SCHUMPETER, WALRAS, MARX

Nell’immagine di copertina Joseph A. Schumpeter |

 

 

di  Renato Costanzo GattiSocialismo XXI Lazio |

 

(Da Ideologia socialista)

Nella prefazione scritta per la traduzione giapponese della Teoria dello sviluppo economico, Schumpeter ben sintetizza l’obiettivo della propria analisi dello sviluppo economico, suggerendone anche una ben precisa collocazione nella storia del pensiero economico “Se i miei lettori giapponesi mi chiedessero, prima di aprire il libro, quali erano le mie intenzioni quando lo scrissi più di venticinque anni fa, risponderei che tentai di costruire un modello teorico del processo dello sviluppo economico nel tempo, o, in maniera forse più chiara, che volevo trovare una risposta al problema di come il sistema economico generi la forza che incessantemente lo trasforma. Ciò può essere illustrato facendo riferimento a due grandi nomi: Léon Walras e Karl Marx. (Schumpeter 1934 XLVII della tr.it.).

I due autori citati, rappresentanti di due campi avversi nella teoria economica, sono menzionati da Schumpeter l’uno per aver riunito in una unica logica formale tutti gli elementi economici atti a rappresentare l’equilibrio del libero mercato, l’altro per aver introdotto una logica che invece vede nell’economia una dialettica creata dal modo di produzione in modo che se ne delineino i mutamenti nel corso della storia. A fianco di questi lati positivi dei due autori, Schumpeter espone anche i lati negativi che l’autore stesso pensa di superare con il suo testo, la Teoria dello sviluppo economico pubblicato nel 1911. Del primo autore critica la concezione statica del modello walrasiano, teso a dimostrare come nella logica marginalistica, grazie alla funzione del mercato, tutte le componenti del processo economico raggiungessero autonomamente l’equilibrio riaggiustando fattori di disturbo con il raggiungimento dell’eguaglianza del valore marginale di ogni componente. Con questa impostazione non si spiegherebbe il perché di uno sviluppo economico osservabile empiricamente nella società, impedendo quindi la capacità interpretativa del processo di sviluppo.

Questa capacità interpretativa è al contrario presente in Marx che in modo poderoso costruisce una teoria globale capace di dar conto dello sviluppo storico dell’economia. Ma Schumpeter critica il modello marxiano per varie ragioni che vengono esposte nella parte prima “La dottrina marxista”, del suo libro “Capitalismo, socialismo e democrazia”.

Il primo errore che Schumpeter addebita a Marx è quello di basare la sua visione sociologica, riassunta nell’apertura del Manifesto del partito comunista con l’affermazione che la storia delle società è la storia delle lotte di classe, sulla teoria del valore/lavoro. L’errore risale all’analisi di Ricardo, analisi che Marx ha condiviso e che ad oggi è ammesso dalla teoria economica.

La teoria del valore/lavoro non spiegherebbe ad esempio il valore della rendita ricardiana così come sarebbe inapplicabile a spiegare i fenomeni del monopolio e della concorrenza imperfetta. Ciò che tuttavia colpisce di Schumpeter è la considerazione che egli fa quando afferma che “sotto molti riguardi la teoria che la sostituì – nota nella sua prima forma ormai superata, come teoria dell’utilità marginale – può vantare a buon diritto titoli maggiori”.

La teoria che si contrappone a quella del valore/lavoro negandone la conclusione del surplus e quindi dello sfruttamento, è quella per cui esiste un equilibrio tra valore del prodotto finale e sommatoria dei fattori produttivi valorizzati ai loro prezzi di mercato. In sintesi, la teoria marginalista sviluppa un modello in cui la somma di ciascun fattore della produzione (lavoro, materie prime e capitale) valorizzato per il suo prezzo eguaglia il valore del prodotto finito perché ogni eventuale differenza (che sarebbe un surplus) denominato reddito d’impresa o profitto, sarebbe azzerato dalla concorrenza. La formula sarebbe allora:

PR= PFn – (MP*p1+L*p2+C*p3)

Ovvero il profitto PR è pari alla differenza del valore degli n prodotti finiti PF meno la somma delle n materie prime moltiplicate per il loro prezzo più il lavoro moltiplicato per il valore del salario più il capitale moltiplicato per il suo prezzo ovvero il saggio di interesse).

