TURATI E GRAMSCI ASSIEME

    di  Daniele Scarpetti – Socialismo XXI Emilia Romagna |     Ci sono giorni che penso che forse la meta – quella di tutte le forze socialiste di nuovo unite – non sia poi così difficile ed altri, invece, leggendo editoriali, commenti e via dicendo, mi rendo conto che la cosa rimane assolutamente improbabile se non impossibile. Troppe le distanze? Forse! Troppa voglia di essere al centro, protagonisti, di non essere offuscati? Certamente, anche questo! Ma penso che quello su cui bisogna -o bisognerebbe se solo lo si volesse  fare ancora tanta strada- è il riuscire a mettere da parte antichi e mai sopiti rancori per non dire odi che, nel corso di 100 anni si sono sedimentati sulla Sinistra Socialista Italiana. Finché si continuerà a rimproverarsi sul tutto e il contrario di tutto, non se ne uscirà vivi. Finché non trionferà la voglia di riunirsi tutti attorno ad un tavolo – per ora solo via web, ma si spera presto in presenza – per comprendere, ammettere gli errori fatti un po’ da tutti, cercando di valorizzare ciò che unisce e non ciò che divide, non se ne verrà a capo. Non se ne verrà a capo e, ancora una volta, l’occasione per dare all’Italia una forza SOCIALISTA che aspiri a diventare maggioranza nel Paese, rimarrà lettera morta, pia illusione per inguaribili ingenui come il sottoscritto. Poi improvvisamente ecco due articoli di segno completamente opposto: Maledetta Livorno: aveva ragione Turati, non Gramsci La Storia ha dato torto a Turati e ragione a Gramsci Io come mi pongo rispetto a questi due articoli? Già diverse volte ho affermato che nel 1921 Turati aveva ragione e, però, sarebbe sbagliato il voler disconoscere che, se è vero che la storia non si fa con i se, è però molto probabile che se – appunto! – non ci fossero stati i comunisti, percepiti dal capitalismo come il pericolo assoluto per la sua sopravvivenza, ben poco i Socialisti riformisti sarebbero riusciti ad ottenere in campo di conquiste sociali il secolo scorso, tanto è vero che da quando il pericolo comunista è terminato, stiamo di gran lunga facendo passi indietro anche, perché, tutte le Socialdemocrazie, non riescono più ad essere alternative allo status quo capitalistico. Dunque è molto probabile che Turati aveva ragione, ma la Storia dà la ragione a Gramsci. E dunque, se così fosse: proviamo a rimettere Turati assieme a Gramsci che è, in fondo, ciò che lo stesso Turati auspicò con la sua profezia nel 1921. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA

    di  Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   (da Ideologia socialista) Nel processo di scambio M-D-M uno scambista in possesso di un bene, di una merce M scambia a mezzo denaro la merce posseduta con una merce diversa posseduta dall’altro scambista che desidera la merce del primo scambista. Marginalisticamente si può pensare che i due scambisti possiedano la loro merce in quantità abbondanti (e quindi con bassa utilità marginale) mentre non possiedano la merce altrui (quindi con alta utilità marginale). Cedendo entrambi gli scambisti merce di bassa utilità marginale ed ottenendo in cambio merci ad alta utilità marginale, lo scambio acresce l’utilità di entrambi gli scambisti. D in tal caso è solo uno strumento che agevola lo scambio, e al limite, nel baratto, potrebbe anche non esistere. La funzione della moneta consiste nel rendere possibili scambi che nel baratto non sarebbero possibili. Se il soggetto 1 possiede il bene A e desidera il bene C, il soggetto 2 possiede il bene B e desidera il bene A ed infine il soggetto 3 possiede il bene C e desidera il bene B, il baratto non sarebbe possibile. L’intervento della moneta D rende invece possibile lo scambio per cui 1 cede il bene A a 2 in cambio di D e cede D a 3 ottenendo il bene C; 3 acquista da 2 il bene B cedendo D ed infine 3 otiene B da 2 in cambio di D. Tutto funziona assumendo che 2 sia anche in possesso di D, che alla fine degli scambi ritorna a 2. Lo scambio tra due M uguali non avrebbe senso, lo scambio presuppone quindi una diversità qualitativa tra i beni scambiati, si tratta quindi di scambi di valori d’uso. Nel processo D-M-D’ invece, il produttore usa D per acquistare il bene M (beni e/o forza–lavoro) che rivende con un plusvalore (ottenuto dal pluslavoro non pagato) al prezzo D’. In tal caso la differenza tra D e D’ non è una diversa qualità del bene D (come invece era nel caso precedente) ma si tratta dello stesso bene d in quantità maggiore; D’>D per un ammontare pari al plusvalore. Ora tale plusvalore può essere utilizzato per acquistare beni d’uso per il produttore, ovvero può essere trattenuto in azienda che godrebbe così di più liquidità, per acquistare maggiori quantita di beni M (beni e/o forza-lavoro) incrementando il suo giro d’affari. Il produttore può accantonare plusvalori per più anni, ad esempio 5 anni, e alla fine comperarsi macchine di nuova tecnologia con cui sbaragliare la concorrenza. In tal caso il lavoro vivo del progettista della macchina viene incorporato nella macchina stessa e acquistato come lavoro morto dal produttore che riesce, grazie alla tecnologia, ad aumentare i beni prodotti con lo stesso numero di ore di lavoro necessario a ripagare la forza-lavoro. Aumenta così il plusvalore relativo ma non necessariamente quello assoluto se il lavoro delle macchine sostituisce in maggior misura il lavoro vivo. Se invece la banca riesce a convincere i risparmiatori a depositare in conti correnti i denari che si nascondono sotto al materasso, la banca può prestare i soldi al produttore che può in tal modo acquistare la macchina di nuova tecnologia con 5 anni di anticipo rispetto al produttore che accantona plusvalori. E’ vero, il secondo produttore deve pagare gli interessi alla banca (magari con il plusvalore) ma riuscendo a sbaragliare la concorrenza da subito rende la sua scelta vincente. Ecco che la finanza si affaccia sul mercato e rende possibile lo spostamento del plusvalore del primo produttore al secondo produttore. La finanza non genera plusvalore ma permette che un soggetto produttore sottragga plusvalore ad un altro profuttore. Fintanto che il denaro è rappresentato dall’oro, è impossibile “creare” denaro, lo sviluppo finanziario rimane vincolato al quantitativo di oro in circolazione ed alla sua velocità di circolazione. Ciò sarebbe vero anche se l’oro viene sostituito in monete cartacee “convertibili in oro”, ma la realtà è che la moneta cosiddetta fiduciaria è stata emessa in misura eccedente alla quantità di oro sottostante. Quando il dollaro era convertibile, il generale De Gaulle inviò una nave carica di dollari affinchè fossero convertiti in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia, quando sul mercato l’oro valeva molto di più. Gli Stati Uniti d’America infatti per finanziare la guerra del Vietnam avevano stampato dollari in abbondanza, rendendo onerosissima la conversione in oro. Il 15 agosto 1971 Nixon, in pieno ferragosto, dichiarò la fine della convertibilità del dollaro. Iniziò la marcia trionfale della finanziarizzazione. Oggi le banche se vogliono finanziare un produttore non hanno bisogno di raccogliere i risparmi dei cittadini (cosa che naturalmente continuano a fare) ma possono creare moneta dal nulla, rovesciando i termini tradizionali dell’asserzione “i risparmi generano gli investimenti” in “gli investimenti generano i risparmi” con cui ripagare i prestiti. D cessa quindi di essere un passivo strumento di scambio per divenire un attivo agente del processo produttivo. Dire che D diventa un attivo agente della produzione non significa che esso “crei valore”, significa che esso permette di anticipare il processo di creazione del valore. Il che è tuttavia subordinato alla condizione che il processo in cui viene utilizzato D abbia successo, altrimenti quel denaro “creato” non sarà in grado di generare i risparmi per ripagare il debito. Nel suo libro “Il valore di tutto”, Mariana Mazzucato ripercorre tutte le fantasiose manovre inventate dalla finanza per rendere efficace quella che l’autrice chiama “estrazione” del valore che i prenditori mettono in atto per appropriarsi quote sempre maggiori del valore creato dai produttori. Ella ci racconta come “Nel Regno Unito, il deficit di finanziamento dei clienti, ossia la differenza fra i prestiti concessi e i depositi delle famiglie (visti tradizionalmente come la forma più sicura di finanziamento delle banche) crebbe da 0 nel 2001 a più di 900 miliardi di sterline  nel 2008, prima che la crisi lo portasse a meno di 300 miliardi di sterline nel 2011)”.  Inoltre evidenzia le pratiche di estrazione del valore messe in atto dalle case farmaceutiche tramite l’istituto brevettuale, …

