LA CONTINUITA’ DEL ROSSO

di Franco Astengo |

La Continuità del Rosso

Collana: MISCELLANEA

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Stampa: InSedicesimo marchio editoriale di Delfino & Enrile Editori snc via Giovanni Scarpa, 10 r. – 17100 Savona ordini@insedicesimo.it – 019.811800 la edizione: Ottobre 2020 ISBN

NELL’OCCASIONE DEL CENTENARIO DEL PCI
Nell’occasione prossima dei 100 anni di fondazione in Italia del Partito Comunista mi permetto di offrire ad alcune compagne e compagni, con le quale/i ho compiuto tratti del mio lungo viaggio dentro alla storia della sinistra italiana, alcuni capitoli di riflessione. L’articolazione di questo abbozzo di ragionamento è fondato su 4 punti:

1) La scelta identitaria assunta dai comunisti italiani in relazione alla storia del pensiero politico occidentale;

2) L’analisi della chiusura dell’esperienza della sinistra comuni-sta, verificatasi ancor prima del definitivo scioglimento del Partito:

3) L’esplicitazione, assolutamente schematica, dei possibili punti di alternativa che si sono presentati nel corso di una parte di questa storia come “fiori non colti”.

4) La presentazione di un possibile punto di prospettiva futura attraverso il “Dialogo Gramsci – Matteotti” .

PENSIERO POLITICO E IDENTITÀ
Non intendo qui, beninteso, forzare il percorso verso il ritorno all’ideologia, ma piuttosto ripercorrere le tappe che hanno segnato la storia del pensiero politico. Si afferma generalmente che la scienza politica è una scienza moderna: per una convenzione non priva di significato. Il “Principe” di Machiavelli viene di fatto considerato come la prima opera che ha per oggetto la scienza politica. Una tale affermazione sembra apparentemente urtare con una osservazione abbastanza ovvia: la storia del pensiero, anche prima di Machiavelli conosce un gran numero di opere espressamente dedicate persino nel titolo alla politica. Dalla “Repubblica” di Platone alla “Politica” di Aristotele, alla “Repubblica” di Cicerone, al “Regime dei Principi” di Tomaso d’Aquino, pensatori grandi e modesti hanno sempre mostrato interesse ai problemi di organizzazione ed impostazione della convivenza umana. Ma quando si parla della politica come scienza ci si riferisce evidentemente non già ad un qualsiasi modo di considerare quei problemi e neppure ad una loro trattazione sistematica (da questo punto di vista poche opere come la “Politica” di Aristotele avrebbero diritto ad una qualifica scientifica). Non è difficile constatare che se si concepisce la scienza politica come una disciplina moderna ciò dipende, sostanzialmente, dal fatto che si attribuisce qualifica di scienza ad un determinato modo di considerare e trattare i problemi politici e precisamente alla considerazione di essi come un oggetto autonomo e alla trattazione della politica come una disciplina autonoma.

Questo è il punto che mi sta maggiormente a cuore e sul quale vorrei soffermarmi ancora un poco, prima di riprendere un discorso più direttamente legato alle vicende italiane degli ultimi decenni e alle mie esperienze personali in quel contesto.

Ritornerò più avanti a quegli spunti della scienza politica che considero fondamentali per sviluppare analisi e considerazioni sulla realtà politica così come questa si è presentata, e si presenta, nell’arena della contesa per il potere: penso alla teoria delle “fratture” di Stein Rokkan quale strumento fondamentale per comprendere il nesso tra la società e la politica, alla teoria sui partiti di massa di Maurice Duverger e alle teorie sui modelli di allineamento del sistema politico italiano elaborate da Sartori. In precedenza però mi piacerebbe rispondere ad una domanda sulla quale mi interrogo frequentemente al riguardo della modernità.

Da quale punto della storia del pensiero umano, che è “pensiero politico”, parte la modernità?

Dalla modernità come si arriva alla constatazione dell’emergenza di una “condizione di classe”?

Come, per via teorica, si può approdare all’idea del comunismo? Se il Cinquecento fu il secolo della battaglia critica, il Seicento ne tira già le conclusioni pratiche ed è il secolo della diffusione e della stabilizzazione: si apre con il rogo di Giordano Bruno e si chiude dopo che l’Inghilterra ha decapitato per la prima volta il Re, ottenuto l’ “habeas corpus”, espresso con Locke il teorico del potere fondato col consenso e la tolleranza.

I nuovi teorici non parlano già di un ordo ordinatus ma di un ordo ordinans; l’ordine naturale è una razionalità che suppone una ragione e un soggetto umano, svincolato dal restante regno naturale che la scienza va classificando; il suo è un ordine naturale umano.

Il nuovo pensiero non esita a ricollegarsi alle tradizioni, ma lo fa criticamente mettendo a frutto su ogni piano la conquista del diritto di critica che gli è stato ormai guadagnato dalla Riforma protestante e dalla scienza naturale.

E Hobbes porta agli scienziati sociali l’esempio dei geometri e dei fisici scrivendo “ Se i filosofi morali avessero compiuto i loro studi con esito altrettanto felice, non vedo come l’ingegnere umano avrebbe potuto contribuire al meglio alla propria felicità in questa vita” (Elementi filosofici sul cittadino).

Leibniz, che è forse l’ultimo grande teorico che tenta la sin- tesi tra vecchia teologia e scienza nuova, scrive una Teodicea e sostiene, ancora, in definitiva, il principio aristotelico che la “ragione sufficiente” del meccanismo cosmico è pur sempre un principio teleologico, ma contende a Newton la scoperta del calcolo infinitesimale.

La parificazione degli individui per nascita e la loro eguaglianza a fronte alla legge positiva in quanto legge fondata sul consenso implica la fine di ogni gerarchia prestabilita e il riconoscimento di una sola gerarchia razionale, laica, determinata dalla emulazione terrena nel libero campo della competizione economica. La Ragione è la nuova divinità moderna dell’individuo e la Rivoluzione Francese alza sia gli alberi della libertà sia i templi della nuova dea.

Ma per essere autentica divinità mondana della nuova cultura laica, la ragione deve uscire dal mondo puramente raddoppiato della metafisica tradizionale e risalire, invece, ai nessi interamente terreni dell’esperienza.

La critica della cultura teologica è perciò in pari tempo ricerca di un incontro fra esperienza e ragione, critica, pertanto, dell’astratto razionalismo cui si era educato il giusnaturalismo e il superamento del razionalismo dogmatico si intreccia con il supe- ramento del giusnaturalismo stesso.

Per essere la nuova fede moderna, la fede nella ragione non può essere propriamente una fede, necessita di un controllo interno della stessa ragione, di una sua commisurazione alla inesauribilità dell’esperienza.