Da tale formula conseguono due deduzioni:

● una matematica, per cui la massimizzazione della formula, eguagliando i valori marginali dei tre fattori della produzione, azzererebbe PR vanificando quindi il concetto di surplus;

● l’altra sociale, che dimostrerebbe che ogni fattore della produzione è remunerato secondo il suo prezzo “naturale” e quindi non c’è alcun sfruttamento del capitale sul lavoro.

Ora, questa soluzione marginalistica, che secondo Schumpeter potrebbe vantare titoli interpretativi maggiori, è stata smontata dalla famosa “controversia sul capitale” negli anni ’60, dove le tesi della Cambridge inglese (Sraffa, Garegnani etc.) prevalsero sulle tesi della Cambridge statunitense (Samuelson, Modigliani etc.). In sintesi, nella formula in analisi il capitale C è composto da materiali, mezzi, macchinari di cui è difficile ricavare un parametro di aggregazione che non sia il prezzo, ma evidentemente il prezzo è l’incognita da ricavare dalla formula stessa; si genera un loop che, come sostenne Sraffa, può essere risolto solo con la contemporaneità della determinazione matematica della formula. Inoltre, anche nella quantificazione del lavoro L le ore lavorate, elemento aggregativo comune, devono essere ponderate per riconoscere il diverso apporto di un lavoro specializzato da uno che non lo è. Questo elemento diviene sempre più importante man mano che ci avviciniamo all’economia della conoscenza che affronteremo più avanti.

Ma la formula marginalistica ha in sé un altro limite che risiede nella premessa che tutte le imprese sul mercato abbiano la stessa produttività o quantomeno il gioco concorrenziale sul mercato tenda ad eguagliarla, infatti la produttività che discende dal livello del capitale umano così come dagli sviluppi della tecnologia sono considerati fattori esogeni, dati che provengono dall’esterno e non fanno parte delle leggi sullo sviluppo economico. Un vincolo questo che fa vacillare tutta la costruzione marginalista.

Schumpeter con estrema originalità coglie il punto e contesta la visione statica alla Walras, e ritiene che il profitto PR, invece di essere destinato all’azzeramento nel processo di massimizzazione della funzione, costituisca il vero elemento caratterizzante l’economia moderna; la capacità dell’imprenditore di trovare nuove combinazioni tecnologiche, nuovi prodotti, nuovi mercati è il vero elemento che sta alla base del capitalismo che è tutt’altro che statico ma in continuo movimento generato dalla dialettica innovativa. L’impresa che fa innovazione (oggi all’ordine del giorno con la rivoluzione 4.0) ottiene un vantaggio competitivo che sbaraglia la concorrenza (distruzione creatrice) fornendo una fase di dominio monopolistico interrotto dalle imprese che riescono a ricopiare l’innovazione ristabilendo la concorrenza paritaria finché non interviene un’altra innovazione. Questo processo spiegherebbe anche la ciclicità delle crisi. Schumpeter giunge a distinguere nei capi d’azienda la figura dell’imprenditore (quello che innova processi, prodotti, mercati) dai semplici manager che si limitano a gestire l’esistente. Per Schumpeter, quindi, esiste ancora un surplus generato però, più che dall’appropriazione dalla parte del capitale delle ore lavorate dagli operai, dall’innovazione generata dall’imprenditore schumpeteriano.

