RIFLESSIONI SULLA PROPOSTA DEL SALARIO  MINIMO GARANTITO PER LEGGE

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI

La recente proposta dell’Unione Europea scaturita da un accordo tra Commissione, Consiglio Europeo (dei capi di governo) e Parlamento di Strasburgo, e  che dovrà essere ora  approvata –  ai fini della sua concreta  applicazione –  dai tre massimi organismi europei precitati e poi ratificata dai Parlamenti dei singoli Paesi della U.E., ha smosso un dibattito nel nostro Paese, che si sta sviluppando spesso con superficialità e poca conoscenza da parte di molti attori politici della reale situazione delle condizioni salariali e contrattuali in Europa.

Intanto va  chiarita una falsità che corre nel dibattito in corso e cioè che l’Italia sarebbe l’unico Paese in cui  questo provvedimento legislativo non ci sarebbe. Esso non c’è, oltre all’Italia, in Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Regno unito (GB), Svizzera e Svezia. Sono Paesi, come si noterà, in cui (a parte Cipro) vi è una lunga ed affermata tradizione sociale e  sindacale che attraverso la  contrattazione nazionale ed integrativa aziendale e la co-decisione (nei Paesi nordici) ha dato copertura salariale a tutti i lavoratori dipendenti di qualsiasi categoria e mestiere. Nei contratti di lavoro di questi Paesi (Italia compresa) il salario minimo garantito puo’ essere inteso come la retribuzione lorda dell’ultima categoria o qualifica della scala classificatoria dei lavoratori dipendenti.

In considerazione di ciò,  la proposta degli organismi della U.E. è stata avanzata come “non obbligatoria” per tutti i Paesi aderenti alla U.E. ed avrebbe lo scopo di tentare di eliminare o ridurre il gap esistente (un vero e proprio “dumping” sociale) tra i trattamenti nei Paesi orientali già a regime comunista e quelli euro-occidentali.

Ad esempio mentre in Bulgaria il salario minimo garantito è di 333 euro mensili in Lussemburgo è di poco piu’ di 2.000 euro ed in Irlanda e Olanda  è di 1.750 euro ed in mezzo a questa statistica ci stanno gli altri con i Paesi orientali ex-comunisti attorno a 500/600 euro mensili. Ovviamente la normativa europea non fisserà il valore unico per tutti ma tale fissazione con valore legale sarà affidata ad ogni singolo Paese attraverso la contrattazione. Se la direttiva sarà così applicata non risolverà il problema del “dumping” contrattuale e di una concorrenza sleale tra Paesi UE in materia di costo del lavoro. Ciò per dire che la strada per giungere ad un modello sociale unitario in Europa è ancora lunga !!

Veniamo all’Italia. Va corretta la falsa idea che il salario minimo per legge serve a tutelare settori lavorativi privi di tutela contrattuale e si citano spesso i “raider”, quei ragazzi che – con mezzo proprio – distribuiscono a domicilio le pizze o altri cibi preparati da ristoranti, oppure le badanti, i giardinieri  o le addette alle pulizie domestiche.  A parte il fatto che, recentemente, anche per i “raider” sono stati sottoscritti dei contratti con organizzazioni deboli sul piano contrattuale e poco rappresentative, il problema per tutte queste particolari  categorie consiste  nel regolarizzare il rapporto di lavoro anche se non è a tempo indeterminato o “Part-time”.  E, soprattutto di perseguire duramente le mancate regolarizzazioni !!!

La fissazione per legge di un trattamento minimo non mette al riparo questi soggetti dalla non regolarizzazione del loro rapporto di lavoro e dalle violazioni contrattuali da parte del datore di lavoro, sia esso un pubblico esercizio o un privato. I contratti nazionali di lavoro, anche per questi particolari soggetti lavorativi esistono, devono solo essere applicati e rispettati sul piano salariale, dell’inquadramento professionale, e dei trattamenti normativi che non sono meno importanti del salario.

Non è detto poi che queste lavoratrici e lavoratori contrattualmente deboli debbano essere inquadrati sempre nell’ultimo livello delle qualifiche e quindi con il salario minimo che,  fissato per legge, rischia di divenire il salario “universale” per moltissimi dipendenti.

Dal legislatore, in particolare dai fautori di detto provvedimento e  spesso “a digiuno” di  questioni contrattuali, è lecito conoscere che cosa intendono per trattamento salariale minimo dato che per molte categorie produttive ma anche dei servizi vi è il trattamento salariale derivante dal contratto collettivo  nazionale  di categoria e vi è un trattamento salariale derivante da contratti aziendali o territoriali per piccole imprese.  I CCNL prevedono poi,  in termini aggiuntivi alle tabelle salariali, varie indennità salariali in % o in cifra fissa correlate a particolari situazioni e condizioni. Queste rimarebbero in funzione o non c’è il pericolo che la fissazione di un salario minimo per legge farebbe sparire queste indennità, assorbendole nel valore fissato per legge?

