CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE SECONDA IL CAPITALISMO DI STATO CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’ Osservazioni Comincio subito col dire che non concordo con la teoria sviluppata dei bordighisti, tendente a definire il sistema sociale dell’URSS ‘capitalismo di Stato’, poiché credo si debba più propriamente ritenere l’Unione Sovietica uno stato basato sul nuovo tipo di sfruttamento diverso da quelli passati e la cui natura è definita dalla teoria del ‘collettivismo burocratico’. Cercherò quindi in questo capitolo riservato alle critiche di mostrare i motivi che, a mio parere, rendono impreciso il giudizio bordighiano sulla natura sociale dell’URSS. Come abbiamo già fatto rilevare nell’esposizione al pensiero della Sinistra comunista (è questa la denominazione assunta dalla corrente politica bordighiana), elemento fondamentale, nel senso letterale che ‘fonda’, l’economia capitalista è l’esistenza del mercato. E’ infatti attraverso il mercato che il capitalismo ha imposto la propria egemonia all’intera società e non si può distruggere il capitalismo senza distruggere l’elemento mercantile che determina, come abbiamo visto, tutte le caratteristiche negative dei sistemi capitalistici: l’estorsione del plusvalore, l’accumulo dei profitti, la riduzione della forza lavoro a merce, pagata quindi con un salario che rappresenta il valore-lavoro necessario mantenerla attiva e a rigenerarla e la distruzione di ingenti forze produttive, sia umanane che naturali. Vediamo quindi con ordine tutte queste problematiche avanzate dal pensiero bordighista, cominciando dal fatto mercato. IL MERCATO Cominciamo col chiederci: esiste veramente un mercato nel sistema economico sovietico? Marx diceva che si ha ‘merce’ e scambio mercantile solamente nel caso in cui più organismi produttivi, più aziende o imprese, intervengono indipendentemente gli uni dagli altri a fornire il prodotto: “i prodotti del lavoro non diverrebbero merci se non fossero prodotti di lavori privati indipendenti, esercitati cioè indipendentemente gli uni dagli altri”. Che la concorrenza mercantile sia uno dei punti cardine fondamentali del capitalismo è un pensiero costante di Marx che in un’altra occasione esclude che il capitale possa esistere se non nella forma di innumerevoli capitali: “Per definizione la concorrenza è la natura interna del capitale. La sua caratteristica essenziale è di apparire come l’azione reciproca di tutti i capitali. Il capitale non esiste e non può esistere che in quanto diviso in innumerevoli capitali: per questo esso è condizionato dall’azione e dalla reazione degli uni sugli altri.” (24) Se la merce si caratterizza, per Mark, come il prodotto di più lavori privati, esercitati indipendentemente gli uni dagli altri e se il capitale poi esiste solo in quanto diviso in innumerevoli capitali, in Russia, dove lo stato è padrone di tutti i mezzi di produzione, non possono esistere prodotti di lavori privati esercitati indipendentemente o innumerevoli capitali. Secondo il marxismo quindi non si dovrebbero riscontrare nell’economia sovietica i concetti di merce e di capitale. È questo infatti ciò che noi crediamo: il mercato, il carattere mercantile del prodotto e il capitale non esistono più nell’Unione Sovietica. Vediamo nei suoi aspetti particolari, cioè analizzando i vari tipi di scambio esistenti in Urss e studiando la loro natura, cosa significhi e come si strutturi questa morte del mercato e del capitale. 1 – Scambi tra industria e industria. L’affermazione che gli scambi tra le varie industrie (ricordiamo che sono proprietà statali), poiché avvengono tramite l’intermediario monetario assumano la caratteristica di scambio di merci, anziché di valori d’uso , è imprecisa. Lo scambio monetario infatti implica il concetto di compravendita e, laddove esiste un unico proprietario, lo stato, è arduo ritrovare il funzionamento del meccanismo di compravendita. Quel tipo di scambio assomiglia piuttosto ad uno spostamento di un oggetto da un luogo ad un altro in una casa : non si è verificato alcun processo di vendita o di acquisto, ma si è solo realizzato uno spostamento funzionale agli interessi del proprietario della casa stessa. La moneta si ridurrebbe quindi alla funzione di strumento di conto che serva in qualche modo a regolare la produzione, ad equilibrare i vari settori della produzione stessa. È cioè uno strumento che permette di controllare il funzionamento delle varie aziende, di controllare il loro attivo o passivo e che permette di prendere decisioni, di orientare la produzione in un senso o in un altro a seconda della convenienza economica. Si può dire quindi: strumento di conto e di controllo, ma non più, come nel capitalismo, una categoria mercantile di scambio implicante necessariamente il concetto di compravendita. Il prodotto perde il suo carattere mercantile, ossia il valore di scambio, e mantiene unicamente il valore d’uso, a-mercantile. 2 – Scambio tra kolkhoz e stato. Bordiga afferma l’esistenza di questo mercato colcosiano nel brano del libro da noi citato in precedenza. Ma l’affermazione: “se lo stato li vuole (i prodotti del kolchoz) li deve comprare” mi sembra estremamente tirata per i capelli: se il Kolkoz non vuole infatti li deve vendere lo stesso allo stato e ai prezzi fissati: in questo modo scompare l’economia mercantile. Se non vi è libera concorrenza che tipo di economia mercantile ne può derivare? Il dire che anche nelle economie capitalistiche lo stato interviene nel fissare i prezzi – massimi e minimi – e ad orientare gli scambi, magari pianificando leggermente, non dà ragione del parallelo istituito tra le due realtà. Il grado di soffocamento del mercato nelle due forme economiche è ben diverso. Diversità di grado che non può non incidere e non determinare una struttura diversa per le due economie. Un’economia pianificata (meglio, centralizzata e controllata dallo stato) con un sistema di mercato è ben diversa da un’economia di mercato con un simulacro di piano e di controllo statale. 3 – Scambio consumatori – stato. Da questo punto di vista sembrerebbe che la possibilità dell’esistenza di uno scambio mercantile basato, ripeto, sulla compravendita sia reale: esiste infatti un venditore, lo stato, e un acquirente, il consumatore. Anche qui, però, si tratta solo di un’analogia di superficie in quanto …

