LE CRISI E I LORO EFFETTI

 

 

di  Renato Costanzo GattiSocialismo XXI Lazio |

 

Le crisi possono nascere dai fallimenti del mercato, come successe nel 2007, o da disastri esogeni, come la crisi pandemica. Durante la crisi vanno in tilt molti meccanismi fino ad allora funzionanti: va in fallimento la Lehman Brothers nella prima crisi, si dimostra debolissimo il sistema sanitario in molti paesi nell’attuale crisi.

Alla crisi ogni classe reagisce come può; falliscono le imprese marginali, i governi intervengono con ristori ed aiuti a favore di imprese e lavoratori rischiando effetti inflattivi, i capitali cercano rifugio e/o delocalizzano. Una costante tuttavia è l’andamento del mondo del lavoro: esso rimane la vittima finale, non più scaricabile su altri così come gli altri l’hanno scaricata su di lui.

Leggiamo un po’ di numeri che riguardano le due crisi:

durante la crisi del 2007  se in Italia le regioni del sud hanno vissuto tutte un peggioramento della disoccupazione (di circa il 100%), in alcune zone del centro nord le ripercussioni calcolate sull’intero periodo sono state connotate da numeri molto più elevati. Tipo: la Lombardia +163%, il Piemonte +174,38% e l’Emilia-Romagna+286,06 per cento.” (analisi di Openpolis per Repubblica.it).

 Commenta l’Istat: “Rispetto a febbraio 2020, ultimo mese prima della pandemia, gli occupati sono quasi 900 mila in meno e il tasso di occupazione è più basso di 2 punti percentuali. Nello stesso periodo, l’occupazione è diminuita per tutti i gruppi di popolazione, ma il calo risulta più marcato tra i dipendenti a termine (-9,4%), gli autonomi (-6,6%) e i lavoratori più giovani (-6,5% tra gli under 35)”.

A fatica ci stavamo risollevando dalla crisi del 2007 e comunque con grossi ritardi rispetto ad altri paesi il cui PIL ha  superato quello del 2007 mentre il nostro è ancora inferiore, che è sopraggiunta la crisi pandemica con un crollo del PIL del 9% ripreso nel corso del 2021 con un recupero del 6.4% (quindi fatto 100 il pre-2019, perdendo il 9% siamo scesi a 91, calcolando l’aumento del 6.4 su 91 risaliamo a 96.8). Ma i posti di lavoro persi sono stati 900.000 di cui recuperati verso la fine del 2021 circa 700.000, lasciando sul campo 200.000 disoccupati.

La flessione complessiva dell’occupazione è dovuta principalmente alla componente più giovane della popolazione (15-34 anni), in cui risultano predominanti i contratti di lavoro a termine. Nella classe di età compresa tra 15 e 34 anni l’incidenza del lavoro a termine sul totale dell’occupazione dipendente è passata dal 19% del 2004 al 36,8% del 2019, prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria. Tale elemento rende la componente giovanile del mercato del lavoro sensibilmente più esposta a periodi di congiuntura e a shock esogeni. Anche il calo degli occupati nelle classi di età centrale (35-49 anni) ha dato un contributo elevato alla riduzione del numero totale degli occupati.

Ora Nicola Scalzini sostiene che il recupero di forza lavoro è dovuto ai contratti a tempo indeterminato, irridendo la posizione di Bersani che lamenta l’aumento del lavoro a tempo determinato.

A parte la ridicola obiezione fatta a Bersani, direi che la situazione del mondo del lavoro è giunta ad una fase drammatica per cui è “sadico” gioire, come fa Scalzini, del fatto, da lui sostenuto, che i dipendenti a tempo indeterminato sono il 90%.

Questa irenica posizione dimentica elementi fondamentali quale la crisi demografica, l’aumento dei giovani disoccupati, l’aumento dei NEET, il crollo nell’occupazione femminile, il persistente arretramento del sud, il costante aumento dell’indice Gini (ovvero la polarizzazione nella distribuzione dei redditi).

Dimentica inoltre che stiamo attraversando una mutazione nel modo di produrre che di per sé stravolge il rapporto di lavoro: le innovazioni tendono a ridurre, talora a zero, il fabbisogno di lavoro vivo senza alcuna prospettiva certa di lavoro altro e le innovazioni sono finanziate dallo stato con gli incentivi Calenda che (parafrasando Draghi) “prendono ai contribuenti (lavoratori dipendenti e pensionati) per dare al capitale”. Fossero anche creati lavori nuovi essi richiedono una drastica operazione di formazione della forza lavoro che allo stato denuncia un forte mismatch fra professionalità richieste e professionalità offerte. Una rivoluzione produttiva di cui il socialismo nostrano stenta a realizzarne la portata, subendo l’inarrestabile avanzata del capitale e concentrandosi nella difesa di strumenti redistributivi ormai depotenziati.

L’esempio dell’auto è significativo, con l’aumento dell’elettronica rispetto alla meccanica e, soprattutto, la sostituzione di auto con motori a scoppio con auto elettriche, si prevede una riduzione delle ore lavorate per unità di prodotto con impatto sull’occupazione, e sulla tipologia di professionalità  richiesta.

Sempre più si fa evidente che lo scontro capitale-lavoro si sta drammatizzando nelle sue relazioni di fondo, nel rapporto lavoro vivo e lavoro morto, gestione egemonica del capitale nel determinare i nuovi modi di produzione rendendo sempre più subalterna la situazione del mondo del lavoro che non trova a livello politico nessuna forza in grado di rendersi conto di questa silenziosa rivoluzione che sta affossando il mondo del lavoro.