente privata nel caso dell’ appezzamento del singolo contadino kolkoziano, pur sempre privata è anche quella cosiddetta collettiva, perché di una collettività limitata e non dell’intera società) e solo in minima parte statale nelle aziende statali, i Sovkhoz.

I guasti del capitalismo si ripresentano qui raddoppiati dall’esistenza della proprietà privata. Cito a questo proposito un brano tratto da uno scritto di Bordiga, successivo gli anni oggetto della nostra indagine i cui presupposti sono già contenuti però nella teoria sviluppata fino al 1946, data dell’articolo più volte citato. Esso ci fornirà un interessante motivo per sviluppare in seguito delle osservazioni circa la teoria del ‘capitalismo di Stato’. L’affermazione di Bordiga è precisa: se esistono nei kolchoz delle campagne russe un capitale aziendale, un mercato attraverso il quale collocare i prodotti del kolchoz stesso e infine un profitto aziendale, la forma economica che definisce questo tipo di rapporti è senza dubbio quella capitalistica:

“La proprietà spacciata per colcosiana-socialista ha per oggetto un capitale aziendale e si estende, come in ogni forma capitalistica classica nel senso di Marx, ai prodotti forniti dai kolchoz. Se lo stato li vuole, li deve comprare. Il kolchoz è un capitalista in cui il capitale appartiene ai lavoratori e impiegati. Quando vi è un premio, un profitto di azienda o viene investito a migliorare gli impianti o se lo dividono i cooperatori. Questo ideale ‘stravecchio’ va dagli scritti ingenui di Mazzini alle colossali corbellature della plutocrazia moderna d’America. Quello che il kolchoz ha di originale e di gran lunga più reazionario è il suo secondo aspetto, quello parcellare, familiare …. La categoria economica in cui classifichiamo il kolchoz è dunque la ditta capitalistica, cui appartiene il capitale investito, costante e variabile, che compra la forza lavoro salariata, ha la totale disposizione delle merci prodotte, le colloca sul mercato, realizzando un utile monetario quando il suo bilancio sia attivo. L’attivo non spetta ad un gruppo di privati ma nemmeno allo stato: esso spetta, qualitativamente parlando, agli stessi suoi cooperatori, colcosiani. Ditta dunque capitalistica privata e cooperativa.” (14)

Resta da chiedersi come mai per i bordighisti la Russia si sia evoluta nel senso del capitalismo monopolistico di Stato invece che privato e quindi, dato che c’è sfruttamento del lavoro, quali siano le classi sfruttatrici che sostituiscono quella dei capitalisti privati.

Alla prima questione si ha una risposta in un altro articolo di Prometeo dove si afferma che la restaurazione del capitalismo nella sua forma classica dell’iniziativa e della proprietà privata è stata resa impossibile in Russia dallo sviluppo storico intrapreso dal capitalismo a livello internazionale. Sempre più infatti, a giudizio dell’articolista, il capitalismo internazionale abbandona i principi economici liberisti per orientarsi verso la forma caratterizzata dal monopolio imperialistico e dal totalitarismo statale. Poiché nessun paese può isolarsi dal processo e dallo stadio raggiunto dall’evoluzione storica in un dato momento, questo processo (la formazione dei monopoli imperialistici e il totalitarismo statale) influì decisamente sulla realtà economica politica della Russia, spingendola lungo la via dei piani quinquennali e del capitalismo di Stato, anziché lungo quella classica della proprietà individuale e privata dei mezzi di produzione:
“Quanto alle posizioni difese dalla destra, nel ’27-‘28, esse rappresentavano indubbiamente il veicolo per una restaurazione della classe borghese in Russia secondo il tipo classico della ricostruzione di un economia basata sul tipo classico dell’iniziativa e della proprietà privata. Ma la storia doveva escludere questa eventualità. Nella fase dell’imperialismo monopolista e del totalitarismo statale, il capovolgimento della politica russa si volgerà lungo l’altra via dei piani quinquennali e del capitalismo di Stato …. L’evoluzione storica non obbedisce a criteri formalistici a tal punto che una restaurazione dei principi economici del capitalismo non potesse essere considerata possibile in Russia che attraverso il ristabilimento della forma classica della proprietà individuale. La Russia si troverà nel 1927 e successivamente sempre più in una situazione mondiale caratterizzata, come nel secolo scorso, dal riflesso dei principi economici liberistici nell’appropriazione privata dei mezzi di produzione del plusvalore, ma in un’altra situazione che conosce il totalitarismo statale e la soggiogazione a questa di tutte le forme dell’iniziativa privata.” (15)

Al secondo problema, quello dell’identificazione della classe sfruttatrice, dà una risposta un altro articolo dove si afferma che due sono le forze componenti di questa classe sfruttatrice: da un lato le forze del capitalismo internazionale che, attraverso i meccanismi del mercato internazionale (è utile sottolineare ancora le ragioni per le quali, secondo i bordighisti, il mercato sia sempre, indipendentemente dalla sua estensione nazionale e internazionale, strumento dell’estorsione di plusvalore) cui la Russia deve inderogabilmente ricorrere per integrare la sua economia, estorcono un plusprodotto all’economia sovietica, plusprodotto formato evidentemente della classe operaia che risulta in tal modo soggetta a meccanismi tipici dello sfruttamento capitalistico, dall’altro l’oligarchia interna dominante:

“Né può dirsi che la dittatura del proletariato sia venuta a rendersi inutile per l’inesistenza di una classe borghese privilegiata, in quanto la classe sfruttatrice del proletariato russo, che forse in un lontano domani potrà ricomparire alla luce del sole nell’interno dello stesso paese, oggi è costituita da due forze storicamente evidenti, il capitalismo internazionale e la stessa oligarchia dominante, sulla quale appoggiano contadini, mercanti, speculatori arricchiti ed intellettuali pronti a propiziarsi il più potente.” (16)

L’identificazione della classe capitalista internazionale sfruttatrice del proletariato russo non presenta difficoltà teoriche o pratiche, senz’altro più difficile risulta il compito di dare un volto di classe a quella oligarchia interna dominante. In pratica si tratta di rispondere la domanda: chi sono i rappresentanti della classe capitalistica interna? Bordiga da una parte ritiene che questo ceto padronale possa essere costituito dalla burocrazia:

“Quanto al rapporto fra burocrazia di Stato ed economia interna, quando il sistema mercantile sopravvive e si dilata ogni giorno (come vantano le stesse statistiche ufficiali russe del risparmio, del volume degli affari), è inevitabile che la burocrazia si muova in una sfera di privilegio economico e prenda a mano a mano le caratteristiche di un ceto padronale.” (17)

Ma il pensiero bordighista non poteva arrivare a definire la burocrazia come classe in senso marxista, l’autore usa infatti il termine ‘ceto’. Questo avrebbe contraddetto tutte le analisi ortodosse che vedevano nella burocrazia la rappresentante degli interessi capitalistici, non la depositaria, la padrona, di questi interessi stessi. Costituiva cioè una propaggine del capitalismo o di altre forme economiche politiche, non la sua essenza. “La burocrazia l’hanno avuta tutti i regimi di classe: essa non può essere una classe” (18). Se quindi la burocrazia non può essere una classe, la classe sfruttatrice capitalistica, deve esistere una classe nel senso marxista che giustifichi il giudizio dato sull’esistenza del capitalismo in URSS:

“In Russia in quanto il capitalismo monetario privato, appunto perché impedito in ogni senso dall’investirsi palesemente in diretta gestione dei mezzi di produzione, trova vantaggio ad aprirsi campi di speculazione retribuendo in forme più o meni illecite o illegali gli enti onnipotenti della burocrazia di Stato, che vigilano i vari settori dell’economia.” (19)

Quindi esiste un capitalismo monetario privato, di cui la burocrazia coltiverebbe gli interessi, che, seppur impedito, cova sotto le ceneri.

Si può concludere questa lunga ma interessante rassegna del pensiero bordighista col dare soddisfazione ad un’ultima domanda: poteva la Russia sovietica evolversi in modo diverso da quello effettivamente seguito? Cioè: la via che la condusse al capitalismo era inevitabile o si presentava con la possibilità del bivio? La risposta, una volta stabilito lo stretto legame deterministico che lega la politica all’economia, si dà necessariamente. La degenerazione, infatti, in senso capitalista dell’URSS ha cause molto profonde, tali da escludere l’attribuzione di questa colpa a errori commessi da persone o gruppi che ricoprono le più importanti cariche dello Stato sovietico. L’analisi per i bordighisti non si può liquidare quindi con la condanna morale di Stalin. Questo sarebbe solo sintomo di cecità e non si farebbe un solo passo avanti nella comprensione dello sviluppo storico mondiale e di quello russo in particolare.

“Mentre rivoluzionari non devono tacere assolutamente la gravità di una simile situazione, quella russa, la critica di essa non deve però essere rivolta nel senso di una condanna a gruppi e uomini la cui deprecata azione avrebbe condotto a questi deprecabili risultati. Le cause di esse sono così profonde e vaste che non si possono ridurre ad errori di applicazione delle giuste direttive degli organismi statali e di polizia della Russia dei soviet, né si possono liquidare con la condanna morale di Stalin e della sua cricca.” (20)

La colpa, infatti, di questa degenerazione in senso capitalistico dello Stato sovietico e la vittoria della cricca stalinista è infatti da addebitarsi alla mancata rivoluzione proletaria mondiale:

“Se la rivoluzione mondiale avesse marciato innanzi, nello stato e nel partito russo avrebbero prevalso le direttive e i gruppi comunisti; la situazione contraria ha fatto prevalere i gruppi opportunisti.” (21)

Assurdo è per i bordighisti invocare come medicina atta a curare la malattia capitalista russa il rimedio della “vera democrazia negli organi dirigenti del partito”. Teorizzando quel rimedio, non solo non si risolve nessuno dei mali del capitalismo russo perché, come la storia dimostra, l’esistenza della democrazia nei paesi capitalistici non ha mai lenito i dolorosi effetti dello sfruttamento, né ha mai modificato il quadro politico-economico dell’oppressione, ma si corre anche e soprattutto il rischio di abbandonare il principio della dittatura rivoluzionaria che comporta, in alcuni momenti storici, la sottomissione dei più alle idee e alla pratica di una minoranza rivoluzionaria che calpesta in questo modo le vuote formule della democrazia in nome del progresso storico.