SUL MUNICIPIO S’ALZO’ LA BANDIERA ROSSA

di Dino Paternostro | Il Ritorno | Il partito socialista si ricompattò e le forze conservatrici non presentarono neanche proprie liste. Sul municipio di Piana, quindi, sventolò la bandiera rossa. «La schiacciante vittoria fu possibile – scrive Francesco Petrotta nel volumetto indagine sull’assassinio di Mariano Barbato, socialista» (Li Zisa, Palermo, 2003) per l’opera instancabile di Nicola Barbato, che ritornando dagli Stati Uniti, riuscì… a ricompattare il partito socialista In quelle elezioni, le forze conservatrici, rassegnate alla sconfitta, non presentarono neanche proprie liste. La sicura vittoria del partito socialista ebbe un peso nella decisione di perpetrare l’omicidio di Mariano Barbato e Giorgio Pecoraro, che proprio in quei giorni avevano avuto degli scontri con elementi di spicco della cosca mafiosa capeggiata da Ciccio Cuccia, anche se non fu certamente questa l’unica ragione». Assassinando Mariano Barbato, fu eliminata «l’anima ed il factotum» del partito socialista di Piana, «ma anche l’unica persona che potesse in quel momento reagire energicamente contro la mafia, nel caso di un probabile attentato alla persona di Nicola Barbato», scrive ancora Petrotta. Il leader socialista percepì che si puntava alla sua eliminazione fisica e alla distruzione del partito socialista. Decise, quindi, di giocare d’anticipo, denunciando alla magistratura il sindaco Paolo Sirchia e gli assessori Luca Schiadà e Saverio Risco, quali probabili istigatori del duplice delitto Barbato-Pecoraro. «Non sbagliò nella sua analisi sostiene Petrotta – e forse individuò anche i “suggeritori” del delitto.., ma fu un po’ ingenuo nel credere che gli apparati dello Stato potessero giocare un ruolo neutrale nella lotta che contrapponeva il partito socialista alla mafia». Questo risultò evidente otto anni dopo, quando la cosca di Ciccio Cuccia e di Tommaso Matranga conquistò il comune di Piana, proprio grazie a Paolo Sirchia e ad altri, che «organizzarono una manifestazione pubblica di sostegno alla lista democratica» (Luca Schiadà partecipò direttamente in giunta), e all’aperto sostegno del prefetto di Palermo Menzinger, del commissario regio Camillo Furia, del pretore di Piana avv. Antonino Romano e del vice commissario di pubblica sicurezza Melchiorre Viviani”, sostiene sempre Petrotta il 6 gennaio 1916, per evitare che l’uccidessero, la Direzione nazionale del Partito socialista dispose che Nicolò Barbato lasciasse Piana per trasferirsi a Milano. Il 3 novembre 1915, infati, era stato eliminato dalla mafia il sindaco socialista di Corleone, Bernardino Verro, amico e compagno di lotte del Barbato. Quei sinistri colpi di pistola, sparati in via Tribuna a Corleone, consigliarono ai socialisti di far cambiare aria ad un altro loro dirigente in pericolo. E Nicola Barbato emigrò a Milano, dove morì nel 1923. Il processo per gli omicidi di Mariano Barbato e Giorgio Pecoraro si riaprì nel 1926, dopo le dichiarazioni dei loro figli Giuseppe Barbato e Nicolò Pecoraro, confermate da Maria Virzi, moglie del Pecoraro. Questi dissero che i loro genitori qualche giorno prima del delitto avevano avuto dei durissimi scontri politici con i capimafia Giorgio Nino e Ciccio Cuccia. Nel 1914 non avevano avuto il coraggio di fare queste dichiarazione in particolare, Giuseppe Barbato dichiarò che Vito Ciulla in punto di morte gli aveva confidato che il commando dei killer era composto da Giorgio Cuccia e Giovani Battista Sammarco, entrambi defunti. Non trovando riscontri però, il l° maggio 1928 il Tribunale dovette prosciogliere per insufficienza di prove i fratelli Cuccia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL COMPITO URGENTE DEI SOCIALISTI