I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE SECONDA IL CAPITALISMO DI STATO I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO La teoria del capitalismo di Stato prese vita nel periodo seguente il 1930 nel campo internazionale grazie alle teorie elaborate dal gruppo trotskista dissidente di sinistra, il cui esponente di rilievo fu lo slavo Ante Ciliga e nel campo italiano grazie alle considerazioni svolte da Amedeo Bordiga e dalla frazione a lui collegata della ‘Sinistra comunista’ negli stessi anni. È inutile precisare che per i sostenitori di questa teoria o la Rivoluzione di Ottobre non produsse affatto nessun cambiamento in senso socialista nella realtà russa o, se lo produsse, questo avvio socialista è ormai da considerarsi terminato. Veniamo quindi ai bordighisti e in particolare all’articolo di Prometeo, rivista del Partito Comunista Internazionalista, “La Russia sovietica dalla rivoluzione ad oggi” (1), il più importante e il più completo tra tutti gli articoli dedicati dalla rivista al modello sovietico. L’articolo parte dall’analisi del periodo della NEP e dell’economia mercantile che da essa ebbe origine. Essendo per i bordighisti l’esistenza del mercato elemento significativo della natura capitalista di un’economia, segue necessariamente che la politica della NEP, introducendo principi mercantili, indirizzò la Russia verso la trasformazione completa in stato capitalista. D’altronde, per l’articolista, questo indirizzo di politica economica fu un portato delle circostanze internazionali: la mancata rivoluzione in Occidente pose l’economia sovietica non di fronte alle immense risorse capitalistiche industriali europee, ma la abbandonò al ristretto campo delle sue povere risorse. Fu proprio la necessità di consentire la continuazione del potere politico proletario e al tempo stesso la necessità di assicurare la vita materiale delle masse ed uno sviluppo dell’industria non inferiore a quello che si sarebbe realizzato nel paese anche senza rivoluzione proletaria, a produrre una svolta nella politica economica sovietica. Per sedare il malcontento contadino e impedire eventuali rivolte contro il governo sovietico (delle quali segno premonitore era stata quella di Tambov) (2), nel 1921 fu abolita l’odiata (dai contadini) requisizione forzata dei prodotti agricoli e si concesse loro il libero commercio degli stessi, una volta detratta l’imposta in natura che dovevano allo stato. Ma per fare in modo che i contadini collocassero effettivamente la loro produzione sul mercato questo mercato doveva esistere: cioè si doveva fare in modo che: “I contadini trovassero sul mercato contro moneta i prodotti manifatturati dall’industria del superstite artigianato, di cui abbisognavano.” (3) Per cui anche le aziende industriali e i pochi Sovkhoz furono organizzati sulla base dei meccanismi mercantili capitalistici: dovendo agire sul mercato furono infatti costretti a “rendere attiva la differenza tra la cifra monetaria delle entrate e quella dell’uscita, così come fanno le aziende dell’economia privata capitalistica”, afferma l’autore. Si venne in questo modo a determinare una situazione ibrida, in cui accanto ad alcuni elementi socialisti (la statizzazione delle banche, il monopolio del commercio estero, la statizzazione delle grandi industrie da parte del proletariato al potere) sussisteva un’economia mercantile. L’autore riconosce che Lenin e Trotzky erano perfettamente coscienti della pericolosità della situazione creatasi e consapevoli che solo una rivoluzione comunista del proletariato dei paesi industriali poteva permettere loro di passare alla “estirpazione radicale di ogni base capitalistica”: “Lenin, Trotzky ed il partito bolscevico non dissimularono, ma anzi dichiararono sempre apertamente che questo quadro economico anfibio tra elementi capitalistici e socialisti della produzione e della distribuzione consentiva economicamente l’accumulazione capitalistica e, socialmente, il formarsi di nuovi ceti con interessi anti proletari, ma si prefiggevano di fronteggiare l’influenza politica di questi col saldo potere del partito e dello Stato operaio allo scopo di guadagnare, evitando la caduta del popolo russo nella carestia economica che avrebbe significato la vittoria della controrivoluzione esterna, gli anni necessari ad attendere la vittoria del proletariato mondiale, per passare all’estirpazione radicale di ogni base sociale capitalistica.” (4) In definitiva il mancato avvento della rivoluzione mondiale fu, per i bordighisti, la causa ultima della sconfitta del socialismo in Urss e della conseguente vittoria del mercato capitalistico sulla socializzazione dei mezzi di produzione oltre che di scambio. La dannosa teoria del ‘socialismo in un solo paese’, a parere dell’autore, fornì il classico cacio sui maccheroni, sancendo la sconfitta anche ideologica della prima rivoluzione proletaria. Quindi, se all’inizio vi fu la consapevolezza del pericolo rappresentato dall’introduzione del mercato (‘quadro economico anfibio’), alla fine cause di ordine internazionale (la mancata rivoluzione mondiale) e cause di ordine interno (la teorizzazione del ‘socialismo in un solo paese’) diedero il colpo finale, provocando non la vittoria del settore socialista sul settore capitalista, ma l’esatto contrario. In Urss si delineò quella particolare forma di economia politica che i bordighisti definirono ‘capitalismo di Stato’. L’autore passa quindi in rassegna e in modo molto dettagliato le ragioni e le motivazioni di queste affermazioni. La permanenza del mercato è l’elemento fondamentale per poter definire capitalistico lo stato sovietico: “Se il capitalismo non è il solo tipo delle economie mercantili, perché aggiunge al semplice mercantilismo i caratteri specifici della concentrazione dei mezzi produttivi e del lavoro associato, non è però possibile sradicare il capitalismo senza sradicare il mercantilismo della distribuzione.” (5) Per l’autore infatti sarebbe errato attribuire enorme importanza alla pianificazione economica ed alla statizzazione dei mezzi di produzione senza attribuire un’importanza altrettanto profonda all’esistenza dei meccanismi mercantili nel settore della distribuzione. In Marx, sostiene Prometeo, la dottrina del plusvalore e dell’accumulazione “riposa sull’analisi e sulla critica della distribuzione mercantile: “Un banale luogo comune sul marxismo è che questo abbia esaurito tutta la critica della produzione capitalistica delibando appena quella della distribuzione. All’opposto tutta la dottrina del plusvalore e dell’ accumulazione mercantile e tutta la costruzione del capitale parte dal fatto monetario e mercantile. Dice Marx: ‘nella società capitalistica il denaro diviene capitale, il capitale produce il plusvalore, ed il plusvalore va ad aumentare il capitale’. E aggiunge: ‘il rapporto ufficiale tra il capitalista e il salariato ha …