Il processo, impostato da Hume si conclude con Kant e la coerenza con l’anima interna del razionalismo porta alla luce l’irripetibilità e incommensurabilità degli universi individuali.

La critica della ragion pura scopre il primato della ragione pratica; la proclamazione razionale dell’individuo moderno evoca il trionfo del soggetto pratico.

Il centro autentico dell’individuo è la sua coscienza, la sua responsabilità, la sua volontà morale di progettare la sua condotta come universale, di modellare eticamente il mondo.

Tra Hume e Kant è passato Rousseau che condanna la speculazione dei secoli passati in nome del cuore semplice e dello slancio morale.

L’individualità, che l’ultimo grande sistematico della vecchia cultura, Leibniz, aveva serrato entro un sistema di monadi senza finestre nel quadro di una armonia provvidenzialmente prestabilita, deve in realtà creare essa stessa l’armonia del mondo uscendo fuori dalla cornice del creazionismo.

Tutta la cultura settecentesca converge in questa direzione: la scoperta vichiana della nuova scienza storica, la critica di Hume della logica e del contrattualismo, la ricognizione storico-sociale delle istituzioni politiche impostata da Montesquieu, l’ateismo francese, la critica della civiltà di Rousseau, la nuova scienza economica e la morale del sentimento di Smith.

Nella teoria politica moderna l’erosione dei vecchi moduli di pensiero semplifica, raffinandole le soluzioni di nuovo pensiero laico.

In sostanza il problema decisivo della politica diventa il proble- ma della democrazia, il rapporto tra il potere ed il popolo, fra la legge e i cittadini, fra i governanti e i governati, fra lo Stato rappresentativo e la società privatistica.

Passa in secondo piano non soltanto il dualismo cristiano della terra e del cielo, ma anche il dualismo razionalistico di stato di natura e stato di civiltà: l’eredità, insomma, della secolare scissione tra natura e società come sezione preordinata al mondo storico dell’uomo.

Il vero autentico dualismo moderno è quello tra sovranità popolare sovranità dello Stato. Tutti gli altri retaggi dualistici possono soltanto riemergere nella scia di quello. È dietro Kant che si allinea, in una nuova versione, l’intera tra- dizione della scissione. Sulla linea di Rousseau, con sviluppi naturalmente originali, si profila la nuova tematica comunitaria del socialismo.

Sulla linea di Kant, senza sviluppi sostanzialmente originali, si profila non soltanto il costituzionalismo giuridico con le sue contraddizioni autoritarie, con la sanzione della lacerazione fra vita pubblica e vita privata, della società privatistica che si com- pone in una comunità soltanto astratta.

Nonostante le infinite riserve critiche che sono da farsi su di una riduzione di Marx ad un epigono di Hegel, è naturalmente vera l’affermazione che Hegel è un presupposto della critica di Marx. Hegel è, infatti, la mente che avverte l’istanza dell’unificazione. Suo è il tema della ricomposizione dei dualismi.

Ma poiché il suo resta un tema ideale, la soluzione che ne emerge non è in effetti una soluzione reale.

La ricomposizione del mondo nell’unitaria storia dell’idea incontra il suo limite nella supposizione della storia come meramente ideale e, quindi, nella pretesa che le radici del mondo siano soltanto da comprendere anziché da trasformare.

Se il vecchio razionalismo dogmatico ci appare un raddoppiamento del mondo, il razionalismo storicistico di Hegel ci configura il mondo come un raddoppiamento dello spirito: ma nella sostanza questo mondo ha una sua ragione e quindi la sua razionalizzazione è un compito che si assolve fuori di lui, nella misura in cui si supera e si dialettizza nelle spire ascendenti dello spirito.

Non a caso l’originalità di Hegel, ciò che di lui è vivo, sta fuori dalla politica. Egli non è andato al di là della rilevazione, certo importante, che la dinamica della vita pratica moderna è con- tenuta nel dualismo di società civile e Stato e che questa è la lacerazione modana su cui bisogna intervenire.

Ma Hegel vi interviene a modo suo tirando fuori lo Stato dalla mondanità, dandogli come luogo d’origine e destinazione la sfera celeste dello spirito cui tutto si compone e si supera lasciando le cose mondane come stanno.

Può dirsi che la lezione più importante che Hegel lascia in politica è, a contrario, la necessità di una critica storica dello Stato.

Ed è qui, appunto, che incomincia Marx.

Il grande merito teorico di Marx, nel campo del pensiero sociale, pare appunto quello di aver ricostituito mentalmente quell’unità andata dispersa con la divisione del lavoro, che diventa “divisione una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale” (dall’Ideologia Tedesca: questo punto, della divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale mi ha sempre appassionato molto, fin dagli anni’70 e dalla lettura del testo fondamentale di Alfred Sohn Rethel nell’edizione dell’Universale Feltrinelli).

Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la “pura” teoria, teologia, filosofia morale.

Ricostituire l’unità di natura e storia significa dunque, per Marx, giungere a concepire la storicità della natura e la naturalità della storia, guadagnando teoricamente le cadenze pratiche dei tipi storico-naturali della convivenza umana.

Questa esplicazione casuale della storia del pensiero politico legittima, per Marx, anche nelle scienze sociali l’impiego del metodo scientifico propriamente detto giacche configura la storia delle idee come una previsione teorica calibrata e misurata dal corso storico reale: non già, naturalmente, dall’esperimento di laboratorio la cui mancanza fu sempre l’alibi per distinguere la scienza dell’uomo dalla scienza della natura, ma da quel tipico esperimento umano che è l’esperimento storico, vale a dire del reale succedersi di tipi sociali che trapassano l’uno nell’altro consumando sia le generazioni umane sia le loro costruzioni ideali.

Da questo punto di vista la rivoluzione teorica di Marx ha la portata scientifica di quella di Darwin e la completa: come Darwin vede per primo la struttura storica della vita naturale, Marx vede per primo la struttura naturale della vita storica.

E da questa complementarietà universale di storia e natura scaturisce la possibilità di ipotizzare sia un’unica scienza nel mondo, sia una stessa metodologia scientifica.

Ma questa complementarietà di storia e natura nel pensiero di Marx conserverebbe una grossa lacuna se, in sede di teoria politico – sociale, Marx non avesse consapevolezza del carattere storico del suo stesso pensiero materialistico.

Di fatto Marx raggiunge questa consapevolezza proprio quando si rende conto che egli riesce ora a vedere e a capire ciò che Aristotele non vide e non capì, perché Marx può vedere e capire ciò che la società greca non aveva: una struttura naturale integralmente trattata dall’uomo, tale cioè da esprimere con il predominio dell’industria sull’agricoltura relazioni interamente sociali, definitivamente slacciate dai vincoli naturalistici.

