A PROPOSITO DI PRODUTTIVITA’

 

 

di  Renato Costanzo GattiSocialismo XXI Lazio |

 

Scrive Alberto Leoni Coordinatore Nazionale per l’Unità Socialista:

“I socialisti devono assolutamente tornare assieme, aprirsi alle giovani generazioni, rivendicare le migliori leggi sul Welfare che tuttora l’Italia ha. Un Socialismo del 21° secolo, moderno, che valorizzi chi ha merito ed iniziativa e protegga chi ha bisogno.”

Sono indicati tre elementi: welfare, valorizzazione del merito e protezione di chi ha bisogno; che condivido, ma che non rappresentano gli obiettivi che, a mio parere, vanno perseguiti e che sono a monte, ovvero preliminari a quelli indicati da Alberto.

Gli obiettivi riformistici indicati, infatti, presuppongono che il sistema economico produttivo sottostante, l’economia di base, la struttura in senso marxiano sia funzionante e, come diceva Olof Palme, si tratti soltanto di “tosare la pecora”, ma i freddi numeri ci stanno dicendo che la pecora italiana è in grande difficoltà e che prima di tosarla è necessario rimetterla in salute.

Il nostro paese, esclusi gli anni del miracolo economico, ha sempre boccheggiato nel contesto internazionale ma le cose sono peggiorate con lo smantellamento delle partecipazioni statali e soprattutto con l’avvento dell’euro. Quando c’era la lira, bene o male, ogni tanto adeguavamo il nostro cambio, svalutando la lira, e rimettendoci in temporaneo, quanto effimero, riequilibrio con gli altri paesi. L’avvento dell’euro, il sistema dei cambi fissi, ha cancellato la possibilità di adeguare il cambio, come forse meglio avrebbe potuto il “bancor” di Keynes, e ha spostato la nostra linea di equilibrio sul fronte della produttività, ovvero quello che prima riuscivamo ad equilibrare (temporaneamente e debolmente) con l’adeguamento del cambio, dovevamo ora riequilibrare con l’incremento della produttività.

Ma è proprio qui, sul terreno della produttività che il nostro paese sta soffrendo più di ogni altro, è questo l’elemento più importante a monte della debolezza del nostro sistema economico.

LA PRODUTTIVITA’ IN ITALIA E’ FERMA DA TRENT’ANNI

Infatti essa, tra il 1992 e il 2011 è aumentata mediamente dello 0.5% l’anno, ma è nel periodo 2000-2007 che la produttività diminuisce più nei servizi -1,4% che nella manifattura che registra un calo dello 0,07%, un vero e proprio crollo; il valore aggiunto è cresciuto del 1,6% l’anno mentre l’occupazione (per lo più precaria) è aumentata del 3%. In Germania nello stesso periodo nell’industria manifatturiera è cresciuta del 3,3% l’anno e nei servizi aumenta dell’1%. Se nel 2000 prima dell’arrivo dell’euro la manifattura italiana e tedesca avevano livelli di prodotto per addetto di 53.000 € l’Italia e di 55.000 € la Germania, nel 2007 il livello del nostro paese è lievemente diminuito, mentre il livello di prodotto per addetto a prezzi del 2000 è salito a 68.000 €; un balzo del 25%.

Il prof. Mario Pianta (htpp://works.bepress.com/mariopianta) dell’università di Urbino individua quattro cause, che condivido in pieno, che non permettono al nostro paese di aumentare la produttività; le elenco:

1 – Struttura del sistema produttivo

Ci sono settori, quelli della manifattura tradizionale (alimentare, tessile, calzature, legno, prodotti in metallo) che fanno registrare un incremento della produttività pari ad un terzo di quello registrato dal resto della manifattura. Ma le imprese tradizionali pesano in Italia per il 46% degli occupati, mentre in Germania rappresentano il solo 30%. E’ evidente che il mix tra i settori rende meno positivi i dati della produttività del nostro paese.