    di  Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Premessa Entro breve sarà emanata la legge che autorizza il governo a predisporre una legge delega per la riforma fiscale, una delle riforme, insieme a quella della giustizia, pregiudiziali per l’avvio del PNRR. La riforma fiscale è fondamentale per ridare un senso al funzionamento dello stato, ed è squisitamente politica in quanto determina il modo in cui le funzioni dello stato sono finanziate dai cittadini. Partendo quindi dalla situazione attuale e dai suoi difetti, si dovrebbe costruire un sistema fiscale equo e rispettoso della Costituzione ed in questo lavoro, noi socialisti di Socialismo del XXI secolo dovremmo essere in prima linea nel fare proposte. Auspico quindi una sessione speciale di discussione che, partendo dal lavoro svolto a Rimini, arricchisca la capacità propositiva della nostra associazione. Ritengo che i punti da coprire siano: ● I difetti e le incoerenze dell’attuale sistema fiscale ● La progressività ● Gli incentivi, sussidi e imposte sostitutive ● L’evasione e la riscossione ● Le imposte sulle imprese ● L’imposta di successione ● L’iva I difetti e le incoerenze dell’attuale sistema fiscale L’attuale sistema fiscale nacque nel 1973, e in questi anni è stata modificata più volte, ma sempre con interventi non organici, per risolvere problemi contingenti ovvero per dare spazio a richieste di lobbies e potentati. Il risultato può essere sintetizzato nel confronto tra due elementi ovvero il gettito generato dal mondo del lavoro vs. il gettito generato dagli altri redditi confrontati con il reddito del mondo del lavoro vs. tutti gli altri redditi. Confrontiamo quindi: Gettito del lavoro/Gettito degli altri redditi       75/25 Redditi da lavoro/Altri redditi                             47/53 ne discende quindi uno squilibrio orizzontale che penalizza fortemente i redditi da lavoro e che dobbiamo lavorare al fine di riequilibrare l’onere così come è distribuito tra le classi sociali. Quando fu pensato l’attuale sistema fiscale i redditi da lavoro rappresentavano il 65% del PIL, oggi quella percentuale è scesa a sotto il 50%, inaridendosi la fonte rappresentata dai redditi da lavoro, non si si sono attrezzate forme di tassazione per colpire nuove forme di reddito tipo quelli generati nel paese da imprese che operano in rete senza una stabile organizzazione nel nostro paese. Ricordiamo un altro elemento, ormai cronicizzatosi, che offende in modo inaccettabile l’equità del carico fiscale, mi riferisco naturalmente al fenomeno dell’evasione che causa una perdita di gettito per un importo superiore a cento miliardi ogni anno. Ma al fenomeno evasivo si affianca un altro elemento e che consiste nell’incapacità dell’amministrazione fiscale di riscuotere le imposte dichiarate o accertate. La Corte dei conti ci ricorda che dall’anno 2000 a oggi si sono accumulati crediti per più di 1.000 miliardi (pari ad un terzo del debito pubblico) di cui però si prevede di poterne riscuotere il solo 13%. Un fallimento evidente del nostro sistema su cui urge intervenire mutando profondamente il sistema della riscossione.  Osserviamo che salariati, stipendiati e pensionati (ad eccezione del lavoro nero), non per loro virtù, ma per virtù del sistema, oltre a dichiarare il 100% dei redditi, pagano il 100% del dovuto. Dovremmo quindi puntare ad un simile risultato nella riscossione delle altre imposte. Infine, non si può sottacere l’azione distorsiva effettuata in questi anni da interventi legislativi tesi a stimolare, agevolare, esentare, alcuni tipi di redditi, stravolgendo in tal modo tutto l’impianto fiscale e creando così una confusione che rende impervia una programmazione finanziaria che abbia un minimo di razionalità. Vediamo ora in particolare alcuni punti che richiedono un approfondimento. La progressività                                                      La progressività è un principio costituzionale che all’inizio prevedeva per l’imposta delle persone fisiche IRPEF, ben 32 aliquote. Oggi non solo le aliquote sono solo 5 ma esse sono aumentate nelle aliquote basse (dal 10 al 23) e ridotte in quelle alte (dal 72 al 43). Si sta discutendo molto sullo scaglione che colpisce i ceti medi dai 28 ai 55 mila euro che rimarcano uno scatto di aliquota dal 27 al 38%. Si penserebbe di spaccare lo scaglione in due nuovi scaglioni con aliquote che riducano l’incremento sostanziale. Va ricordato che questa proposta farebbe risparmiare imposte non solo alla classe media ma anche a tutti i redditi superiori, mentre nessun vantaggio sarebbe riservato per i redditi più bassi. Io, al proposito, sono favorevole ad una aliquota continua che aumenti ad ogni aumento di reddito. Ma il vero tema è che la progressività riguarda solo i redditi da lavoro dipendente, dei pensionati e delle partite iva con fatturato superiore a 65.000€, ma il gettito da lavoratori e pensionati rappresenta più del 90% del gettito totale di questa imposta. Tutti gli altri redditi sono esclusi dalla progressività, e parlo dei redditi da capitale, da fabbricati, da capital gains e interessi, riducendo la progressività ad un confuso marchingegno riservato solo ai lavoratori e pensionati, ai limiti della legittimità costituzionale. Il tema può vedere due proposte: a) o si riassoggettano a progressività tutti i redditi oggi esentati o tassati con facilitazioni o b) si trasforma l’Irpef in una imposta sui soli redditi da lavoro e le si affianca una imposta autonoma personale e progressiva sugli altri redditi. Ricordo infine che l’istituto della progressività oltre ad essere uno strumento redistributivo, risponde al principio liberale che cerca di avvicinare lo sforzo marginale nella considerazione che il valore marginale di un € è molto più alto per un basso reddito rispetto ad uno alto. Gli incentivi, sussidi e imposte sostitutive La politica di partiti alla ricerca di facili consensi elettorali senza una visione globale e sintetica, ma rinchiusi in una logica corporativa ha trasformato il sistema fiscale in una miniera, una jungla di esenzioni, sussidi, crediti d’imposta, bonus, imposte sostitutive ed agevolazioni che hanno snaturato la logica interna del finanziamento dello stato. Recentemente, il responsabile dell’agenzia delle entrate Ruffini, ha proposto l’eliminazione di 800 leggi frutto del mercato delle vacche praticato con la legislazione fiscale. Quando si vuol dare un aiuto o un incentivo a qualche categoria di contribuenti si usa ridurre il loro carico fiscale per cui nella contabilità statale le …