Marx riconosce il merito di Hegel di aver visto la separazione di Stato e società civile nel mondo moderno, ma gli fa carico di non averne visto le fondamenta storiche moderne e di averla supposta come una tappa del cammino compiuto dallo spirito nella storia temporale verso l’estasi dello spirito assoluto.

Marx può allora concludere, per un verso, che il dualismo di Stato e Società civile è un prodotto storico, cioè articolazione effettiva di un tipo di relazioni sociali materiali, e per un altro che, quindi, la loro vera unificazione non può essere ideale, non di un superamento nella spiritualità hanno bisogno gli uomini ma, in primis, di una trasformazione che, riportando nella società civile il nesso comunitario che la divisione del lavoro e la dissociazione privatistica hanno fatto emigrare nella sfera astratta dello Stato politico, cancelli l’una come società puramente civile (o società dei privati) e l’altra come società puramente politica (o comunità soltanto illusoria in quanto astratta dai nessi sociali reali), ricostituendo una società omogenea.

Lo sbocco comunistico di Marx è proprio l’esito pratico della sua rivoluzione teorica ed è appunto per la visione della necessità storica di una socializzazione dei rapporti moderni che Marx riesce non solo a vedere ma a prevedere l’irruzione popolare nella vita moderna.

Su questa base si arriva all’adesione al Comunismo come fatto teorico in precedenza alla militanza politica e si verifica l’incontro con il Gramsci della “filosofia della prassi”

Lo “sbocco comunistico” di Marx ha rappresentato per intere generazioni il riferimento saliente all’idea del comunismo come recinto dell’ appartenenza politica, quale salto in avanti rispetto all’idea della “appartenenza di classe”.

Questa adesione, questo “recinto di appartenenza” si materializzò, ed ancora si materializza, prima ancora che nell’attività intellettuale militante all’interno di un partito nella determinazione di alcune “frontiere”, “paletti” per dirla con una terminologia più prosaica, attorno ai quali ho sempre cercato di sviluppare il senso complessivo della mia ricerca politica.

Torno, allora, a frequentare il piano teorico.

Oggi si sta tentando di tornare indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento.

Lo scrivo perché sono convinto che la lettura neo-liberista che ha egemonizzato il pensiero e l’azione politica a partire dagli anni’80 sembra aver dimenticato il fallimento storico della lettura liberale “classica”.

Il mondo, nel corso del ‘900, ha imboccato strade del tutto impreviste dai teorici della civiltà liberale: associazionismo, conflitti di lavoro, sindacalismo, la vicenda bruciante dei tentativi di inveramento statuale dell’ipotesi marxiana, emancipazione coloniale, l’idea degli uomini non più individui separati ma membri sociali.

È caduta definitivamente l’ipotesi centrale delle vecchia cultura liberale: che l’indipendenza dell’individuo dalla società fosse il fulcro della libertà moderna.

Ecco questo deve considerarsi il primo inseparabile paletto. Anzi, in questi ultimi tempi vissuti con crescente indignazione, si è ancora accresciuta la consapevolezza che, al contrario, proprio l’indipendenza – separazione si è rivelata la sorgente autentica della moderna illibertà, giacche soltanto nel reciproco isolamento (pensiamo al consumismo individualistico e all’uso dei nuovi mezzi di comunicazione e di conoscenza) di tutti può crescere la tentazione dispotica di alcuni: l’indipendenza di ciascuno è soltanto il rovescio di una universale dipendenza di tutti.

L’individualismo si è rivelato esso stesso una specifica e storica forma sociale (oggi prevalente sia nella destra, sia nella presunta sinistra): si tende a non far riconoscere più la società come una ramificazione storica dell’individuo e non si rivendica più quella partecipazione consapevole (pensiamo al passaggio nella struttura dei partiti dall’integrazione di massa, al “pigliatutti”, fino al partito “elettorale – personale” di stampo populistico che oggi appare del tutto vincente, sia pure nel microcosmo della vicenda politica italiana) che rimane l’unica arma per evitare l’inconsapevole e gelida dominazione delle cose sugli uomini e quindi il privilegio di alcuni su altri.

A mio giudizio il superamento di questo vero e proprio “blocco” nell’agire politico e sociale fortemente rideterminatosi nel corso degli ultimi anni può ritornare ad essere d’attualità soltanto affrontando nuovamente quello che rimane un doppio sbarramento sul piano teorico: il resistere, sul piano politico, dell’idea che la democrazia rappresentativa rappresenti il modo esclusivo di reggere la società moderna e sul piano economico l’idea che l’economia di mercato sia la sola efficiente forma di ordinare le forme di produzione.

La brusca chiusura della storia del ‘900 non può esimerci, nell’analizzare i due aspetti fondamentali appena citati, dal parafrasare Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”.

Pervengo quindi alla determinazione di alcune altre opzioni di fondo che sono rimaste, comunque nel mio orizzonte di ricerca rappresentando altrettanti fermi “paletti”, collegati strettamente a quelli già enunciati poc’anzi.

Rimangono intatte le contraddizioni relative alla necessità inderogabile che le “garanzie” dell’individuo siano affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e al sistema della “libera impresa”.

Ho sempre considerato il passaggio dello “Stato sociale” quale fase di transizione necessaria in una idea di inestinguibile sviluppo storico.

Oggi quel giudizio può essere riveduto? Apparentemente sì, visto che il moto della storia pare aver girato all’indietro la propria ruota (ribadisco qui quella che è ormai maturata come una convinzione profonda).

Allora, dal nostro punto di vista, si tratta di lavorare per invertire la tendenza.

Perché lo Stato sociale (il “welfare state” dei socialdemocratici e laburisti, il “compromesso” italiano, ad esempio) poteva ben essere considerato come “soggetto di transizione” cercherò di spiegarlo in seguito.

Si può definire meglio, a questo punto, l’identità specifica del Partito Comunista Italiano, almeno sul piano teorico.

Un’identità formatasi attraverso l’intreccio tra l’approccio comunistico che ho già cercato di descrivere e l’incontro con quello che Lucio Magri nel suo “Sarto di Ulm” ha definito come il “genoma Gramsci”.

La scoperta di Gramsci, attraverso Togliatti e la pubblicazione di una edizione “ragionata” e ridotta dei “Quaderni” nell’immediata dopoguerra (quella completa e senza filtri curata da Gerratana arriverà negli anni’70 inoltrati) risultò riduttiva attorno a due punti essenziali: il mancato riconoscimento della portata e della rapidità del processo di modernizzazione dell’economia in Italia e in Europa (uno dei punti strategici del confronto nel partito e nella sinistra all’inizio degli anni’60 prima e dopo la morte di Togliatti: il tema di fondo della divisione Amendola-Ingrao all’XI congresso) e lo sbilanciamento nella funzione del “partito nuovo” al riguardo della funzione di propaganda e di “educazione del popolo” (un grande ruolo, di importanza capitale: beninteso) senza riuscire, però, a costruire davvero quell’intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni dal basso, promotore di una riforma culturale e morale che Gramsci aveva indicato (un ritardo che poi si sarebbe visto, spaventosamente, al momento della liquidazione del partito nell’89): riforma culturale e morale che avrebbe dovuto colmare, nel disegno del grande pensatore sardo, la realtà di un paese che non aveva avuto la riforma religiosa e che aveva costruito il suo “Risorgimento” soltanto attraverso l’opera di una élite intri- sa di romanticismo.