“Nessuna ricetta organizzata poteva evitarlo, tanto meno quella, da molte parti invocata, di una vera democrazia negli organi sovietici e nei ranghi del partito comunista. Il sistema elettorale maggioritario, che non ha alcun serio valore nella società borghese, non né ha neppure nel seno degli organi proletari. Vi sono situazioni – e la più classica fu quella del 1917 – in cui la minoranza del partito contro la maggioranza impone la giusta politica, come sostenne nel Comitato centrale Lenin contro tutti, Stalin compreso. La soluzione della democrazia interna conduce alle frasi banali che il socialismo è democrazia e porta a ricadere nella condanna del concetto basilare della dittatura rivoluzionaria, per cui nei momenti decisivi della storia gli eventi più fecondi divengono contro il parere dei più, oltre che contro l’interesse oppressivo dei pochissimi.” (22)

Solamente quando le forme di produzione socialiste avranno raggiunto un’espansione e un rendimento elevato, al punto da escludere qualsiasi possibile restaurazione di antiche forme di produzione, i pericoli di degenerazione saranno del tutto impossibili:

“Come il salariato ha sostituito lo schiavismo, e nessuno ha interesse a ristabilire questo, così le nuove forme di produzione socialista resisteranno alle degenerazioni controrivoluzionarie quando la loro espansione e il loro altissimo rendimento escluderanno che qualunque strato sociale abbia interesse a ristabilire gli antichi rapporti.” (23)

Concludo la rassegna del pensiero bordighista riassumendo e sintetizzando i punti fondamentali del loro pensiero:

1) la Nep introdusse in Russia il mercato per risolvere i problemi provocati dalla scarsezza delle risorse economiche del paese, in attesa che una rivoluzione proletaria nei paesi occidentali progrediti la aiutasse ad uscire dalla difficile situazione.

2) La mancata rivoluzione mondiale e la teorizzazione della possibilità di costruire il socialismo in un solo paese assestarono il colpo definitivo al tentativo di realizzare il socialismo in Russia.

3) La Russia è un paese a capitalismo statale, poiché sono funzionanti nel campo della distribuzione i meccanismi mercantili che generano inevitabilmente lo sfruttamento del lavoro, l’estorsione del plusvalore e provocano la distruzione delle forze produttive.

4) La statizzazione e la pianificazione dell’economia non sono misure sufficienti ad attuare il socialismo, se ad esse non corrisponde l’eliminazione dei meccanismi del mercato.

5) Tanto meno sarà da definirsi socialista l’economia agricola russa, basata addirittura sulla proprietà privata del suolo (individuale – del singolo contadino – o comune del limitato numero dei contadini dei kolchoz), degli strumenti e dei prodotti del lavoro. È anche questa e a maggior ragione un’economia capitalistica privata e cooperativa.

6) Se la Russia si è evoluta nel senso del capitalismo di Stato anziché privato ciò è in dipendenza dal fatto che l’evoluzione storica conduce sempre più chiaramente verso forme politiche economiche caratterizzate dall’imperialismo monopolistico e del totalitarismo statale, abbandonando in parte la forma classica della proprietà individuale.

7) le forze che attualmente opprimono il popolo russo sono: la classe internazionale dei capitalisti e l’oligarchia interna dominante.

Note:

1- La Russia sovietica dalla rivoluzione ad oggi in “Prometeo” n° 1.

2 – Per le notizie sulla rivolta di Tambov, confronta il libro di Giuseppe Boffa “Storia dell’unione sovietica” edizione Mondadori, Milano 1976, pp. 176 – 177.

3 – La Russia sovietica …. art. cit.

4 – Ibidem

5 – Ibidem

6 – Ibidem

7- Ibidem

8 – Ibidem

9 – Ibidem

10 – Ibidem

11 – Le nazionalizzazioni arma del capitalismo in “Prometeo”, n°3.

12 – La Russia sovietica …. art. cit.

13 – Ibidem

14 – Amadeo Bordiga “Struttura economica e sociale della Russia ad oggi” editoriale Contro, Milano 1966, pp. 147 – 149 vol. II. Lo scritto di Bordiga è però del 1955.

15 – Le nazionalizzazioni …. art. cit.

16 – La Russia sovietica …. Art. cit.

17 – Ibidem

18 – Amadeo Bordiga “Scritti scelti”, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano 1975, p. 231.

19 – La Russia sovietica …. art. cit.

20 – Ibidem

21 – Ibidem

22 – Ibidem

23 – Ibidem