DECISIONE ASSUNTA DALL’ASSEMBLEA DI SOCIALISMO XXI LAZIO

COMUNICATO STAMPA | L’Assemblea dei socialisti laziali partecipanti all’Associazione Socialismo XXI secolo, riuniti nell’unica sede romana socialista- rimasta tale a costo di straordinari sacrifici dei socialisti romani e italiani- che ha sede nella storica antifascista Garbatella, preso atto delle decisioni e delle dichiarazioni dei responsabili della Federazione romana dei socialisti del PSI, dichiarano che: a) I socialisti, impegnati alla composizione della diaspora che ha frantumato una componente essenziale alla vita democratica della nazione, respingono in toto le decisioni – contrarie a quanto precedentemente concordato con una delegazione ufficiale del PSI guidata dal suo segretario- di partecipare direttamente o indirettamente alle primarie indette dal PD per la scelta del candidato sindaco della Capitale; b) I socialisti non iscritti al PSI ma aderenti alla Associazione Socialismo XXI secolo rifiutano qualsiasi commistione presente e futura con il Movimento 5 Stelle, che nasce e si è sviluppato come alternativa alla democrazia rappresentativa; c) I socialisti, non catalogabili come cooperanti al fu renzismo o all’attuale centrismo socio-populista rappresentato dal PD, dichiarano non possibile il voto a favore della ex penta stellata Granci in primarie delle quali disconoscono in principio la illegittimità democratica perché basata su un principio pseudo maggioritario estraneo al proporzionalismo che giudicano essenziale al ben operare delle Istituzioni; d) I socialisti rilevano altresì che la partecipazione alle primarie della ex penta stellata Granci- a nome dell’onorato e storico simbolo dei socialisti- appare un camuffamento della realtà, essendo chiaro che la conclusione ovvia della consultazione è già determinata nei fatti a favore del candidato del PD. Il candidato Gualtieri, se eletto, dovrà, infatti, forzatamente accettare l’obbligata alleanza nell’Assemblea capitolina coi 5 Stelle, così che si raggiungerà il massimo possibile esito dell’equivoco politico: l’unica possibile eletta pseudo socialista, Granci (socialista per nome ex legis) voterà – dopo essere uscita dai 5 Stelle-per una maggioranza possibile solo coi 5 Stelle; e) I socialisti romani e laziali riuniti nell’associazione Socialismo XXI secolo coscienti delle loro responsabilità legate agli spazi di rappresentanza che, ben al di fuori delle loro volontà,  traggono dal mondo del lavoro, dagli spazi sociali e culturali, da parte importante e certamente non minoritaria degli eredi diretti della tradizione socialista, si riservano, dopo le primarie, di valutare le possibili convergenze al voto per liste non centriste, non legate alla destra politica, ed autonome da logiche spartitorie del potere. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

«FOLLE PENSARE AD UNA CALABRIA SENZA FORESTAZIONE»

di Natalino Spatolisano – Quotidiano del Sud per la Calabria | Vanta pure la pubblicazione di due opere, “Umili pensieri – raccolta di poesie” e “Africo storia e leggenda” Santoro Romeo, classe 1953, in pensione dallo scorso anno, dopo 40 anni di attività lavorativa prestata nell’Afor (Azienda Forestale Regione Calabria), oggi Calabria Verde, ricoprendo tutti gli incarichi previsti dal contratto collettivo regionale fino al livello di capo operaio. Militante socialista e sindacalista della Uil sin dal 1976, oltreché amministratore presso il Comune di Africo tra il 1975 e il 1980, Romeo auspica il rilancio del settore della Forestazione per accelerare la ripresa economica del Paese. Lei che conosce bene la storia degli operai forestali in Calabria, ci potrebbe raccontare le tappe che hanno segnato la nascita, l’evoluzione e l’involuzione delsettore Forestazione? “Certamente, la forestazione in Calabria nasce con lo scopo di mantenere gli equilibri idrogeologici e la salvaguardia del territorio, concetto rimasto tale nella mente di tutti i governanti regionali succedutisi, che tuttavia non hanno pensato di renderla produttiva. Infatti il governo nazionale, di fronte al numero dei lavoratori a tempo determinato che aumentava sempre più fino a raggiungere nel 1984 la soglia dei 30mila, decideva di emanare la legge numero 442 del 1984 bloccando le assunzioni, ritenute eccessive, e le giornate lavorative. In Calabria vi erano ben 23 Enti che facevano forestazione, di conseguenza una buona gestione sembrava impossibile, da qui la proposta del sindacato di creare un unico Ente di gestione, che vide finalmente la luce dopo anni di lotta soltanto con la legge regionale del 19 ottobre 1992, quando nasce l’Afor. Si sperava in una inversione di tendenza ma purtroppo così non è stato, la situazione non è cambiata nemmeno con l’ultima legge varata, la numero 25 del 16 maggio 2013, istitutiva dell’azienda Calabria Verde. Oggi i forestali sono circa 3mila con una perdita di 27mila posti di lavoro rispetto al 1984 e tenendo conto che l’età media dei lavoratori è di 60 anni si fa presto a capire che la forestazione in Calabria tra qualche anno andrà in esaurimento”. Secondo lei in che modo si dovrebbe intervenire perrilanciare il settore? “Allora per l’esperienza che ho ritengo folle pensare ad una Calabria senza forestazione, anzi penso che bisogna valorizzare questo settore in tutte le Regioni d’Italia, serve creare un nuovo Piano di forestazione nazionale, in linea con le direttive europee, un progetto basato su due pilatri importanti, uno protettivo e l’altro produttivo”. Ci spieghi meglio… “Anzitutto bisogna realizzare le opere necessarie per il consolidamento del territorio, evitando così smottamenti, frane e alluvioni, poi serve garantire la salvaguardia del bosco esistente con lo sfruttamento del legname, visto che importiamo l’80 per cento di quello che si lavora in Italia, ma anche lo sfruttamento delle biomasse per produrre energia pulita, rimboschendo gradualmente parte dei 570mila ettari del terreno forestale calabrese, piantando alberi da frutto, o ad esempio lavorando la ginestra, chiaramente il fine del nuovo Piano di forestazione deve essere quello di ottenere ilmassimo della produttività e del livello occupazionale possibile, soprattutto giovanile”.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SCHUMPETER, WALRAS, MARX