Gramsci fu così accettato quasi come il teorico di una via di mezzo tra ortodossia leninista e socialdemocrazia classica, non vedendolo invece come ideatore di una “terza via” (termine poi ripreso dall’intera sinistra comunista, da Ingrao a Rossanda allo stesso Magri, e financo, nell’ultima fase della sua segreteria anche da un centrista come Enrico Berlinguer) intesa come sintesi superante dei limiti comuni al leninismo e alla socialdemocrazia: l’economicismo e lo stalinismo.

Un “genoma” per l’appunto lo definisce Lucio Magri, che poteva svilupparsi, o semplicemente agire sopravvivendo, imporsi pienamente o deperire.

A mio giudizio, riprendendo le valutazioni contenute nel già citato “Sarto di Ulm” il motore che muoveva e caratterizzava i “Quaderni” era effettivamente quello della critica e autocritica sul fallimento della rivoluzione nei paesi occidentali.

Gramsci fu il solo, tra i marxisti della sua epoca, che non si limitò a spiegare quel fallimento con la teoria del “tradimento” dei socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era immatura ed il suo consolidamento in Stato un errore.

Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della Rivoluzione Russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate (ricordate: “la Rivoluzione contro il Capitale”).

La rivoluzione russa rappresentava, però, il retroterra necessario (e il leninismo un prezioso contributo teorico) per una rivoluzione in Occidente, di percorso diverso e di esito più ricco.

La rivoluzione era dunque, per Gramsci, un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la conquista del potere statale, pur necessaria, interviene ad un certo punto secondo le condizioni storiche, e in Occidente presuppone comunque un lungo lavoro di conquista di “casematte”, la costruzione di un blocco storico tra classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con proprie radici culturali e politiche.

Nel contempo, una tendenza già inscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole che vi interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo umano già in formazione.

Nasce da qui, da questo livello di riflessione, la specificità storica del Partito Comunista prima d’Italia e poi Italiano: e sorge fin dall’elaborazione delle tesi del III congresso (Lione 1926) in anticipo alla svolta di Salerno e al lancio del “partito nuovo” (1944).

Su queste basi il PCI riconobbe il quadro storicamente emerso dal secondo conflitto mondiale, riconoscendo i limiti imposti dai rapporti di forza nel mondo ed in Italia non soltanto per via di una pedissequa applicazione della linea dell’Internazionale (cui pure Togliatti aveva fornito un formidabile contributo) e dell’URSS.

Il PCI mobilitò le proprie risorse per conservare e rafforzare la propria identità autonoma e comunista ( questa fu la principale preoccupazione di Togliatti, quella della “legittimazione nazionale” di una forza comunista), attestandosi su di una linea tesa ad impedire una nuova “rivoluzione passiva” e conquistare pezzi di egemonia sulla società e sulla cultura,

Dall’intreccio tra l’approdo al Marx dell’irruzione popolare della storia ed il Gramsci delle “casematte” originò così la mia personale adesione all’area comunista italiana, nella convinzione mai smentita di una specificità rispetto al comunismo sovietico e a quello cinese: IL PCI è stato il più forte in Occidente, mentre il PCF declinava e il PCE era ancora clandestino.

Non a caso e non a caso la “nostra” classe operaia, da Nord a Sud, dall’Ansaldo a Grottaminarda era la più avanzata sia sulla strada del realizzare i diritti sociali e politici fondamentali, sia dal punto di vista dell’organizzazione di classe in fabbrica.

LA CONCLUSIONE DELL’ESPERIENZA DELLA SINISTRA COMUNISTA

Ottobre 1990: l’esito del seminario di Arco sancisce la spaccatura definitiva della sinistra comunista in Italia e la chiusura di quella esperienza politica che poteva ben essere fatta risalire al gruppo della sezione socialista di Torino raccolto attorno all’ “Ordine Nuovo” alla fine degli anni’10, poi, via, via, nelle posizioni di Ingrao all’XI Congresso, alla vicenda del “Manifesto”, all’ultimo Berlinguer quello dell’alternativa democratica, fino – appunto – alla mozione del “NO” allo scioglimento del PCI, cui, improvvidamente, era stato concesso di collegarsi anche all’ala filo sovietica di Cossutta che non aveva mai appartenuto alla sinistra comunista.

In quella sala di Arco dopo la relazione di Magri, gli interventi opposti di Cossutta e di Ingrao (con la celebre metafora del “gorgo”) chiusero ogni possibilità di dibattito politico, presentando la realtà di una divaricazione non superabile.

In quell’occasione, insomma, non soltanto si affermava, di conseguenza, la proposta di Occhetto, ma svaniva la possibilità di ricostruire una adeguata soggettività politica rappresentativa della storia fondamentale per il movimento operaio italiano.

L’occasione di Arco fu, a mio giudizio, l’ultima nella quale si dimostrò concretamente il significato di “radicamento sociale” per una forza politica. Torno sul seminario di Arco e per far comprendere al meglio quella vicenda ricorro, come in altre parti di questo lavoro, ad un testo dell’epoca pubblicato da “A Sinistra” nel Dicembre 1990.

Mi capitò, dunque, in quell’occasione di scrivere queste note: “Il seminario di Arco ha rappresentato un momento particolarmente importante perché ha presentato un punto, difficilmente ripetibile, di presentazione dello “spaccato” reale che il PCI presentava in quel momento quale suo complesso “insediamento politico”.

Prendo ad esempio, per avviare una verifica della realtà concreta presente appunto in quell’ “insediamento politico”, la contestazione avvenuta proprio nella sede del seminario, da parte delle donne comuniste, al riguardo dei dati organizzativi proposti per lo svolgimento dei lavori.

A quei rilievi avanzati dalle donne la risposta che venne resa potrebbe essere definita di buona volontà e di mediazione: nulla, però, che spostasse al fondo – appunto – la realtà politica presente in quella sede.

Una realtà politica che risultava essere testimonianza diretta (questo il punto che vorrei sottoporre all’attenzione di tutti) di una identità ben precisa, di cui erano provvisti, non tanto e non solo la gran parte dei partecipanti al seminario in quanti tali come “corpo separato”, ma in corrispondenza diretta con la massa, spesso silenziosa ma cosciente, di intere generazioni di comunisti italiani.