ROSSANA

di Franco Astengo | Oggi il comitato centrale del PCI ha radiato i quattro fondatori e dirigenti del giornale «il Manifesto»: Rossana Rossanda, Pintor, Aldo Natoli e Magri (i primi tre membri del comitato centrale). Essi hanno difeso la loro posizione con un forte intervento di Natoli. Ci sono stati 9 voti contrari (o astenuti) alla radiazione. C’è sorpresa in giro. In verità nella sessione di ottobre del comitato centrale era prevalsa la linea Berlinguer favorevole a soluzione negoziata e indolore. Si parla di intervento sovietico. Può darsi che ci sia stato, ma non c’è bisogno dell’intervento di Mosca. La logica del sistema comunista è quella che è. La si accetta o la si respinge. Difficile conciliarla con la vita democratica nel partito e nello Stato. Dai Diari di Nenni – 26 novembre 1969. [N.d.R.] E’ scomparsa Rossana Rossanda: superfluo per chi osa scrivere da un angolo di lontana periferia dell’impero testimoniare della sua figura di lucida anticipatrice nel panorama “storico” della sinistra comunista in Italia e in campo internazionale. Vale però la pena di riflettere sugli straordinari passaggi via via verificatisi nel corso della sua vita politica e culturale: dalle responsabilità assunte ai vertici del PCI con le segreterie di Togliatti e Longo, alla radiazione del “Manifesto”, alla trasformazione della rivista in quotidiano come vero e proprio “miracolo” in equilibrio tra editoria e politica nel corso dei decenni più travagliati della vicenda italiana. Senza alcuna volontà di esternazione retorica ritengo però che, ancora, il momento più alto di questa storia sia stato rappresentato dalla vicenda del “Manifesto” gruppo politico, o tendenza o sensibilità, all’interno del PCI fino alla radiazione. Questo giudizio mi pare avvalorato da almeno tre ragioni: la prima quella della straordinarietà di livello culturale e politico di quel gruppo, la seconda quella della forza della capacità di analisi in essere nelle argomentazioni poste nel corso dello scontro con la direzione del PCI, la terza perché quel gruppo ha rappresentato l’espressione politica più importante nell’originalità della presenza della sinistra comunista in Italia. Rossana Rossanda è stata, con grande coraggio e livello di dimensione intellettuale, capace di rappresentare la presenza di una sinistra comunista caratterizzata all’interno del “caso italiano” fin dall’elaborazione gramsciana a partire dall’articolo profetico “la Rivoluzione contro il Capitale” e dal congresso di Lione ’26 e poi ,a discendere, fino alle analisi riguardanti lo sviluppo del capitalismo italiano , alle analisi relative alle dinamiche internazionali, alle riflessioni sul mutamento nelle forme della politica e sul rapporto tra questa e i vorticosi mutamenti delle categorie sociali. Il gruppo del Manifesto è stato semplicemente (ma radicalmente) portatore di un dato di modernità nella prospettiva dello sviluppo individuandone i motivi profondi della crisi ed egualmente era stato capace di reclamare una forte innovazione nella possibilità di espressione dei propri fini politici. Ci trovavamo all’epoca dentro a un quadro molto complicato segnato dal modificarsi nell’insieme delle relazioni internazionali (guerra del Vietnam, decolonizzazione in Africa, nuova fase del bipolarismo dopo la stagione kruscioviana) e dalla ripresa delle lotte (il ’68 era trascorso, ma in Italia resisteva la contestazione con la saldatura operai/studenti, la stagione dei consigli, la spinta verso la democratizzazione del Paese). L’origine del confronto tra PCI e le diverse espressioni di sinistra comunista e no (pensiamo a Panzieri, ai Quaderni Rossi, all’operaismo, a parti di CGIL e PSIUP ) si era però sviluppata nel tempo ed era maturata con gradualità: almeno dal ’62 dal convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano, poi con la morte di Togliatti, l’XI congresso, l’invasione di Praga. L’invasione di Praga rappresentò, come molti ricorderanno, lo snodo decisivo. Per tutti gli attori in campo, Manifesto compreso c’era da segnalare il permanere di un pesante bagaglio ideologico, anche con una qualche espressione di ingenuità nella ricerca di riferimenti diversi. Però l’oggetto del contendere era chiaro: quello della ricerca intorno a quali valori della modernità si poteva fondare un progetto alternativo. Un progetto alternativo che indicasse un orizzonte in quel momento giudicato “maturo” rispetto ad un modello di fraintendimento dell’inveramento statuale della rivoluzione avvenuta, giudicato già con grande anticipo come irriformabile. Cercando di usare categorie gramsciane si può affermare che il PCI, nell’occasione della radiazione del Manifesto, finì con il rinunciare a una possibilità originale di esercizio della guerra di posizione collocandosi invece, nei suoi i tratti essenziali, dentro a un processo di “rivoluzione passiva”. Un processo di “rivoluzione passiva” introiettato drammaticamente come prologo alla caduta degli anni’80 e alla sostanziale incapacità di resistere alla controffensiva dell’avversario. Rossana invece ha resistito da allora fino alla fine ostinatamente in direzione uguale e contraria e sta in questo punto, a mio giudizio, il grande valore della sua presenza politica, culturale, morale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL “NO” AL REFERENDUM COSTITUZIONALE