Nell’immagine di copertina Joseph A. Schumpeter |     di  Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   (Da Ideologia socialista) Nella prefazione scritta per la traduzione giapponese della Teoria dello sviluppo economico, Schumpeter ben sintetizza l’obiettivo della propria analisi dello sviluppo economico, suggerendone anche una ben precisa collocazione nella storia del pensiero economico “Se i miei lettori giapponesi mi chiedessero, prima di aprire il libro, quali erano le mie intenzioni quando lo scrissi più di venticinque anni fa, risponderei che tentai di costruire un modello teorico del processo dello sviluppo economico nel tempo, o, in maniera forse più chiara, che volevo trovare una risposta al problema di come il sistema economico generi la forza che incessantemente lo trasforma. Ciò può essere illustrato facendo riferimento a due grandi nomi: Léon Walras e Karl Marx. (Schumpeter 1934 XLVII della tr.it.). I due autori citati, rappresentanti di due campi avversi nella teoria economica, sono menzionati da Schumpeter l’uno per aver riunito in una unica logica formale tutti gli elementi economici atti a rappresentare l’equilibrio del libero mercato, l’altro per aver introdotto una logica che invece vede nell’economia una dialettica creata dal modo di produzione in modo che se ne delineino i mutamenti nel corso della storia. A fianco di questi lati positivi dei due autori, Schumpeter espone anche i lati negativi che l’autore stesso pensa di superare con il suo testo, la Teoria dello sviluppo economico pubblicato nel 1911. Del primo autore critica la concezione statica del modello walrasiano, teso a dimostrare come nella logica marginalistica, grazie alla funzione del mercato, tutte le componenti del processo economico raggiungessero autonomamente l’equilibrio riaggiustando fattori di disturbo con il raggiungimento dell’eguaglianza del valore marginale di ogni componente. Con questa impostazione non si spiegherebbe il perché di uno sviluppo economico osservabile empiricamente nella società, impedendo quindi la capacità interpretativa del processo di sviluppo. Questa capacità interpretativa è al contrario presente in Marx che in modo poderoso costruisce una teoria globale capace di dar conto dello sviluppo storico dell’economia. Ma Schumpeter critica il modello marxiano per varie ragioni che vengono esposte nella parte prima “La dottrina marxista”, del suo libro “Capitalismo, socialismo e democrazia”. Il primo errore che Schumpeter addebita a Marx è quello di basare la sua visione sociologica, riassunta nell’apertura del Manifesto del partito comunista con l’affermazione che la storia delle società è la storia delle lotte di classe, sulla teoria del valore/lavoro. L’errore risale all’analisi di Ricardo, analisi che Marx ha condiviso e che ad oggi è ammesso dalla teoria economica. La teoria del valore/lavoro non spiegherebbe ad esempio il valore della rendita ricardiana così come sarebbe inapplicabile a spiegare i fenomeni del monopolio e della concorrenza imperfetta. Ciò che tuttavia colpisce di Schumpeter è la considerazione che egli fa quando afferma che “sotto molti riguardi la teoria che la sostituì – nota nella sua prima forma ormai superata, come teoria dell’utilità marginale – può vantare a buon diritto titoli maggiori”. La teoria che si contrappone a quella del valore/lavoro negandone la conclusione del surplus e quindi dello sfruttamento, è quella per cui esiste un equilibrio tra valore del prodotto finale e sommatoria dei fattori produttivi valorizzati ai loro prezzi di mercato. In sintesi, la teoria marginalista sviluppa un modello in cui la somma di ciascun fattore della produzione (lavoro, materie prime e capitale) valorizzato per il suo prezzo eguaglia il valore del prodotto finito perché ogni eventuale differenza (che sarebbe un surplus) denominato reddito d’impresa o profitto, sarebbe azzerato dalla concorrenza. La formula sarebbe allora: PR= PFn – (MP*p1+L*p2+C*p3) Ovvero il profitto PR è pari alla differenza del valore degli n prodotti finiti PF meno la somma delle n materie prime moltiplicate per il loro prezzo più il lavoro moltiplicato per il valore del salario più il capitale moltiplicato per il suo prezzo ovvero il saggio di interesse). Da tale formula conseguono due deduzioni: ● una matematica, per cui la massimizzazione della formula, eguagliando i valori marginali dei tre fattori della produzione, azzererebbe PR vanificando quindi il concetto di surplus; ● l’altra sociale, che dimostrerebbe che ogni fattore della produzione è remunerato secondo il suo prezzo “naturale” e quindi non c’è alcun sfruttamento del capitale sul lavoro. Ora, questa soluzione marginalistica, che secondo Schumpeter potrebbe vantare titoli interpretativi maggiori, è stata smontata dalla famosa “controversia sul capitale” negli anni ’60, dove le tesi della Cambridge inglese (Sraffa, Garegnani etc.) prevalsero sulle tesi della Cambridge statunitense (Samuelson, Modigliani etc.). In sintesi, nella formula in analisi il capitale C è composto da materiali, mezzi, macchinari di cui è difficile ricavare un parametro di aggregazione che non sia il prezzo, ma evidentemente il prezzo è l’incognita da ricavare dalla formula stessa; si genera un loop che, come sostenne Sraffa, può essere risolto solo con la contemporaneità della determinazione matematica della formula. Inoltre, anche nella quantificazione del lavoro L le ore lavorate, elemento aggregativo comune, devono essere ponderate per riconoscere il diverso apporto di un lavoro specializzato da uno che non lo è. Questo elemento diviene sempre più importante man mano che ci avviciniamo all’economia della conoscenza che affronteremo più avanti. Ma la formula marginalistica ha in sé un altro limite che risiede nella premessa che tutte le imprese sul mercato abbiano la stessa produttività o quantomeno il gioco concorrenziale sul mercato tenda ad eguagliarla, infatti la produttività che discende dal livello del capitale umano così come dagli sviluppi della tecnologia sono considerati fattori esogeni, dati che provengono dall’esterno e non fanno parte delle leggi sullo sviluppo economico. Un vincolo questo che fa vacillare tutta la costruzione marginalista. Schumpeter con estrema originalità coglie il punto e contesta la visione statica alla Walras, e ritiene che il profitto PR, invece di essere destinato all’azzeramento nel processo di massimizzazione della funzione, costituisca il vero elemento caratterizzante l’economia moderna; la capacità dell’imprenditore di trovare nuove combinazioni tecnologiche, nuovi prodotti, nuovi mercati è il vero elemento che sta alla base del capitalismo che è tutt’altro che statico ma in continuo movimento generato dalla dialettica innovativa. L’impresa che fa innovazione …