Il seminario di Arco ha avuto un esito complesso, problematico, i cui effetti non saranno certamente misurabili soltanto con il metro dell’attualità: ma soprattutto ha avuto un esito inquietante, intendendo questo termine nella sua accezione più moderna dell’inquietudine positiva, figlia di quell’intellettualità del ‘900 nutrita dal dovere del dubbio.

In questo, nel “dovere del dubbio”, il dibattito ascoltato ad Arco, salvo poche voci dissenzienti, risultava, ripeto, davvero in stretto rapporto con i fondamenti dell’identità comunista italiana.

Si è trattato insomma (e per questo vale la pena di ragionare ancora sull’insieme delle questioni che erano state poste in quella sede) di un seminari che potrebbe ben essere definito, per davvero, come di “impostazione togliattiana”.

“Impostazione togliattiana”, naturalmente non per i contenuti che vi sono stati espressi, e sui quali cercherò in seguito di ritornare, ma per la forma nella quale questi contenuti sono stati espressi, che ben potrebbero essere definiti con l’antica formula del “totus politicus”.

Naturalmente è stata grande l’attenzione verso l’analisi della situazione in atto, con affermazioni, per lo più convergenti, attorno all’accelerazione drammatica degli eventi, la scoperta dei nodi lasciati irrisolti dalla sconfitta subita nel corso degli anni’80; l’enunciazione dei rischi di imbarbarimento, di vero e proprio ritorno all’indietro che si stanno correndo; la presa d’atto del peso assunto dai processi di ristrutturazione e riconcentrazione del potere capitalistico, fino all’esame delle incertezze derivanti dal processo in atto di superamento del bipolarismo: incertezze spinte al punto tale da lasciare molti storditi, annichiliti, smarriti rispetto al riproporsi inaspettato della tragica scelta tra la pace e la guerra.

Ma, su tutto questo, ad Arco dominava la politica.

La politica con le sue gerarchie, i suoi codici, la strutturalità che le deriva dal costituire la sede storica della determinazione; del suo formarsi, la politica come fatto sociale, attraverso lenti, im- perscrutabili,ma solidi processi culturali e sociali.

Il contrario, insomma, dell’improvvisazione, del colpo di teatro, dell’immagine usata al posto della sostanza.

Roba d’altri tempi? Ma sostituibile altrettanto facilmente? Questa la domanda che, anche al punto in cui siamo giunti, dovremmo porci seriamente.

Una domanda al riguardo della quale non pare, almeno fin qui, essersi determinata una precisa volontà di andare particolarmente a fondo.

Prendo a pretesto, sempre riferendomi al seminario di Arco, la relazione di Lucio Magri, allorquando vi si individuavano alcune delle ragioni profonde motivanti quella proposta di radicale superamento della forma partito/PCI, avanzata da Occhetto e che dovrebbe, appunto, trovare nel XX congresso la sua sanzione definitiva.

Tento di reinterpretare e semplificare proprio quel tipo di ragioni:La constatazione, nel venir meno, all’interno del partito togliattiano di massa sul cui modello la struttura del PCI si era fin qui concretamente fondata, dei due elementi considerati (a torto o a ragione) quali veri e propri punti costitutivi: l’immediata riconoscibilità di un soggetto sociale “centrale” come quello rappresentato dalla classe operaia e la disponibilità di un nucleo intellettuale militante d’avanguardia, politicamente preparato ed inserito in “tutte le pieghe della società”.

L’esigenza di rinnovare a fondo l’identità politica delle forze di trasformazione, a fronte di rilevantissimi mutamenti, avvenuti in particolare sul piano internazionale, rispetto ad elementi fondativi per qualsiasi ipotesi politica: la scienza, l’economia, la cultura, il costume di vita quotidiana. L’errore vero compiuto da Occhetto, nel proporre un mutamento radicale nella realtà del partito sulla base degli inoppugnabili punti di analisi che ho appena cercato di descrivere, è stato però quello di assumere come categoria fondante della sua proposta, una ipotesi di “crisi della politica”.

Una assunzione, questa della categoria di “crisi della politica”, tutta ideologica dimostrata dalla qualità stessa delle proposte fin qui presentate sui diversi piani, dal programmatico all’organizzativo, proprio perché determinatasi al di fuori di una analisi tendente a contrastare, al fondo, i processi di passivizzazione sociale, introdotti dalla fase di modernizzazione capitalistica avviatasi alla fine degli anni’70 ed ancora in corso. “Passivizzazione sociale” ed “ideologia della crisi” rappresentano l’accoppiata naturale, sulla quale i nuovi padroni del vapore, rappresentati dai gestori dell’attuale fase di governo autoritario dell’innovazione tecnologica su cui si fonda la drammatica recrudescenza della logica delle diseguaglianze e del dominio che va estendendosi a livello mondiale verso Est e verso Sud, hanno fondato la prospettiva della cancellazione del “caso italiano”.

L’obiettivo non risulta essere semplicemente quello di una cancellazione di una forma partito data (come nel caso, pur estremamente significativo del PCI).

Risulta, invece, essere quello dell’estirpazione delle radici, profonde, complesse, stratificate, ma parte integrante della nostra coscienza nazionale, dell’intera opposizione sociale presente nel Paese.

Non comprendere che quella era la posta in gioco e discettare, invece, sulla qualità più o meno “antagonista” delle diverse impostazioni programmatiche assunse in questo frangente, il sapore di una tragica beffa.

Ritorno dunque all’analisi del dibattito svoltosi nel seminario: non risultò, nell’occasione, pienamente convincente il richiamo, che pure è stato insistentemente svolto, alla questione dell’identità.

Il problema, infatti, non risultava, allora, proprio in ragione della contingenza temporale in cui era caduta la convocazione dell’assemblea, essere quello della “scissione/non scissione”: quanto, piuttosto, quello della collocazione politica, vera e complessa, dell’identità comunista italiana.

Nella relazione di Magri risultava ben presente il rifiuto, ampiamente e ragionevolmente motivato, di legare indissolubilmente il tema dell’identità comunista italiana, alla crisi verticale dei cosiddetti “socialismi realizzati”.

Le conclusioni che il dibattito ha tratto, proprio attorno a questo specifico argomento, sono però risultate misurate attorno ad un asse di ragionamento che ha lasciato parecchi punti in sospeso. È mancata infatti, almeno a mio avviso, la capacità di spingere oltre a quella impostazione “togliattiana” del seminario a cui già accennavo, proprio il tema cruciale dell’identità.

Si tratta di un giudizio politico che credo proprio di dover sostenere con convinzione, senza sollevare alcune ombra polemica ma solo per introdurre alcuni elementi di approfondimento all’interno di un dibattito che risulterà certamente ancora lungo e tormentato.