2 – Dimensioni dell’impresa

L’84% delle 510.000 imprese italiane ha meno di 9 addetti, un altro 15% ha tra i 10 e i 49 addetti, solo il restante 1% ha dimensioni sopra i 50 addetti. E’ il record negativo delle dimensioni d’impresa in Europa. In Italia le imprese con più di 250 addetti sono 1400 in Germania sono 4000. La piccola dimensione delle imprese impedisce di raggiungere economie di scala, entrare in settori avanzati, ottenere efficienza, innovare. Le piccole medie imprese, che si pongono spesso in posizione subalterna rispetto alle grandi imprese tedesche, sono il problema del nostro assetto produttivo, problema non risolto né dalle reti di imprese né dai distretti industriali.

3 – Livello degli investimenti

Un altro paradosso italiano è la coesistenza di alti profitti e bassi investimenti; in Italia il rapporto tra profitti lordi (pre-pandemia) delle imprese non finanziarie è il più elevato tra i maggiori paesi europei, oltre il 40% contro, ad esempio, il 30% in Francia. Ma gli investimenti fissi sono appena il 22% del valore aggiunto. Gli investimenti in macchinari sono diminuiti (nonostante gli incentivi 4.0 di Calenda), mentre sono aumentati gli investimenti immobiliari. Invece di investire in nuove attività o innovare la catena produttiva sempre più capitali escono dalle imprese attratti dalla sirena finanziaria. Questo trasferimento di risorse ha sottratto possibilità di crescita alle imprese e ha alimentato le attività della finanza, della speculazione e della rendita.

4 – L’innovazione non è di casa in Italia. Le attività innovative documentate dall’Istat mostrano che circa il 30% delle imprese italiane ha introdotto nel 2008 una innovazione di prodotto o di processo, mentre la media dell’Europa a 15 è vicina al 40%. Non solo si innova meno in Italia, ma prevale l’adozione di nuovi processi labor-saving piuttosto che incrementare la capacità di realizzare nuovi prodotti ed affrontare meglio la concorrenza.

Va tuttavia rilevato che il nostro paese ha la bilancia commerciale positiva, il che significa che ci sono imprese che innovano, incrementano la produttività, ricorrono ai superammortamenti 4.0, e quindi competono internazionalmente. Tali imprese sono solo il 20% del totale, mentre un 10% è sull’orlo dell’esclusione dal mercato mentre il restante 70% sopravvive a fatica e soprattutto basandosi sul basso costo del lavoro. Va inoltre ricordato che l’aumento della produttività deve tradursi in corrispondente incremento dei salari ai fini di sostegno della domanda aggregata (legge economica scarsamente osservata).

Mi pare quindi che limitare l’azione dei socialisti all’area sovrastrutturale sia una proposta carente, specialmente in un contesto in cui l’imprenditoria si dimostra evidentemente incapace e il capitale cerca sbocchi nella finanza, ovvero nella rendita anche trasferendo all’estero i profitti prodotti dal mondo del lavoro. Infatti, ad una bilancia commerciale positiva si contrappone un Target 2 negativo, molto negativo e crescente.

Occorre allora agire a livello strutturale, partendo dall’evidenza che lasciare le scelte ai meccanismi di mercato è una scelta perdente, che considerare l’intervento dello stato solo a rimediare i fallimenti del mercato, sia quelli endogeni (crisi del 2007) che quelli esogeni (la recente pandemia) è un errore strategico, e purtroppo pare che sia la scelta del nostro PNRR che ancora una volta assegna allo stato un ruolo subalterno al mercato.

Serve una MISSIONE, nel senso che Mariana Mazzucato dà a questa parola, che individui nello stato la guida delle strategie fondamentali atte a intervenire sui quattro punti sopra riportati. Occorre ritrovare quella politica programmatoria che per anni è stata perseguita e praticata dai socialisti.