INTERVISTA A LEO VALIANI SUL SINDACATO E LA SINISTRA DEGLI ANNI 1946-1951

Gli anni che vanno dal 1947 al 1950, data di nascita della Uil, furono un susseguirsi convulso di avvenimenti. C’era in tutti la consapevolezza delle grandi scelte da compiere per la rinascita democratica ed economica del Paese. Si doveva voltare pagina e costruire un nuovo Stato. In quale humus politico e culturale fu fondata la Uil? Il nucleo promotore della Uil, il motore che le diede vita, furono certo i sindacalisti socialisti usciti o espulsi dalla Cgil per avere seguito la scissione di Romita dalle file del Psi: Viglianesi, Dalla Chiesa, Bulleri e altri. Ad essi si aggiunsero i repubblicani ed i socialdemocratici che non avevano accettato la confluenza della loro Fil nella Cisl. Ma la Uil rappresentò in realtà il punto di arrivo di un movimento politico che affondava le radici in quell’area della sinistra democratica che andava da Ignazio Silone agli ex azionisti e a tutti quei dirigenti socialisti che si battevano su posizioni di autonomia dal partito comunista, anche se non erano usciti con la scissione di Palazzo Barberini. Ignazio Silone era il capo morale e il punto di riferimento politico di questo arco di personaggi con estrazioni ed esperienze politico-culturali anche diverse, ma cementati dalla lotta antifascista. Essi avevano approvato la ribellione di Saragat allo stalinismo del Psi – allora si diceva fusionismo – ma ritenevano che il Psli fondato dallo stesso Saragat fosse troppo legato alla Democrazia Cristiana. I gruppi influenzati da Ignazio Silone nutrivano insomma nei confronti di Saragat una divergenza tattica: criticavano l’adesione in condizioni di minorità e di debolezza ad un governo egemonizzato dalla Democrazia Cristiana. Nei confronti del Psi la divergenza era invece di principio, ideale, profonda: era infatti problema di principio il rifiuto dello stalinismo. A questi gruppi aderirono Giuseppe Romita e i sindacalisti socialisti che uscirono dal Psi nella primavera del 1949. Vi aderirono anche numerosi deputati e dirigenti dello stesso partito di Saragat. Si ritenevano infatti mature le condizioni per una iniziativa costituente che raccogliesse tutti i socialisti democratici. Ma Saragat era diffidente, non accettò l’unificazione immediata, e per questo Romita e Silone fondarono il Psu. Esso rappresentò un po’ una anticipazione di quel che oggi sta realizzando Bettino Craxi: il Psu era una forza socialista antistaliniana, autonoma sia dal partito comunista, sia dalla Democrazia Cristiana. Silone fu dunque un anticipatore, come lo fu del resto per gli ideali europeisti: non bisogna dimenticare che quando uscì dal Psi con la scissione di Palazzo Barberini, egli non aderì al Psli di Saragat, ma fondò un piccolo gruppo che si chiamava “Europa socialista”. Una anticipazione appunto di quel movimento verso l’unità europea che nelle sinistre si sarebbe realizzato soltanto molti anni dopo. È proprio questo il retroterra della Uil. Ma allora gli schieramenti politici non erano ancora ben definiti, il centrismo fu infatti un punto di arrivo per i partiti che gli diedero vita. Dc, Psdi, Pri e Pli erano attraversati da spinte spesso anche contrapposte di linea politica. Come avrebbe dovuto agire la sinistra, secondo voi, secondo Silone, in presenza di un Pci stalinista? Nel marzo del 1947, su mia proposta, il Partito d’Azione dedicò il suo congresso nazionale, e fu l’ultimo perché alla fine dello stesso anno si sciolse, al problema del rinnovamento del socialismo democratico. Al centro del dibattito c’era una mozione che a maggioranza, una stretta maggioranza però, Aldo Garosci, Tristano Codignola ed io eravamo riusciti a far approvare dalla direzione del Partito (contrari Emilio Lussu, Francesco De Martino ed anche Riccardo Lombardi) in cui si prospettava la fusione con il Partito Socialista dei Lavoratori fondato da Saragat, che ancora non era stato in alcun modo messo in condizioni di subalternità dalla collaborazione con la Democrazia Cristiana; anzi era ancora su una posizione del tutto indipendente e non faceva parte del Governo Al congresso, tenuto a Roma, invitammo lo stesso Saragat, che ci chiese di entrare tutti in blocco nel suo partito; invitammo anche Lelio Basso, allora Segretario del Partito Socialista Italiano. Questi ci assicurò che il Psi non si sarebbe fuso con il Pci, pur mantenendo egualmente il patto di unità di azione. E invitammo anche Ignazio Silone, il quale proprio in questa occasione espresse con chiarezza il suo giudizio sulla situazione italiana. A suo avviso c’erano le condizioni per una grande riforma democratica e socialista del Paese; ma i consensi della maggioranza dei cittadini non si sarebbero mai potuti ottenere se alla base del nostro programma si fossero posti da una parte la lotta agli Stati Uniti capitalistici, dimenticando il loro aiuto economico a noi e a tutta l’Europa Occidentale; e dall’altro lato una punta di anticlericalismo, che avrebbe finito per giustificare la crociata ideologica allora bandita dal Vaticano di Pio XII. Dobbiamo convincere gli americani – sosteneva Silone – che il nostro proposito di riforma democratica e socialista non si prospetta come una rivoluzione socialista mondiale, che finirebbe fatalmente per essere al rimorchio dell’Unione Sovietica; ma – sono sue parole testuali – “è una risposta locale a problemi locali”. Egualmente – diceva Silone – noi laici non dobbiamo rifiutare una collaborazione anche stretta con i riformisti del mondo cattolico. Dobbiamo perciò evitare di irritarli con velleità anticlericali. Egli si riferiva in particolare a Dossetti. Questa era dunque la posizione di Silone: non staccare l’Italia dal mondo occidentale, ma fare in modo che si potesse sviluppare un’iniziativa riformatrice democratica, socialista e autonoma, indipendentemente dai due blocchi che si stavano già dividendo l’universo. A 42 anni di distanza mi sembra di poter dire che questa visione non poteva certo prevalere – ed in questo aveva momentaneamente ragione Saragat – durante la guerra fredda; ma oggi, nel nuovo clima di distensione internazionale, acquista nuova attualità. L’Italia può realizzare una grande riforma democratica e sociale, direi di un socialismo liberale nel senso di Carlo Rosselli, senza che ciò susciti le preoccupazioni degli Stati Uniti, dei quali però dobbiamo restare alleati, o incoraggi manovre dell’Unione Sovietica, vista anche l’evoluzione delle forze in campo. Per battere questa strada di rinnovamento dobbiamo naturalmente imparare dall’esperienza di questi 42 anni: …