  di Vincenzo Lorè – Responsabile comunicazione Socialismo XXI |   La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato. (Tratto dalla Costituzione della Repubblica Italiana). Stiamo vivendo un momento molto delicato per la democrazia italiana. La forma democratica che la Costituzione ha dato all’Italia si trova al centro di un duro attacco. Un attacco che va respinto ricordando le origini della nostra convivenza politica e sociale. L’Italia di oggi è un paese sconfitto. Privato dei suoi principali diritti ed autodeterminazione. Guidato da una classe politica in larga parte esistente per pura auto-perpetuazione (NOMINATI). Dopo tre/quattro Parlamenti eletti con una legge elettorale incostituzionale nel 2006, 2008, 2013 e ci metterei anche il Rosatellum nel 2018. Una sbornia maggioritaria quasi trentennale, che ha moltiplicato artificialmente i partiti, ed ora, credo sia giunto, un necessario momento di verità, cioè sapere chi rappresenta veramente il popolo italiano.  Si ha sempre più la sensazione che l’agenda politico-istituzionale ce la dettino dall’esterno: la finanza internazionale, le agenzie di rating, amministratori delegati di banche d’affari. Non è una novità e non è la prima volta che la JP-Morgan che è una delle banche che ha causato la crisi dei mutui sub-prime del 2007 abbia interferito nelle faccende italiane. Nel 2013 scrisse una lettera in cui invita i paesi dell’area Euro (tra cui l’Italia) a fare delle riforme e a superare le costituzioni anti-fasciste, definendo la Costituzione italiana troppo socialista. La JP-Morgan è una delle banche che è intervenuta a salvare il Monte dei Paschi di Siena dove il PD ha fatto il bello e il cattivo tempo ed ora, chissà perché, quel partito si schiera per la seconda volta per il SI ad un Referendum costituzionale. La volta scorsa, (2016), abbiamo assistito persino ad una incursione dell’ambasciatore americano in Italia che invitava a votare Si al referendum renziano. Non è un caso che Renzi nel 2012 (da Sindaco di Firenze) tenne un incontro (a Palazzo Corsini a Firenze) con Jamie Dimon Amministratore delegato della JP-Morgan e Tony Blair, allora consulente della banca americana. Adesso si può cominciare a capire a FAVORE di chi sono queste “riforme” e chi vuole dettare l’agenda politica-istituzionale in Italia?  Ora ai dem (non solo per mere ragioni opportunistiche) si è aggiunto un nuovo attore “politico”, un nemico interno della democrazia italiana: il Movimento 5 Stelle. Da anni, credo che la pericolosità di questo partito sia sottovalutata dai media e, in generale, dall’opinione pubblica, che anzi sembra apprezzare il suo ruolo di “moralizzatore” della politica tradizionale. In realtà, il M5S, come gli altri partiti populisti, porta al suo interno delle ambiguità che sono in contrasto con quella democrazia liberale che ci permette oggi, grazie prima di tutto al sacrificio di chi ha combattuto per la LIBERTA’ opponendosi alla dittatura nazifascista, di vivere in libertà. Il referendum voluto da questo movimento, è nel suo essere, un’operazione di antipolitica che mira a colpire le articolazioni democratiche, i partiti e il diritto di voto come previsto dall’Art. 48 della Costituzione. Siamo in un momento di crisi non solo politica, ma istituzionale, troppe zone d’ombra, pertanto serve una forte capacità propositiva nell’affermazione dei valori Costituzionali, nella difesa della forma di governo Parlamentare della Repubblica, nella dimostrazione della decisività democratica del principio della rappresentatività politica. Rappresentanza realizzata in funzione della presenza di soggetti politici organizzati (i partiti) capaci di sostenere il ruolo di fulcro del Sistema, ritornardo a fornire il diritto di voto al popolo secondo i dettami costituzionali, in altri termini: la Democrazia italiana! Al Referendum il 20-21 settembre si vota NO.       SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LETTERA DI RINO FORMICA AI GIOVANI SOCIALISTI

Intervento di Rino Formica, letto dal compagno Iannini giovane socialista del “Comitato socialista per il NO” alla manifestazione “La piazza che non ci sta”. Roma, 13 settembre 2020, Piazza SS. Apostoli. “IL 2 giugno del 1946 fu il giorno della Repubblica e della elezione dell’Assemblea Costituente. Io c’ero. Un giovane socialista di 19 anni. I socialisti furono in prima fila per la Repubblica. Lo slogan elettorale era:”Votare prima per la Repubblica e poi per i socialisti.” Vinse la Repubblica ed il Partito socialista fu il primo partito della sinistra italiana. Fu in quel fuoco che si saldo’ l’indissolubile legame tra difesa delle Istituzioni repubblicane, rispetto della Carta costituzionale, e partecipazione di massa alle lotte sociali. Chi oggi dice “I problemi importanti sono economici e sanitari e non quelli istituzionali” utilizza una mezza verità per coprire una impresentabile tendenza reazionaria avversa alla democrazia rappresentativa. Per 70 anni abbiamo vissuto momenti di esperienza democratica e fronteggiato tentativi di restaurazione pre-repubblicana. Ci ha difeso una Carta costituzionale rigida cioè una Carta che prevede procedure attente e meditate per ogni modifica alla Legge delle leggi. Ci siamo difesi con una forte partecipazione popolare e di massa alla vita politica ed è stata costruita una rete di rapporti tra popolo, istituzioni, partiti, sindacati e organizzazioni rappresentative dell’immensa ricchezza del pluralismo culturale e sociale. Ci siamo difesi perché il controllo sul potere era garantito da un costante allargamento delle rappresentanze a tutti i livelli che avveniva secondo i principi generali ed indiscutibili: più si allarga la partecipazione, più si deve allargare la rappresentanza. L’efficienza è doverosa ma la praticabilità del controllo è una necessità. Da anni le nostre istituzioni sono investite da tendenze semplificatrici che denotano forme gravi di rifiuto del pensiero profondo. Le conseguenze della rinuncia alla riflessione è la consegna al Capo, all’uomo della Provvidenza, di ogni decisione. È proprio il contrario di ciò che fa per istinto naturale un ragazzo che leggendo e studiando chiede di appropriarsi del proprio destino. Oggi siamo ad una prova alla quale si è sottoposti ogni volta che finisce un ciclo. Nel ’46 pensammo prima alle istituzioni e poi alle condizioni per il benessere materiale. Oggi come allora il problema è lo stesso. Senza istituzioni democratiche non c’è vita libera. La riduzione dei parlamentari è un primo passo nella