Ora si può convenire con la critica schumpeteriana alla santificazione della figura dell’operaio, operazione propagandistica esaltata dalla propaganda sovietica che ha avuto riflessi anche nella nostra cultura sessantottina, basti pensare alla Monica Vitti de “Il deserto rosso” che ricerca una propria verginità esistenziale rubando un panino ad un operaio al fine di nutrirsi del suo stesso cibo. In verità Marx parla di cose più concrete ponendo il discrimine tra chi possiede e chi non possiede i mezzi di produzione, tra chi ha gli strumenti per decidere e guidare il modo di produzione e chi da tale guida è escluso e deve subire le conseguenze del decidere altrui. Certo nel momento in cui Marx scriveva la figura degli esclusi dal possesso dei mezzi di produzione erano principalmente gli operai, ma Marx, che sapeva guardare avanti, nei Grundrisse, scrive che quando la scienza entrerà sempre più prepotentemente come componente della produzione (anticipando in tal modo l’economia della conoscenza), il capitale si approprierà dei frutti del cervello umano e tale sfruttamento farà apparire come “miserevole” lo sfruttamento di qualche ora di lavoro fisico. Ma ciò che Schumpeter non rimarca è il fatto che quel surplus creato dall’imprenditore viene comunque appropriato dal capitale, addizionandosi all’appropriazione del pluslavoro dei lavoratori. Infatti, il capitale rimunererà abbondantemente l’imprenditore, attirandolo con le stock options, ma evidentemente il surplus generato non va all’imprenditore in toto altrimenti il capitale investirebbe in altri assets.

Certamente nel momento storico in cui imprenditore e capitalista coincidono (familismo industriale) è difficile stabilire chi si appropria del surplus, ma quando la separazione tra capitalista ed imprenditore si fa evidente, comincia a delinearsi una contraddizione tra le due figure: la prima, il capitalista ricerca unicamente di appropriarsi di quanto plusvalore è possibile sia nell’attività produttiva che, se più attraente, nell’attività speculativa (capitalismo finanziario) spostando di conseguenza i suoi capitali laddove essi possono essere o sono ritenuti essere più produttivi; la seconda, l’imprenditore ricerca sempre nuove combinazioni produttive puntando sull’innovazione tecnologica che comunque richiede quegli investimenti che il capitalista può anche negargli.

Dalle precedenti considerazioni derivano conclusioni che dovrebbero orientare le nostre scelte strategiche:

● il capitale, l’ammasso eterogeneo di beni e macchine che entrano nella produzione non producono plusvalore, trasmettono unicamente il valore che è stato accumulato al loro interno;

● è il lavoro che assemblando materie prime, macchine, scienza, esperienza, creatività fa in modo che il valore del prodotto sia superiore alla sommatoria del valore dei singoli componenti;

● in questo lavoro è incluso quello svolto dall’imprenditore in senso schumpeteriano, una forma di lavoro di alto valore che rende sempre più produttiva la gestione aziendale;

● l’imprenditore può in alcune circostanze, in particolare quando il capitale sposta le sue preferenze di investimento dalla produzione alla speculazione, essere in contraddizione con il capitale; essendo l’imprenditore una componente del mondo del lavoro può nascere una inedita alleanza tra non proprietari dei mezzi di produzione;

● lo svilupparsi dell’economia della conoscenza comporta un mutamento nel modo di produzione che ridisegna la figura dello stato, riorganizzato su livello continentale, come fonte della ricerca da trasferire all’impresa alla cui gestione partecipi la comunità dei contribuenti rappresentati dallo stato.

Il dispiegarsi dell’economia della conoscenza comporta, tra le altre cose, l’imporsi della componente immateriale nell’ambito degli investimenti produttivi e la digitalizzazione è conseguenza di questo mutamento. Non sarà più la sola proprietà dei mezzi di produzione a determinare la divisione in classi dei cittadini; con l’arrivo dei robots e dei robots capaci di programmare robots di nuova generazione più avanzati, la gestione degli stessi si sposta sugli “algoritmi”.

Queste forme matematiche tendono ad assumere il ruolo di determinazioni obiettive ed insindacabili, mentre, al contrario, sono decisamente orientate negli obiettivi e nei mezzi dal potere della classe egemone. Muta il fronte su cui combattere ma la battaglia rimane sempre la stessa: quella di porsi come classe egemone nella governance dell’economia sia con riguardo alla proprietà dei mezzi di produzione sia con riguardo alla costruzione degli algoritmi.