RIFORMISTA E RIFORMATORE

 

di Renato Costanzo GattiSocialismo XXI Lazio |

 

 

Un post di Alberto Benzoni |

Come sempre stimolante Alberto imposta una riflessione che necessariamente parte da Livorno e arriva ai giorni nostri. Gli interventi si soffermano più che altro alle differenziazioni tra riformisti, massimalisti e comunisti, riandando alle posizioni di Serrati, dei comunisti, ma soprattutto di Nenni. Essi, tuttavia, non analizzano, a mio modo di vedere, i concreti contenuti delle diverse posizioni; la cui qualificante differenza consiste, come scrivo nei commenti al post:

i veri protagonisti sul piano politico e ideologico del congresso di Livorno furono i comunisti scissionisti da un lato e i riformisti dall’altro, Ma l’alternativa fra riformismo (la pecora di Olof Palme) e riformatori (un nuovo modo di produrre che superi il capitalismo) è ancora tutta lì, intatta da dirimere”

Mi risponde Maurizio Giancola:

“vedo che riproponi una classica distinzione fra il termine “riformisti” e quello “riformatori”. Sulla frase attribuita a Palme mi sembra ci siano delle incertezze e comunque non ridurrei il riformismo solo al tosare la pecora, che comunque è già qualcosa che oggi, ad esempio, non si fa più. Il problema è oggi come in altri tempi quello di un modo di produrre che, come dici, superi il capitalismo Questo modo purtroppo non si vede neppure minimamente per cui il problema resta aperto e altro non so che dire.”

Ora l’esigenza di trovare un diverso modo di produrre nasce da una diversa impostazione filosofica che ci troviamo ad affrontare quando dobbiamo sciogliere i temi del “cosa produrre e come produrre”, quando cioè analizziamo i principi che presiedono il modo di produzione capitalistico rispetto al modo di produzione scientifico che definirò modo di produzione socialista.

Infatti, il modo di produzione capitalistico è guidato dalla ricerca del profitto, della valorizzazione del capitale per cui le scelte che esso opera sono conseguenza di quell’obiettivo, e non necessariamente le scelte fatte sono rispondenti ai bisogni della comunità o funzionali ai programmi che la collettività si è politicamente posti. La logica capitalista spinge le imprese ad offrire al consumatore i prodotti che danno maggior profitto non proponendo altri prodotti più utili alle esigenze del consumatore costretto a scegliere solo tra i prodotti proposti dal capitale.

Ricerchiamo invece un modo di produzione che non risponda alle logiche del profitto, ma che sia scientificamente finalizzato al soddisfacimento delle esigenze ed ai bisogni della comunità, senza, per ora, soffermarci al come individuarli. Quando parlo di modo socialista non penso necessariamente al socialismo reale realizzato nel secolo scorso rifiuto cioè “una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, penso che il mercato possa mantenere una funzione essenziale […] Ma sono convinto che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche […] non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati” (Enrico Berlinguer – Un’altra idea del mondo, p. 242).

Intendo quindi un modello che distingue beni e servizi indispensabili, individuati democraticamente, che vanno prodotti senza che il profitto sia condizionante (anche se l’economicità sia determinante) inquadrati in una programmazione nazionale ispirata al raggiungimento di obiettivi democraticamente scelti promuovendo la scienza nella ricerca delle tecnologie più avanzate nel processo di liberazione dal lavoro.

Ma il modello cui penso ha anche il merito di includere nella programmazione i cosiddetti “capitali pazienti”, che confliggono col shortismo del capitalismo, che sono alla base della ricerca generale e tecnologica, elemento discriminante nella divisione internazionale del lavoro.

Consapevole che l’innovazione tecnologica porta ad un minor apporto del lavoro vivo rispetto a quello morto, considero fondamentale una democratizzazione del processo di gestione del sovrappiù. Tale sovrappiù è oggi gestito dalla filosofia egemone del capitale senza che ci si renda conto che l’innovazione tecnologica: a) da un lato libera dal lavoro ceduto dai lavoratori al capitale per poter sopravvivere, b) è frutto della comunità che finanzia la scuola, la ricerca, i capitali pazienti, che finanzia con gli incentivi fiscali l’arretratezza del capitalismo nostrano che ancora ricerca il profitto tramite il basso costo della mano d’opera.

Inoltre, il modello cui penso esclude ogni spazio alla rendita, alla finanziarizzazione dell’economia che sta, al contrario, dilagando nel mondo occidentale negando anche il concetto costituzionale della repubblica “fondata sul lavoro”.

Basta una “redistribuzione” di stampo riformistico, peraltro sempre più in difficoltà e sempre più simile ad un provvedimento compensativo, a garantire un processo che combatta le disuguaglianze dilaganti nel modello egemonico attuale?

Il succo dell’alternativa tra riformismo e riformatori sta nella risposta a questa domanda.