direzione nella erosione delle istituzioni democratiche. Il secondo passo sarà quello di creare un bicameralismo perfetto e inutile.Poi si dirà: due Camere uguali sono un lusso. Sopprimiamone una e poi si dirà una Camera con 200 parlamentari fa lo stesso lavoro di quella di 400. Togliamo quella di 400 che costa di più.Poi, con una bella legge elettorale apparentemente proporzionale, ma piena di trabocchetti per ciò che riguarda lo sbarramento all’accesso alla competizione elettorale, con qualche disposizione sulle incompatibilità: il Gioco è fatto.Così una legge ordinaria elettorale distruggerà la Costituzione rigida e travolgerà con la forza di una maggioranza parlamentare artificiale tutti i quorum di garanzia.Un bel ritorno allo Statuto Albertino! Questo voto è importante, ma è ancora più importante ciò che avverrà dopo il 21 settembre. Se vince il NO come qui ci auguriamo, i perdenti ci riprovereranno. Se vince il SI’ bisognerà organizzare la Resistenza Costituzionale. Buon lavoro e arrivederci al 21. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UN CHIARO NO AL TAGLIO DEL PARLAMENTO

  di Mauro Scarpellini – Responsabile amministrativo Socialismo XXI |   Riassumo un’illustrazione più breve possibile che offre argomenti per essere consapevoli che occorre votare NO e far votare NO al referendum del 20 e 21 settembre 2020. Questa illustrazione si limita all’osservazione e al commento di questo evento e volutamente esclude riferimenti a partiti e movimenti perché il referendum non è una scelta tra liste diverse, ma una consultazione personale. Vanno convinte le persone, a prescindere dalla loro preferenza elettorale quando ci sono elezioni. La domanda sulla scheda è questa: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella G.U. della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019?». Prima osservazione. La scelta non è sul taglio del numero dei parlamentari, ma sul taglio del Parlamento. Il Parlamento è adeguato? No. Sono opinione e constatazione comuni che i suoi componenti non sono prevalentemente persone di adeguata qualità, competenza, conoscenza per essere i legislatori dell’Italia. La causa dell’inadeguatezza è il numero dei parlamentari? No. La causa è la legge elettorale. La sintetizzo. La legge elettorale vigente divide l’elezione in quota maggioritaria e quota proporzionale. La quota maggioritaria è uninominale – cioè quella col nome imposto sulla scheda – ed è molto alta, per i 3/8 dei seggi, il 37,5% dei seggi. La parte proporzionale ha liste bloccate, cioè sono eletti non i preferiti dagli elettori ma quelli che sono secondo l’ordine dell’elenco deciso dal partito o dal movimento e che ci ritroviamo nella scheda elettorale. Poi il voto dell’elettore obbligatoriamente è congiunto tra candidato uninominale e la lista collegata. L’effetto di questo ingegnoso meccanismo è la compressione notevole della scelta dei propri rappresentanti a danno dell’elettore. La riduzione del numero dei parlamentari aiuta la concentrazione del potere dei capi di partito e di movimento, cioè di coloro che decidono i nomi da candidare, e costoro decidono gli eletti; attenzione, riducendo il numero sarebbe possibile prevedere quasi del tutto la composizione nominativa del Parlamento già prima dei risultati. Il peso della scelta degli elettori sarebbe nullo. Noi diciamo che non vogliamo essere rappresentati meno ma rappresentati meglio e il meglio si può avere senza ridurre i parlamentari ma cambiando la legge elettorale per avere candidati di qualità diversa dall’attuale. Seconda osservazione. I parlamentari sono troppi. Il numero dei Deputati non è sempre stato 630 o giù di lì; c’è stata una volta, era il 1929, nella quale Mussolini pensò che il numero giusto di deputati fosse 400; così dal 1930 fino alla fine della guerra i deputati furono 400. Non venivano votati. Ebbene, se negli anni ’30 si fosse potuto votare (gli elettori sarebbero stati circa 15 milioni allora) la rappresentanza sarebbe stata comunque il triplo di quella che ci sarebbe se vincesse il SI al referendum di questo mese. Ma la conoscenza della storia non appartiene molto a coloro che proposero questa legge. Nel 1948 c’era un parlamentare ogni 80 mila cittadini, adesso ce ne sarebbe uno ogni 151 mila se vincesse il SI. Un allontanamento ulteriore tra eletto e problemi che lui deve conoscere e rappresentare. Terza osservazione. L’Italia ha più parlamentari degli altri paesi. E’ falso. L’unico serio criterio per giudicare sul numero dei parlamentari è guardare al rapporto fra membri del Parlamento e abitanti. Sfatiamo questa bugia confrontando quattro paesi in Europa: Gran Bretagna, Francia, Spagna e Italia. Prendiamo non solo i deputati della Camera, ma tutti i parlamentari della Camera bassa e della Camera alta, che da noi si chiama Senato e altrove ha altra denominazione. La Gran Bretagna ha 1 parlamentare ogni 46.000 abitanti. (1426 totale). L’Italia ha 1 parlamentare ogni 63.000 abitanti. (945 totali/ 615 + 330). La Francia ha 1 parlamentare ogni 70.000 abitanti. (925 totali). La Spagna ha 1 parlamentare ogni 76.000 abitanti. (615 totali). Se vincesse il SI l’Italia andrebbe a 1 parlamentare ogni 100.210 abitanti. (600/ 400 deputati e 200 senatori). Avvicinare i governanti ai governati è un buon principio, ma con questo referendum si chiede di fare l’opposto. La critica sulla creazione di una casta di nominati, ancor più ristretta di oggi, è fondata perché non inventata o supposta. Comanderebbero i capi di partito o i capi esterni di movimenti che non hanno mai avuto una responsabilità politica né sono stati mai eletti da qualche parte. Quarta osservazione. La riduzione del numero dei parlamentari non incide sulla rappresentanza, ma la rende più autorevole Completamente falso. Se si riduce il rapporto fra cittadini e parlamentari si incide profondamente sulla rappresentanza politica, sia quantitativa che qualitativa. Perché si realizzi una vera rappresentanza politica, bisogna che i singoli candidati parlamentari abbiano una relazione reale e continua con i cittadini e con i problemi del territorio in cui si candidano, nonché un rapporto costante, non limitato al momento del voto, con i propri elettori e con le forze intermedie del territorio – rappresentanze degli imprenditori, dei lavoratori, delle istituzioni locali e altre -. Meno sono gli eletti e più difficile è realizzare quel rapporto. Questo nuoce all’azione dei parlamentari sul piano qualitativo perché riduce la possibilità di una conoscenza dei problemi concreti. Quindi la rappresentanza politica ne risulta peggiorata. Quinta osservazione. Riducendo il numero dei parlamentari si risparmia soldi pubblici I calcoli fatti dicono che la riduzione dei parlamentari porterebbe a un risparmio di appena lo 0,007 del bilancio dello Stato, pari a 1,35 euro a cittadino l’anno. La riduzione dei costi è un argomento che fa presa su chi non segue a fondo questi argomenti. Bisogna spiegarlo.  