STORIA DI ETTORE CASTIGLIONI

di Prof. Paolo Vita | La storia di Ettore Castiglioni, si e’ scoperta pochi anni fa, attraverso dei diari che teneva “segreti”, e che teneva sempre con se’. Era nato nel 1908, in un paesino trentino di confine a 1350 metri RUFFRE’ MENDOLA (TN). Ai loro genitori, piaceva quel posto, erano gia’ stati li’ l’anno prima nelle lunghe vacanze estive. Il programma era in realta’ di volerlo far nascere a Tregnago (VR), dove gia’ tutto era pronto, compresi i festeggiamenti… ma invece, NO. Il destino ha voluto che nascesse in Montagna a 1.350 metri, ed esattamente “al centro” di quelle DOLOMITI che divennero il suo “Paradiso sulla terra”. Alla fine, tutta la sua vita fu legata ai confini… Ettore Castiglioni, di famiglia alto borghese-milanese, avvocato poliglotta e musicista, decise pero’ ad un certo punto della sua vita, di seguire la propria vera passione: LA MONTAGNA, contro le volonta’ familiari che lo avrebbero voluto avvocato. E di questa sua passione, riuscira’ a farne una professione, stilando delle guide CAI che per la loro precisione e dettaglio, vengono ri-lette ancora oggi dagli scalatori piu’ appassionati. In soli 20 anni riuscira’ a scalare ben 200 vette e a descriverne le peculiarita’. Castiglioni era un solitario, in qualche modo un misantropo, certamente un anticonformista. Teneva le distanze dalla società e soprattutto guardava al fascismo come a una grande pagliacciata. Le sue imprese alpinistiche gli valgono nel 1934 una medaglia d’oro al valore sportivo, ma Castiglioni accoglie il riconoscimento con fastidio. «Ora ho anche la seccatura della medaglia che mi tocca accettare per non offendere chi me l’ha assegnata, credendo di farmi piacere e mi toccherà andare alla cerimonia […] Cosa c’entrano tutti loro? Le mie ascensioni le ho fatte per me, e per me solo, e sono e resteranno soltanto mie», scrive nel suo diario. L’entrata in guerra dell’Italia trova quindi  Castiglioni su posizioni risolutamente antifasciste. «Entriamo anche noi nel novero dei briganti affamati di preda, che ci gettiamo con selvaggia vigliaccheria su una nazione già vacillante per strapparle la nostra parte di bottino», scrive nel suo diario. «Ma dopotutto questo era il logico sbocco a cui la dittatura doveva condurci; e il popolo italiano che per 18 anni ha subito la schiavitù senza sapersi ribellare, non si meritava altra sorte che di vivere fino in fondo la sua tragedia di ignominia». Nel maggio 1943 viene richiamato alle armi ed e’ assegnato alla scuola di alpinismo militare di Aosta con il ruolo di istruttore. Sono settimane di febbrile attività, cruciali per l’esistenza di Castiglioni. La ribellione istintiva, ma essenzialmente passiva dell’alpinista nei confronti del regime fascista si trasforma in azione. Dopo l’8 settembre è come se Castiglioni rispondesse a una chiamata. Potrebbe scappare, come ha sempre fatto, e invece decide di andare verso le persone. Capisce che è arrivato il momento della SCELTA. L’esercito è allo sbando, e con alcuni commilitoni decide di raggiungere l’Alpe Berio, in Valpelline, in una posizione strategica a ridosso del confine italo-svizzero, dove fa nascere una piccola comunità di alpinisti antifascisti denominata “la banda del Berio”, basata su principi di uguaglianza e solidarieta’ tra soldati e ufficiali. «Nessuno deve pensare per sé, ma solo per la comunità; tutti i beni, tutti i profitti (in denaro o in generi), tutti i lavori saranno in comune», annota Castiglioni nel suo diario. Il compito di questi amici era di portare al di la’ del confine svizzero, ebrei e perseguitati politici tra i quali, Luigi Einaudi, colui che diventera’ poi, il nostro futuro 1° Presidente della Repubblica. Morira’ proprio tra quelle montagne, alla giovane eta’ di 35 anni, per scappare ad un secondo arresto, che lo avrebbe portato in prigione. La storia e’ raccontata in un bel docu-film uscito nel 2017 dal titolo: OLTRE IL CONFINE – La storia di Ettore Castiglioni. Lo stesso anno, diventera’ GIUSTO DELL’UMANITA’ e un cippo “virtuale” e’ stato a lui dedicato nel GIARDINO DEI GIUSTI di Monte Stella a Milano. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UNO SCANDALO ITALIANO. L’ESPRESSO E IL CASO SIFAR