Motivo meglio il perché di questo giudizio: del ravvisare, cioè, anche all’interno dell’area dei comunisti democratici, un deficit di motivazione politica nel sostenere la necessità di una presenza, appunto pienamente politica, dell’identità comunista in Italia.

Una necessità di presenza pienamente politica collocata, beninteso, al di fuori da quelle logiche di massimalismo arroccato, che pure sono presenti nel dibattito in corso e sulle quali alcuni puntano in maniera fin troppo disinvoltamente scoperta.

Un deficit di motivazione politica che deriva da una visione distorta del grado di continuità con il togliattismo che si intende, più o meno consapevolmente, mantenere e che si è, appunto, avvertita tangibilmente nel corso del seminario.

Il problema, rappresentato dalla velata riproposizione dell’identità togliattiana a sostegno dell’ipotesi di continuità nella presenza politica dei comunisti italiani va quindi affrontato, per davvero, attraverso una proposta di rifondazione riguardante, però, non soltanto il complesso dei rapporti interni all’area comunista, o ex-comunista, o post-comunista, ma l’insieme dei rapporti a sinistra consolidatisi nella realtà politica del Paese.

Mi permetto, allora, di riassumere molto brevemente i punti che ritengo risultare costitutivi di una possibile rifondazione della nostra identità comunista, basandomi su alcuni elementi che ritengo, ancor oggi, irrinunciabili e che rappresentano il punto di saldatura tra la decisiva impostazione gramsciana del ‘26 ed i successivi aggiustamenti seguiti alla necessità (politicamente giustificata ampiamente) di seguire, per lungo tempo, le evolu- zioni strategiche dell’Internazionale Comunista.

Penso, cioè, al punto di saldatura vero consolidatosi tra Gramsci e Togliatti.

Un punto di saldatura verificatosi a livello altissimo, attorno ad un riferimento di tipo universale ed alla prospettiva, concreta, non relegata nel libro dei sogni, di una originale evoluzione del processo rivoluzionario in Occidente.

1 – Da quell’intreccio, da quel punto di saldatura, sviluppatosi progressivamente nel corso degli anni che rimangono i più difficili di questo secolo, ne derivava che Gramsci e Togliatti lavoravano sulla necessità di formare, attraverso un lento e articolato lavoro di lotta sociale e politica, un blocco storico anticapitalistico. Una lezione valida tanto più oggi, alla vigilia dell’apertura di un nuovo ciclo nella storia d’Europa, per l’esistenza di pressanti ragioni di complessificazione del sistema sociale e di radicalizzazione della lotta politica, rispetto alle quali la realizzazione di un “metodo politico dell’alternativa” in luogo di un semplice “schieramento dell’alternativa” rimane il solo sbocco politico in positivo. L’utilizzo della mediazione praticabile da forze politiche profondamente ramificate nel senso comune di massa, smantellando un apparato egemonico costruito dall’avversario per costruirne uno radicalmente alternativo. L’operatività di un partito in grado di agire non come una semplice avanguardia, come come intellettuale collettivo, promotore di una riforma intellettuale e morale.

2 – L’esigenza, infine, di fare tutto questo attraverso un non breve processo di lotta, all’interno della società capitalistica, con parole d’ordine intermedie e positive e con una forte attivizzazione e partecipazione di massa.

È proprio da questi punti che può, allora, apparire possibile trarre gli elementi maggiormente definitori, di una identità difficilmente alienabile:

a) l’accentuazione dell’idea della rivoluzione come processo sociale, definendo così, immediatamente, un rapporto di profondo intreccio fra ricerca sulle forme della democrazia e la prospettiva del socialismo;

b) l’accentuazione sulla necessità di produrre un reale processo sociale; sull’elemento cioè della transizione come lunga fase storica che porta in primo piano il tema delle alleanze e del primato del potere politico.

Attorno a questi due punti non si è realizzata, a cavallo dell’avvento del fascismo, una semplice scissione tra socialisti e comunisti: i comunisti italiani rifiutarono, a quel punto ed in una misura assai più rilevante di altri in Occidente, la storia e la tradizione della II internazionale.

Un rifiuto che originava, quindi, da ragioni storiche ben più profonde, di quelle derivanti dalla volontà di applicare integralmente i dettati dell’Internazionale comunista.

Un rifiuto che derivava dall’individuare nell’economicismo piattamente evoluzionista, il limite storico dell’esperienza riformista.

Con Arco si chiudeva, così, almeno a mio avviso la storia della sinistra comunista in Italia.

LE ALTERNATIVE POSSIBILI MANCATE

“Democrazia bloccata”, “conventio ad excludendum”, “consociativismo”: su questi tre punti si è sviluppato il processo che, in ragione di fattori derivanti sia dal vincolo esterno (caduta del muro di Berlino, trattato di Maastricht) sia dal vincolo interno (Tangentopoli) ha portato all’implosione di quella che, nella definizione di “Pietro Scoppola”, è stata la realtà della “Repubblica dei Partiti”.

Nella sostanza la fase repubblicana sviluppatasi tra il 1945 e il 1980 che si è frantumata di fronte all’assenza di una alternativa che non fosse quella “politicista” del cambiamento della legge elettorale.

Una fase contrassegnata dal permanere della posizione “pivotale” da parte della Democrazia Cristiana, dal progressivo adeguamento alle logiche di governo da parte del Partito Socialista fino all’assunzione della “logica” della governabilità nella fase della segreteria Craxi, dalla tensione consociativista del PCI quale riflesso della ricerca “togliattiana” sull’identità nazionale.

Un periodo nel corso del quale si segnò la ricostruzione del paese realizzata attraverso il piano Marshall e i grandi sacrifici imposti ai lavoratori: ricostruzione come base verso l’affermarsi del consumismo, avvenuto nell’esaurimento delle logiche “comunitarie” del welfare keynesiano nei trent’anni gloriosi fino all’affermarsi dell’individualismo dello sfrangiamento sociale.

La riflessione andrebbe aperta sull’assenza di un’alternativa alla democrazia bloccata e alla conventio ad excludendum : si potrebbe discutere oggi di un appuntamento mancato attorno ad almeno 3 visioni d’analisi emerse nel movimento socialista e comunista e mai raccolte all’interno di un progetto politico che pure poteva anche risultare possibile.

Le tre visioni riguardano:

1 – La critica iniziale portata avanti da Basso fin dalla natura del CLN e quindi rispetto all’origine stessa della Resistenza, della Costituzione, della Repubblica. L’interrogativo posto da Basso all’origine del CLN riguardava, rispetto al ruolo dello PSIUP, l’opportunità di stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma di autonomia politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanze delle riforme di struttura.