Sesta osservazione. C’è un processo in corso, pluriennale, per la riduzione dei poteri democratici. Non deve sfuggirci che questa legge, se vincesse il SI, non sarebbe l’ultima nella progressiva riduzione dei poteri democratici dei cittadini. Da anni è in corso di attuazione un processo pericoloso che spesso sottovalutiamo o non consideriamo. I cittadini contano meno : perché nei Comuni è stato ridotto ridotto il numero dei Consiglieri comunali; perché in molte …

UNA PROGRAMMAZIONE A LUNGO TERMINE

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Con l’arrivo dei 209 miliardi il mondo della politica è chiamato a misurare sul campo la propria capacità di essere statisti (quelli che pensano ai prossimi 50 anni) o di essere politicanti (quelli che pensano alle prossime elezioni). I rumori iniziali vanno dalle urla di Bonomi che vuole bloccare gli stipendi, liberare i licenziamenti, eliminare i provvedimenti a pioggia (famiglie, vacanze, monopattini, cassintegrati, disoccupati, operatori turismo etc.)  per dirottarli in contributi a fondo perduto per le imprese; Salvini promette un 2020 fiscalmente in bianco e nei prossimi anni il 15% di flat tax per tutti; altri più ragionevoli chiedono una strategia per evitare l’assalto alla diligenza; altri ritengono che il bonus ristrutturazioni al 110% sia un provvedimento “green” e quindi finanziabile con il recovery plan.  Altri sostengono che non si può avere come strategia il ricostruire il sistema economico come era nel pre-covid perché quel sistema era poco produttivo, in stagnazione e tendente alla recessione per sfociare nella depressione. Convengo con questa impostazione e quindi nella necessità di concentrare gli investimenti in attività di lungo termine, ad alto moltiplicatore keynesiano e che quindi richieda un aumento di produttività che non si è visto negli ultimi trenta anni. Abbiamo bisogno di: ● un nuovo ruolo imprenditoriale dello stato che diventi “stato innovatore”, con capitali pazienti e prospettive a lungo termine, ● superare il nanismo delle nostre imprese, ● superare il familismo delle dirigenze imprenditoriali, ● aumentare la produttività; ● coordinare pubblico e privato ad un piano economico che si sbarazzi dalle decisioni marginalistiche del mercato. Ritengo comunque che volendo avere una visione ad alto livello, dobbiamo partire dalla consapevolezza che il nostro problema incombente è quello dell’invecchiamento della popolazione. L’invecchiamento della popolazione Il nostro paese, insieme a quello giapponese, è quello che fa riscontrare i maggiori effetti dell’invecchiamento della popolazione; questo fenomeno comporta i seguenti effetti: ● saldo naturale tra nascite e decessi con il segno negativo; ● diminuzione della popolazione totale (al netto dei flussi migratori) ● aumento della quota degli over 65 ● diminuzione della quota tra 0 e 14 anni ● diminuzione delle persone attive ● calo delle nascite conseguenti alla diminuzione delle persone attive ● aumento delle pensioni da pagare agli over 65 ● aumento dei pensionati rispetto agli attivi ● necessità di produrre di più per ogni attivo per mantenere lo stesso Pil ● necessità di incrementare la produttività dei fattori della produzione. Riassumendo se i decessi eccedono le nascite (accantoniamo il tema immigrazioni/emigrazioni) la popolazione diminuisce, e nella composizione della diminuzione aumentano gli over 65, cioè quelli che non producono più e vivono di pensione. Conseguentemente aumenta il rapporto tra numero dei pensionati e numero delle persone attive, ma non diminuisce il PIL necessario a mantenere tutti. Ne consegue che chi è attivo deve produrre unitariamente di più di quanto producesse in precedenza; occorre cioè puntare sull’aumento della produttività. Per fortuna che esiste la rivoluzione 4.0 che come scopo ha appunto l’aumento della produttività non solo per competere sui mercati internazionali, ma anche per affrontare il tema dell’invecchiamento della popolazione. Ma la rivoluzione 4.0 non può avere successo se non si ripensa ad uno stato che si faccia carico di investire là dove il privato non investirà mai per eccesso di rischi di insuccesso e comunque con tempi di pay-back inaccettabili dal capitale privato. La rivoluzione 4.0 deve quindi essere il campo operativo di un nuovo “stato innovatore” (alla Mariana Mazzucato) che richiede alle sue spalle una classe dirigente politica con una chiara visione del suo compito storico. Vorrei allora riportare un prospetto che proietta i dati demografici dal 2019 fino al 2040, l’elaborazione è mia ed è sicuramente incorretta, ma il senso ed il succo del discorso è sicuramente vero. anno Popol. (000) 0/14 (000) Attivi   (000) Over 65 (000) PIL  pro capite Produttività. over 65/ attivi 2019 60.224 7.893 38.600 13.731 44.041 100.00 0.36 2025 58.736 7.969 35.260 15.506 48.215 109.50 0.44 2030 56.982 7.938 32.291 16.752 52.645 119.50 0.52 2035 54.767 7.904 29.132 17.751 58.354 132.50 0.61 2040 52.201 7.868 25.835 18.749 65.755 149.30 0.71                 Quindi nei prossimi 20 anni la produttività deve aumentare di quasi il 50%,  per compensare il peso pensionistico che passa da 0.36 a 0.71.     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PRAGMATISMO DI RICCARDO LOMBARDI: QUANDO LE PAROLE NON SERVONO, MA URGONO I FATTI