Non è vero che tale provvedimento legislativo rafforzerebbe la contrattazione nazionale e quella aziendale, anzi causerebbe  un effetto opposto in particolare per quella aziendale.

Non si capisce poi se questa misura è fissata come valore annuale, mensile od orario dato che, purtroppo, esistono una pluralità di rapporti di lavoro non a tempo pieno e a tempo indeterminato, per i quali la fissazione per legge di un minimo salariale non risolve il problema della  loro dannosa proliferazione che è il principale motivo del troppo basso valore del salario medio italiano rispetto a quelli dei principali Paesi europei.

Veniamo perciò a questo aspetto che rappresenta una vera emergenza sociale. Le retribuzioni medie italiane sono agli ultimi posti in Europa ma non a causa del  fatto   che il valore delle retribuzioni minime non è fissato per legge,  ma a – mio giudizio – da queste problematiche :

Prima questione. L’accordo di concertazione triangolare sottoscritto  nel luglio del 1993 tra Governo Ciampi, Confederazioni Imprenditoriali  e CGIL-CISL-UIL affidava ad una contrattazione nazionale triennale il compito di adeguare NON facoltativamente le retribuzioni e cioè ai CCNL da rinnovare alla loro naturale scadenza. Questo vincolo è stato sempre rispettato ? E se non è stato sempre e in tutte le categorie rispettato perché i Sindacati non hanno obbligato i vari Governi – come garanti di quel patto di concertazione triangolare – ad intervenire?

Seconda questione. Le tabelle salariali che sono messe al confronto tra i Paesi Europei riguardano spesso i valori salariali medi ma al netto. Il gap dell’Italia nasce anche in virtu’ dell’alta tassazione fiscale  e contribuzione sociale sui redditi da lavoro dipendente, a fronte di una evasione fiscale (la piu’ alta in Europa) che riguarda essenzialmente i redditi finanziari e da attività e lavoro autonomo. Ha sbagliato – ad esempio – l’attuale governo Draghi a spalmare le risorse destinate alla riduzione delle tasse su tutti i contribuenti anziché concentrarle sui redditi da lavoro, in particolare dipendente.

Terza questione. Come già  prima indicato, il salario medio nazionale, certamente fra i piu’ bassi in Europa anche a livello lordo, dipende anche  da una “esplosione” incontrollata delle tipologie delle prestazioni, abitualmente chiamate “precarie, perché non continuative che alternano periodi di lavoro e periodi di non lavoro e di reddito, perché sono a orari settimanali o giornalieri ridotti perciò con un salario ridotto rispetto a quello percepito da un lavoratore a tempo pieno e continuativo. Questi ultimi sono in continua riduzione a fronte di un aumento di quelli “precari”. 

Quarta questione. I contratti nazionali e territoriali “pirata” o “farlocchi” negoziati (si fa per dire) da sedicenti organizzazioni datoriali e sindacali “farlocche” che definiscono trattamenti di gran lunga inferiori sul piano salariale, normativo e dei diritti. Non esistendo nel nostro Paese la legge della  validità “erga omnes” dei contratti nazionali e dei loro trattamenti stabiliti tra le organizzazioni maggiormente rappresentative, se la politica vuole fare un intervento che recuperi veramente trattamenti salariali europei occidentali definisca per legge la  validità legale ed “erga omnessolamente per i trattamenti salariali e normativi minimi sottoscritti nei CCNL dalle organizzazioni effettivamente rappresentative sulla base dei criteri in vigore nel pubblico impiego.

Oltre a ciò, per concludere, in ordine alle  prime tre questioni in precedenza accennate,  sarebbe quanto mai opportuno affrontarle e risolverle attraverso un rinnovato Patto di concertazione “triangolare” non solo perché il Governo è anche datore di lavoro ma perché alcuni aspetti delle questioni sollevate sono normate da leggi e perciò dalla legislazione vanno corrette e migliorate.

Se si ha consapevolezza della complessità dei problemi da affrontare emerge che non è la “scorciatoia” della fissazione per legge di un minimo salariale per tutte le categorie che puo’  risolvere  i problemi dei bassi salari, dell’alta tassazione fiscale e contributiva,  della grave estensione della vasta area della precarietà del lavoro, della necessità di rendere effettiva la regolarizzazione contrattuale di ogni lavoro, del superamento e della condanna dei contratti “pirata”, fonte e causa dei “sottosalari” e della violazione di norme su altri aspetti della condizione di lavoro, in particolare della sicurezza.