Nel giudizio di Basso l’avere accettato l’impostazione paritetica ed indiscriminata dei C.L.N. aveva aperto facilmente le porte ai sabotatori della Resistenza: nella sua valutazione, infatti, sarebbe stato sufficiente che una parte di coloro stessi che avevano sostenuto il fascismo, che ne avevano approfittato durante un ventennio e che avrebbero volentieri continuato ad approfittarne, venissero a cercare un alibi in seno a qualche partito riconosciuto come antifascista. Basso lamentava anche la mancanza di un programma di rivendicazioni sociali che caratterizzasse i partiti proletari e sulle quali si sarebbe forse potuto, nel clima della Resistenza, ottenere il consenso anche dei partiti borghesi. L’impostazione della politica postfascista non si realizzò così come una rottura del ventennio ma fu invece tutta dominata dalla preoccupazione di assicurare la continuità politica e giuridica col vecchio stato sabaudo-fascista, e di soffocare ogni tentativo di rinnovamento sotto uno scrupolo di legalità formale, senza riflettere sul fatto che si trattasse di legalità fascista, perché fasciste erano le leggi in vigore.

La mancanza di una qualsiasi riforma sociale nei programmi dei primi governi Parri e De Gasperi e il loro rinvio alla Costituente prima e alle Camere Legislative poi, avrebbe finito con lo svuotare la lotta politica italiana di ogni serio contenuto, capace di orientare ed educare democraticamente le masse popolari, lasciandole così preda della demagogia dei programmi e della retorica dei disborsi, anziché del chiaro linguaggio dei fatti. Comunque la lotta politica in Italia, dall’aprile 1945 fino alla rottura del Tripartito, fu dominata da questo equivoco. In omaggio all’idea dell’unità, il C.L.N. non aveva elaborato un programma su cui fosse possibile dividersi, e in omaggio alla stessa unità le sinistre rinunciarono ad elaborarlo per proprio conto e a lottare per esso. La critica di Basso arrivava così al cuore della politica dei partiti di sinistra: lontani al mettere in chiaro le differenze, erano apparsi anch’essi do- minati dal desiderio di confondere le tinte, di attenuare le di- stinzioni, di mettere in ombra le caratteristiche particolari, per apparire anch’essi come dei bravi democratici antifascisti che si distinguevano dagli altri democratici antifascisti quasi soltanto per il maggior impegno che ponevano nel realizzare le comuni rivendicazioni.

2 – La critica avanzata da Panzieri. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni Rossi, Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati come la IV sezione del I libro del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel di- battito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale per indagare i processi di trasformazione economico – sociale e per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro.

Su queste basi Panzieri elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di classe”.

Panzieri considerava l’operaio massa, tecnicamente dequalificato rispetto all’operaio di mestiere, come portatore di una potenzialità conflittuale molto forte.

La composizione di classe indicava il nesso tra i connotati oggettivi della forza lavoro in un certo momento storico e i suoi connotati politici soggettivi.

Secondo Panzieri non esisteva alcune tendenza immanente al superamento della divisione del lavoro, così come non esisteva alcun limite allo sviluppo del capitale.

L’unica costante nel modo di produzione capitalistico era rappresentato dalla crescita (tendenziale) del potere del capitale sulla forza lavoro e l’unico limite al capitale è la resistenza della classe operaia.

Panzieri ipotizzava che, in ragione della crisi della teoria economica, il capitalismo avesse perduto il suo pensiero classico nell’economia politica e avesse ritrovato la sua scienza non vol- gare nella sociologia, la quale segnalava il passaggio del problema del funzionamento del meccanismo economico a quello dell’organizzazione del consenso.

Tale trasformazione corrispondeva a un mutamento del rapporto tra ricchezza e potere. Il rapporto tra ricchezza e potere si trasformava in una concezione del potere inteso ad asservire la ricchezza, in una funzione del denaro utilizzato come mezzo per conseguire il dominio politico.

Una analisi che, anche in questo caso, può essere ben considerata come profetica e di fortissima attualità.

Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre).

L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente – in quella fase – a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”).

Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale tutta incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro.

Una tesi, quella del marxismo italiano “ufficiale” compresa tra la programmazione giolittiana e il sostegno al “capitalismo straccione” di Amendola, che Panzieri contrastò vivacemente come altri fecero in diverse sedi (a partire dal convegno dell’Istituto Gramsci sulle “tendenze del capitalismo italiano” svoltosi nel 1962 di cui si parlerà in seguito).

L’analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica.

L’eredità teorica di Panzieri rimase così sullo sfondo nell’elaborazione della sinistra italiana.

3 – La posizione emersa nella sinistra comunista in particola- re nell’occasione del già citato convegno organizzato nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del Capitalismo italiano”.

In quel convegno la futura “sinistra comunista” che avrebbe fatto capo a Ingrao (assente nell’occasione) e rappresentata dagli interventi di Trentin e Magri fu capace di sottolineare le novità qualitative che stavano emergendo nel capitalismo italiano. Dal subbuglio del neocapitalismo arrivavano al dunque problemi e bisogni che andavano oltre la semplice redistribuzione del reddito e/o la modernizzazione del sistema (come pensava Amendola). Si trattava di far prendere forma all’insieme dei rapporti politici e sociali in mutamento nel corso di quegli anni aprendo due filoni principali di riflessione:

a) quello con la classe operaia nell’ambito di una relazione che non fosse soltanto quella sindacale, ma quello di una lotta operaia urbana ad alta densità politica. L’industrializzazione doveva accompagnarsi con la modernizzazione. Su questo punto il collegamento con Panzieri che chiosando i Grundrisse ne aveva ripreso un concetto fondamentale: “ Verrà il momento che lo sfruttamento materiale sarà ben misera cosa per misurare la ricchezza, perché emergeranno nuovi bisogni e criteri per misurare il progresso e la ricchezza”

b) quello di una battaglia, della quale si erano già visti elementi concreti nei fatti del Luglio ‘60 nel corso dei quali i giovani erano stati l’anima dell’antifascismo, che indicasse come la lotta contro il fascismo non fosse finita con l’obiettivo di sradicare quanto ancora ci fosse di fascismo nelle istituzioni e nella società.

In entrambi i punti emergono con chiarezza gli elementi di collegamento nel pensiero tra questi soggetti e protagonisti politici. Quanto fosse possibile costruire un’alternativa alla dimensione dominante dei partiti di massa rimane un interrogativo la cui risoluzione è ormai circoscritta al segno della storia.

UNA INDICAZIONE DI PROSPETTIVA: IL DIALOGO GRAMSCI-MATTEOTTI (CON FELICE BESOSTRI)

Quel patrimonio culturale e politico che la sinistra comunista italiana ha accumulato e rappresentato nel corso degli anni deve essere messo a disposizione per un progetto di superamento delle antiche rotture e di nuova identità all’altezza delle contraddizioni dell’oggi.

E’ evidente che i tempi non consentano di riprendere gli schemi usati e che, meno che mai, possono essere semplicisticamente riprese le antiche tradizioni.