di Christian Vannozzi | Un uomo del fare e non un filosofo, o peggio un sofista, questo era Riccardo Lombardi, che alla retorica preferiva l’agire concreto, perché parlare di socialismo è facile, ed è anche piacevole, lo facciamo tutti, ma se resta lettera morta il sole non si vedrà mai, e per questo motivo occorre non solo parlare, scrivere sui vari social e sui gruppi whatsapp, ma agire concretamente iniziando dai territori, dai municipi, dal più piccolo grado di sussidiarietà che hanno i cittadini, in modo da colmare quell’abisso creato dai partiti odierni, che hanno perso da tempo il loro contatto con la società. Siciliano di nascita, ma milanese di adozione, Lombardi ha saputo unire l’idealismo tipico della terra ellenica con il pragmatismo tipico della società milanese, passando dal partito d’azione, che ormai con la sconfitta del nazifascismo aveva terminato la sua funzione storico-sociale, al partito socialista, dove confluì gran parte del vecchio partito mazziniano, dando al socialismo italiano quella forza nell’agire tipica di un partito che faceva dell’azione il suo nome. In Italia e a Milano soprattutto, letteralmente devastata dalla Guerra, serviva infatti azione, e non parole, da ingegnere quale era iniziò, da funzionario locale del capoluogo lombardo, la ricostruzione fisica, civile e morale di Milano, riportandola in auge e restituendogli quel dinamismo che ancora distingue la civiltà milanese, che non deve, come si pensa, il suo fare alla Lega: A me sembra che una politica intelligente e che si preoccupi dell’avvenire della classe operaia si deve soprattutto preoccupare di salvare l’efficienza economica dell’apparato industriale; che questo apparato resti di proprietà privata o passi in proprietà collettiva, il problema non muta. Nel 1945, le parole di Riccardo Lombardi furono queste, dimostrandosi fin da subito lungimirante e pratico, più di quanto non lo siano i politici odierni che per tamponare la crisi economica elargiscono sussidi e bonus di qualsiasi genere, fondi che non raggiungono però tutti, distribuiti a macchia di leopardo e in tempi abbastanza lunghi e senza alcuna prospettiva di recupero e ripartenza. Quello che serviva a Milano era infatti la ripartenza, in qualsiasi modo, dell’economia, delle imprese, del lavoro, in modo che tutti si sentissero parte di una ricostruzione a vari livelli, in modo da creare incoraggiamento e di far rialzare a tutti la testa. Il capitale può essere privato o statale, non è importante, quello che è importante è la tutela dei lavoratori, delle classi più deboli, di chi ha poco, ed è questa la missione pratica del socialismo. Oggigiorno si pensa alla new economy, al neoliberismo, spiegando che questo rappresenta l’unica via di ripresa economica, mostrando le bellezze degli Stati Uniti u po’ come i traghettatori del mediterraneo dipingono l’Italia agli sventurati che pagano i risparmi di una vita per arrivare forse da vivi in un paese che non è quello che gli viene descritto, e dove non trovano quasi nulla se non lavori dove vengono sfruttati per pochi soldi, prostituzione e manovalanza nella criminalità organizzata. Sarebbe ora che si aprissero gli occhi si e si guardasse seriamente al benessere economico e sociale, senza fantasticare su cose che non esistono, o su sistemi economici idilliaci scesi dal cielo un po’ come le tavole della legge date da Dio a Mosè, perché i regali del cielo non ci sono, o almeno sono molto rari, e se si vuole qualcosa ci si rimbocca le maniche e si agisce. Per omaggiare Riccardo Lombardi ritengo doveroso citare le parole di Giovanni Scirocco: Che cosa ci manca di Lombardi? Ci manca, a mio parere, il segno della sua contraddizione, la scommessa fallita ma tenacemente indicata di tenere insieme la democrazia coi suoi limiti e l’idea di un socialismo radicale. Perché la democrazia e il socialismo possono e devono coesistere, come si può vedere in alcuni Stati che sistematicamente in Italia vengono ignorati, e che sono tra i più importanti membri dell’Unione Europea, un’Unione che va trasformata in Federazione, non combattuta in nome di assurdi sovranismi, perché se si vuole combattere il populismo e si vuole svegliare il popolo italiano, occorre tendere la mano, e mostrare e fare quello che si può fare, non parlare di filosofia come facevano gli oratori romani ai tempi di Cicerone. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RICORDO DEL CILE NELL’UTOPIA DELL’IDEALE

di Franco Astengo | Quarantasette anni fa l’11 settembre 1973 in Cile il golpe fascista sostenuto dall’amministrazione USA, presidente Richard Nixon segretario di stato Henry Kissinger, pose fine al Governo democraticamente di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende. Un’esperienza politica avanzata di democrazia e socialismo, quella di Unidad Popular, che avrebbe potuto cambiare il corso della storia del Cile, avere ripercussioni internazionali, essere d’esempio per diversi altri Paesi del mondo. Il ricordo di quel fatto deve farci riflettere ancor oggi nel momento in cui le sinistre sembrano essersi ritratte dalla lotta politica. L’11 settembre 1973, il giorno della caduta avvenuta a mano armata con l’assassinio del “Compagno Presidente” rammenta il giorno di una sconfitta. Evochiamo allora una sconfitta come quella subita dai compagni cileni. Una sconfitta da ricordare perché la vittoria non si può misurare unicamente dai principi stabili che essa ha raggiunto. E’ dalla sconfitta, invece, che ci viene indicato come accrescere la forza con la quale il pensiero ci assegna una nuova meta”. Finché i popoli continueranno a lottare, là ci sarà un’idea di riscatto sociale e di rivoluzione politica e torneremo ad avere di fronte il traguardo dell’uguaglianza e della giustizia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FORMICA: “IL SI CANCELLA IL REFERENDUM DEL ’46 SU MONARCHIA O REPUBBLICA”