di Luca Grimaldi | Gli anni Sessanta sono stati uno dei periodi più ricchi e fecondi di cambiamenti della storia italiana. Immediatamente successivi al boom economico, infatti, sono stati anni di profonde trasformazioni e di esperimenti politici che hanno mutato il panorama politico e sociale del nostro Paese. In questi stessi anni, però, in cui molte cose sembravano destinate a cambiare per sempre sotto la superficie si muovevano uomini e organismi con il proposito di fermare le trasformazioni in atto e di porre un freno agli “esperimenti” che stavano modificando gli assetti politici del nostro Paese. In questa prospettiva è possibile comprendere il tentativo di colpo di Stato messo a punto nel 1964 dal Comandante dei carabinieri Giovanni de Lorenzo che, con l’appoggio dei servizi segreti statunitensi, si proponeva di bloccare ogni apertura a sinistra e di creare un nuovo governo basato sui voti e sulla volontà dei partiti di destra. Il colpo di Stato non fu mai attuato, ma ciononostante raggiunse in parte i suoi obiettivi e rese più prudente la DC sul programma di riforma. Il “caso SIFAR”, come venne ribattezzato dai giornali, quando, tre anni dopo, il settimanale “L’Espresso” ne rese pubblica l’esistenza, fu un tentativo estremo di porre fine alle trasformazioni che stavano interessando la vita politica del nostro Paese e di restaurare un governo che arginasse le spinte al cambiamento che provenivano dalla società civile. […] Il primo tentativo di modificare dall’esterno le sorti della democrazia italiana si verificò nel 1964 con il tentativo di colpo di Stato messo in atto dal Gen. Giovanni De Lorenzo che, con l’appoggio degli ambienti di estrema destra e dell’Arma dei carabinieri, si proponeva di “persuadere” il Presidente del Consiglio, l’On. Aldo Moro e il presidente della Repubblica Segni a liquidare i socialisti con un piano, il famoso “Piano Solo”, che avrebbe garantito l’ordine e messo a tacere le opposizioni. Il piano non ebbe seguito, grazie al rifiuto dei vertici democristiani di appoggiare l’idea di De Lorenzo, vertici democristiani che, però, si affrettarono a coprire la trama golpista con una cappa di silenzio. Pur non raggiungendo i suoi obiettivi, tuttavia, il “caso SIFAR”, come venne ribattezzato il complotto ai danni dello Stato nel 1967, quando ne furono svelati i retroscena dai giornalisti de “L’Espresso” Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi divenne un ulteriore motivo di cautela per la DC, che continuò la marcia del centrosinistra con i piedi di piombo, a danno della capacità riformatrice dei governi che si susseguirono. Quello del 1964 non fu, tuttavia, l’unico tentativo golpista che si è cercato di realizzare in Italia. Il 7 dicembre del 1970 Junio Valerio Borghese e l’industriale romano Remo Orlandini tentarono un colpo di stato, con l’operazione “Tora Tora”, tre anni dopo, nel 1973, venne scoperta l’organizzazione segreta “Rosa dei Venti”, che puntava ad attuare un colpo di Stato in sei fasi, tra cui un intervento militare e la fucilazione di ministri e parlamentari socialisti e comunisti, dirigenti della sinistra, vecchi comandanti partigiani. Un altro colpo di stato venne sventato, l’anno successivo, dal ministro della difesa, l’On. Giulio Andreotti che il 15 luglio destituì una dozzina di ammiragli e generali per prevenire, appunto, un golpe previsto per il 10 agosto. Nello stesso mese, il 23 agosto, la magistratura di Torino scoprì un complotto, noto come “golpe bianco”, che faceva capo a Edgardo Sogno, Randolfo Pacciardi, ex ministro della Difesa, ed altri. Il progetto aveva il sostegno degli Stati Uniti e della loggia massonica P2 di Licio Gelli. […] Nel 1955 il Gen. Giovanni de Lorenzo venne nominato capo del SIFAR. Proprio sotto la guida di De Lorenzo i servizi segreti iniziarono una gigantesca opera di schedatura degli esponenti più in vista di tutte le istituzioni e di tutti i gruppi sociali; politici, sindacalisti, imprenditori, uomini d’affari, intellettuali, religiosi e militari furono indagati. Non poco rumore fece la scoperta che anche Giuseppe Saragat, futuro Presidente della Repubblica, fosse spiato dagli uomini del SIFAR e che sul suo conto fossero minuziosamente catalogate addirittura le marche e le quantità degli alcolici utilizzati. I fascicoli così compilati ammontavano a circa 157 mila, dei quali 34 mila dedicati ad individui appartenenti al mondo economico, a uomini politici e ad altre categorie di interesse rilevante per la nazione. La Commissione Beolchini individuò inoltre, nell’ambito di queste schedature illegali, una serie di gravi irregolarità. Nel frattempo il Gen. De Lorenzo, dopo aver dato avvio alle schedature, nel 1962 venne nominato Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri. Nei primi anni alla guida dell’Arma il generale si mostrò una personalità mossa da un profondo spirito innovatore; i carabinieri, infatti, pativano numerosi inconvenienti che ne appesantivano, quando non paralizzavano, l’attività e fu proprio con De Lorenzo che l’”emergenza carabinieri”, più volte posposta, venne affrontata. Dopo i primi anni della “cura De Lorenzo” i Carabinieri ricominciarono a presentarsi finalmente come un’istituzione efficiente e all’avanguardia, agguerrita e riarmata al punto da potersi nuovamente annoverare fra le forze militari d’impiego esterno. Tutto era pronto per far scattare il “Piano Solo”, un piano che avrebbe permesso a De Lorenzo, attraverso l’ausilio dei Carabinieri, di condizionare la vita politica del Paese e di creare un governo d’emergenza retto dal sen. Cesare Merzagora, che avrebbe definitivamente allontanato le sinistre dall’esecutivo. […] Il Piano Solo era un piano d’emergenza che, nelle intenzioni del Gen. De Lorenzo, che lo aveva ideato, avrebbe definitivamente allontanato le sinistre dal governo o ne avrebbe quantomeno ridotto drasticamente le potenzialità riformatrici. Nelle intenzioni del suo ideatore esso avrebbe dovuto portare all’”enucleazione”, ovvero al prelevamento, di quei personaggi politici ritenuti pericolosi. Questi sarebbero stati raggruppati e raccolti nella sede del Centro Addestramento Guastatori di Capo Marrargiu, in Sardegna, una base militare segreta, il cui progetto originario prevedeva questo possibile utilizzo, adattata a tempo di record dal SIFAR, dove sarebbero stati custoditi sino alla cessazione dell’emergenza. Carabinieri, gruppi di civili, ex parà e repubblichini di Salò avrebbero partecipato al golpe mentre la Confindustria e alcuni circoli militari avrebbero finanziato alcune formazioni paramilitari. L’Arma dei Carabinieri avrebbe assunto il controllo delle istituzioni e dei servizi …