Nasce da questa convinzione l’idea di ricostruzione di una sinistra d’alternativa la cui identificazione è stata avviata attraverso l’insegna del “Dialogo Gramsci – Matteotti”

Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo di vera e propria ricostruzione.

Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della possibile ripartenza:

1 – L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma immancabilmente votate al fallimento;

2 – la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica politica, superando in avanti antiche divisioni. Di qui l’impegno ad evitare d’ora in avanti ogni ridicola diatriba sul “aveva ragione questo” o “aveva torto quello”, come ogni pretestuosa richiesta di scuse davanti alla storia (anzi alla Storia) ecc., ecc.;

3 – è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di genere.

Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di trasformazione dell’esisten- te. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta interpretare il mondo, occorre cambiarloche riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;

4 – Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile, è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico” o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione. Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo nuovo;

5 – della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del 2007. Sotto quest’aspetto il grande tema rimane quello di un rilancio concreto dell’internazionalismo e della prefigurazione di un modello economico e sociale alternativo a quello neoliberista;

6 – in questo quadro un “dialogo Gramsci – Matteotti”, che parta dalla loro analisi dell’avvento del fascismo dopo la fine della Grande Guerra, può essere propedeutico ad un rinnovato discorso culturale e politico di sinistra all’indomani della fine della Guerra Fredda (e in presenza dei ricordati fenomeni di crisi della democrazia e di fascismo di ritorno). Non ci interessa costruire una sorta di Pantheon comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.

Ritornare a Gramsci e Matteotti dunque. E non solo in ragione del grande valore morale e politico rappresentato dalla loro comunanza di martirio, ma soprattutto per alcuni tratti comuni della loro analisi. Che ci paiono tanto proficue a tanta distanza di tempo ed entro tutt’altra temperie politica e sociale.

Come preziosa ci appare la coerenza e l’intransigenza, scevra di settarismo, che sempre sottese la loro vita.

Sicuramente qualcuno potrà trovare fra i due autori testi o passaggi contradditori tra loro: condanne reciproche, interventi svolti sull’onda del contingente, che in apparenza parrebbero smentire la praticabilità di una ricerca attorno appunto a comuni “linee di successione”, ma si tratterebbe di letture superficiali e strumentali. Non ci si rapporta così ai classici. E Gramsci e Matteotti sono certamente dei classici della nostra modernità politica.

Di certo a noi non interessa indulgere in polemiche di corto respiro.

Molto più utile fissare alcune “linee” di lavoro:

intanto l’impegno a sviluppare una adeguata “profondità di pensiero politico”. Potrebbe essere utile in questo senso riscoprire la categoria di “pensiero lungo”, a indicare uno sforzo di analisi e proposta che abbia respiro e profondità; premessa indispensabile tanto alla ricerca delle origini classiche di una teoria critica dell’esistente, quanto alla immaginazione e realizzazione di scenari futuri all’insegna della qualità e della civiltà; recuperare poi la capacità di riflessione e intervento sul presente che fu innanzitutto propria di Gramsci e Matteotti. Se il primo infatti è stato tanto l’organizzatore degli operai di Torino, quanto l’acuto interprete dei termini essenziali della “questione meridionale” (all’epoca coincidente in larga parte con la “que- stione contadina”), Matteotti è stato il riferimento dei braccianti di una delle zone più povere e d’intenso sfruttamento, quella del Delta del Po, ma anche chi indagò e denunciò le trame spesso oscure che intrecciavano già allora finanza e sfruttamento delle fonti energetiche; ma decisiva è anche la questione morale. In Gramsci essa costituiva una sorta di stile di pensiero e di vita, strettamente connessa alla fatica del pensiero, al rigore degli studi e delle analisi indispensabili all’azione politica di una classe operaia che doveva essere classe dirigente nazionale. Ebbene era la stessa serietà e intransigenza che animava Matteotti, quella che sempre ne sostenne l’azione politica e parlamentare; si pensi solo alla capacità d’inchiesta, alla fermezza con cui agitò proprio la “questione morale” in faccia al fascismo rampante, quella stessa che costituì la vera ragione della sua condanna a morte; ora fu proprio una radicale e coerente capacità di analisi a consentire sia a Gramsci sia a Matteotti di antivedere le dinamiche sociali e politiche che avrebbero portato al regime fascista. La cosa è tanto più significativa perché le loro intuizioni si sviluppavano in un clima nel quale, anche in ambiente antifascista, inizialmente ci si illuse che il movimento mussoliniano potesse essere solo un fenomeno passeggero, una “parentesi”, magari addirittura utile per riportare all’ordine liberale, dopo i drammi della guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra. Del resto allora addirittura a sinistra vi fu chi non riuscì a cogliere la pericolosità del fenomeno, considerandolo mero elemento degenerativo del capitalismo, cui ovviare attraverso il mero rilancio della dinamica della lotta di classe.

Ebbene le analisi ben altrimenti approfondite di Gramsci e Matteotti, un certo stile intellettuale e morale, tornarono utili non solo dopo il 1945 per la ricostruzione dei grandi partiti della sinistra dell’Italia repubblicana, ma mantengono un’intatta utilità ancora oggi, in un paese in cui la sinistra è letteralmente scomparsa e ci troviamo di fronte a problemi immani ed inediti di rifondazione e ricostruzione.

Per questo ci sembra indispensabile avviare un processo di “confronto costituente”. Gramsci e Matteotti possono contribuire a trovare la giusta direzione di marcia.

Resta per altro per noi chiaro che quella che ci attende non è una operazione di mero valore scientifico, individuare infatti le linee “di frattura” e “di successione” deve servire a meglio pre- parare il terreno per lo sviluppo del più alto livello possibile di progettualità sistemica.

Se ancora a cavallo tra il XIX il XX secolo definire cosa fosse il socialismo era abbastanza semplice e la divisione era su come raggiungere l’obiettivo di una società senza classi e con i mezzi di produzione in proprietà collettiva, oggi non solo in quel che resta della sinistra ci sono profonde differenze programmatiche, ma proprio il punto del socialismo è tutt’altro che condiviso. Si tratta dell’ennesima riprova della profondità di una crisi che è politica, teorica, morale, di classi dirigenti.

Di qui l’esigenza, che avvertiamo impellente, di un ripensamen- to dei fondamenti di una teoria e pratica politica che possano dirsi di sinistra, socialiste, riformiste, radicali, intransigenti.

Partire da Gramsci e Matteotti dunque come modo migliore per riprendere il cammino. Per dare sostanza ad un progetto politi- co ambizioso: che mira a ridare a poveri e sfruttati il loro partito e alla democrazia italiana una soggettività politica indispensabile. Necessaria alla sua qualità, alla sua rappresentatività, alla sua stessa sopravvivenza.