di Maddalena Tulanti – firstonline.info| INTERVISTA A RINO FORMICA, già ministro socialista – “Il SI’ al referendum del 20-21 settembre è un voto controrivoluzionario che cancella il referendum del ’46 instaurando una monarchia finta, travestita da Repubblica e rendendo facilmente modificabile la Costituzione – E’ un’operazione antipolitica che mira a colpire le articolazioni democratiche e i partiti – La riduzione dei parlamentari dovrebbe essere la fine e non l’inizio di un processo riformatore, sennò è solo populismo – “Spero che il 21 settembre non sia l’autunno della Repubblica”. “Il Sì al referendum del 20/21 settembre è un voto controrivoluzionario, che vuole cancellare quello del 2 giugno del 1946, ripristinando lo Statuto albertino e instaurando una Monarchia finta, di facciata, travestita da Repubblica”.  Rino Formica è duro, durissimo. E la sua è una difesa speciale, articolata  e finissima contro le ragioni di chi al referendum sceglierà di cancellare parte dei rappresentanti del popolo. Socialista sempre e comunque, più volte ministro, più volte parlamentare, è stato ed è un acuto fustigatore dei costumi italici, sia quando usano la stoffa dei partiti politici, sia quando scelgono quella della società civile. Da settimane è sceso in campo senza risparmiarsi perché “il 21 settembre non cada la notte sulla Repubblica”.  Ricapitoliamo allora: perché ha scelto di votare No? “Il mio ragionamento è questo. Qual è il senso politico profondo di questa battaglia referendaria? Il Sì in questa battaglia referendaria rappresenta la punta di lancia di un’innovazione profonda, controrivoluzionaria. Perché? Perché è contro il referendum del 2 giugno 1946 volendo restaurare la forma di Stato e la struttura costituzionale del Paese di una stagione prerepubblicana. Chiediamoci: che cosa fu il referendum del 2 giugno 1946? Quel referendum cambiò la forma istituzionale abbattendo la Monarchia e instaurando la Repubblica e cancellò la carta istituzionale monarchica, lo Statuto albertino. E con l’assemblea costituente dette vita alla carta costituzionale repubblicana. Qual è la differenza fra la forma di Stato prerepubblicana e quella repubblicana? Che con la seconda viene cancellato un ordine istituzionale fondato sul sovrano: il sovrano non è più il re, il sovrano è il popolo. Mentre eliminando lo Statuto albertino viene demolito un principio costituzionale, la Costituzione flessibile. Vale a dire che l’ordine costituzionale, prima della Costituzione repubblicana, poteva essere modificato senza una procedura ad ostacoli, complessa, che è propria delle Costituzioni rigide. Cioè poteva essere modificata con una legge semplice, ordinaria; mentre le Costituzioni rigide vanno modificate attraverso una procedura di carattere costituzionale, complessa, ragionata, ripensata. L’ordine costituzionale dello Statuto albertino, essendo una costituzione flessibile, ci aveva portato al fascismo, che aveva cambiato la formula dello Stato monarchico parlamentare, costituzionalmente accettato, in uno Stato autoritario, attraverso leggi ordinarie. Come quando il ministro di Grazia e Giustizia del fascismo, fine giurista, Alfredo Rocco, introdusse lo Stato corporativo semplicemente approvando la legge del riordino dei contratti collettivi di lavoro. La preoccupazione repubblicana, che nasce con il referendum del 2 giugno 1946, è invece quella di dare al Paese una forma istituzionale immodificabile, la Repubblica, ed un assetto costituzionale rigido. Cioè mai più leggi semplici, ordinarie avrebbero potuto modificare l’assetto costituzionale”.  Di quali articoli stiamo parlando? “Tutto questo è negli articoli 138 e 139 della Costituzione. L’art 138 stabilisce le procedure complicate per le modifiche costituzionali: la doppia lettura delle due Camere, il quorum qualificato per l’approvazione, l’eventuale ricorso al referendum. Quindi una procedura complessa, meditata, riflessiva. E ciò dimostrava la grande attenzione che i costituenti avevano per le improvvisazioni populistiche: la legge delle leggi, non poteva essere affidata agli umori momentanei di una situazione particolare del Paese. Mentre l’art 139, norma di chiusura, stabilisce che la forma repubblicana non è modificabile.  L’art 138 e l’art 139 vanno letti insieme. Cosa vollero i costituenti? Che la forma repubblicana non fosse modificabile, e che la legge che regolava e stabiliva l’ordinamento della forma repubblicana dovesse essere sottoposta ad una procedura speciale dove il ripensamento della rappresentanza e l’eventuale ricorso al popolo doveva essere di tale ampiezza, di tale peso che ogni modifica costituzionale doveva essere attentamente modificata”. Invece che cosa sta per accadere secondo il suo pensiero? “Molto semplice: si sta tentando di aggirare la rigidità della Costituzione e di renderla semplice, flessibile, modificabile di fatto con leggi ordinarie. E dove si colpisce? Si colpisce nell’architettura della Carta costituzionale.  Stiamo parlando di una struttura diffusa della democrazia attraverso la quale si esprime la volontà popolare: partiti politici, sindacati, corpi intermedi che operano come articolazioni della vita democratica e della partecipazione alla costruzione della Repubblica del popolo, come prevede l’art 1. L’ azione che io chiamo di revanchismo dei perdenti del referendum del 2 giugno 1946, non è nata oggi, si è sviluppata in tutta la vita repubblicana, ma è sempre stata battuta dalla grande capacità che i partititi politici, le organizzazioni democratiche, tutte le articolazioni della democrazia, mettevano in campo per difendere l’assetto costituzionale del Paese. Battute però sulla via maestra dello scontro della revisione costituzionale radicale, queste forze si sono riorganizzate per aggirare il terreno di gioco. Ed eccoci al “riduciamo il numero dei parlamentari, la rappresentanza”. Riduciamola non per ottenere efficienza, o per qualsiasi altra ragione, ma perché il Parlamento è un ectoplasma, è una sovrastruttura patologica dove la Casta si esercita per tutelare privilegi, e quindi i parlamentari andranno prima ridotti e poi controllati e annullati.” E come sarebbe possibile? “Con una legge di carattere elettorale, perché le leggi di carattere elettorale non riguardano solo la scelta da operare fra maggioritario e proporzionale. No. Non si tratta solo di scegliere un sistema che dia o non dia la certezza del vincitore e quindi di un futuro governo. Ci sono altri elementi costitutivi delle leggi elettorali, più sottili, più nascosti che possono portare al rischio che nasca una maggioranza che si appropri della Costituzione. Come? Creando delle maggioranze fittizie al posto delle minoranze relative. E come si opera in questo campo? In maniera semplice. Riducendo la platea degli eletti, riducendo la soglia di accesso alla rappresentanza, modificando con leggi ordinarie le regole per l’accesso alla competizione politica. Basta regolare la raccolta delle firme: come si raccolgono, dove, e …