OSSERVAZIONI ALL’ARTICOLO DI SILVANO VERONESE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Ho letto, con grande interesse, l’articolo di Silvano Veronese “I SALARI ITALIANI SONO I PIU’ BASSI DI QUELLI EUROPEI? PERCHE’?” che ha stimolato la mia attenzione in questo periodo ferragostano. Condivido, e mi limito a questa parte dell’articolo, le cause che di fatto vanno a deprimere il livello salariale e vorrei fare un paio di osservazioni:

a) Tutte le cause che Silvano elenca denunciano una debolezza del mondo del lavoro (dipendenti e sindacato) come contraente nel mercato del lavoro. Sono la presenza: dei contratti precari, del mancato tempestivo rinnovo dei contratti, dell’esistenza di contratti farlocchi, a dimostrare quei fenomeni che denunciano la soccombenza del mondo del lavoro nei confronti del contraente “capitale”. Non era certo così anni fa, quando il mondo del lavoro riusciva a conquistare diritti salariali, ma non solo, riuscendo a costruire un ambiente dove si arrivava addirittura (ricordo la lotta sulla prima parte dei contratti) a far trasparire una possibilità di una cogestione aziendale, anche se limitata e circoscritta.

La mia osservazione, diciamo storica, è che la stagione diciamo “turatiana” (uso questo termine per indicare la stagione del riformismo) delle conquiste lente, ma indiscutibili, che in effetti ci sono state, è finita in corrispondenza cronica delle difficoltà del capitalismo. Tutte le crisi più recenti, da quella del 2007, a quella pandemica, alla attuale crisi energetica stanno smantellando quelle riforme a suo tempo conquistate, mettendo mondo del lavoro, sindacati compresi, in un angolo, sulla difensiva.

La domanda è quindi se sia ancora valida una strategia “turatiana” in attesa di tempi migliori o non sia il caso di adeguare la strategia del mondo del lavoro puntando non agli aspetti sovrastrutturali ma a obiettivi strutturali che modifichino i rapporti tra capitale e lavoro.

b) Il punto (f) che Silvano indica è quello che più sollecita il mio interesse. Da noi i salari crescono meno che negli altri paesi (Francia, Germania, Benelux e nordici) perché la produttività del nostro sistema produttivo cresce meno (o meglio quasi non cresce) di quanto cresca in quei paesi. E’ ovvio che se la produttività aumenta questo non è un fatto naturale ma è la conseguenza di una attività di ricerca, di formazione, di imprenditorialità che ama rischiare e innovare; ma è soprattutto, come ha dimostrato Mariana Mazzucato, il frutto degli investimenti che fa lo stato in quelle attività di ricerca di base che hanno un alto rischio di successo che comunque, quand’anche queto arrivasse, richiede tempi estranei ai parametri di pay-back di un capitalismo retrogrado. Si aggiunga però che l’aumento di produttività permette con lo stesso lavoro (e lo stesso salario) di produrre più beni che quindi sono in eccesso rispetto alla domanda aggregata. Di qui discendono due soluzioni; o si applica la golden rule per cui i salari debbono aumentare con lo stesso ritmo della produttività (alimentando quindi la domanda) o ci si rivolge all’esportazione (modello mercantilista). Bene, nel nostro paese, e rimando sempre ad un bellissimo articolo di Leonello Tronti, la differenza tra incremento della produttività e incremento dei salari fa segnare uno scarto sostanzioso, che è alla base di tre effetti: mancato aumento dei salari, buon andamento dell’export, modello produttivo basato sul basso costo della mano d’opera.

Va bene salario minimo, va bene la riduzione del cuneo fiscale, ma questi provvedimenti draghiani non dovrebbero farci dimenticare cose più strutturali come: protagonismo dello stato nella ricerca, forte innovazione produttiva, modello industriale tecnologico, golden rule produttività/salari, insomma, come dicevo prima alzare lo sguardo alla struttura.

c) Ma il punto che più mi sta a cuore è quello della robotizzazione, tema che dovrebbe scatenare le emozioni dei socialisti e che, al contrario vedo come una lenta e magmatica guerra di avanzamento del capitale contro il mondo del lavoro, avanzamento di cui il mondo del lavoro, come spesso gli capita, non si accorge.

La questione è complessa, cerco di riassumerla: il futuro è un futuro tecnologico, la robotizzazione è lo sbocco più vicino a costituire il nuovo modo di produzione, l’intelligenza artificiale ed i computer quantistici daranno un contributo eccezionale a questo modo di produzione, questo modo di produzione porterà un mutamento sostanziale nei rapporti di lavoro, la robotizzazione comporterà l’eliminazione di moltissimi posti di lavoro, non in assoluto, ma creando qualche posto di lavoro tecnologicamente qualificato in più ma eliminando posti di lavoro (fisico e intellettuale) non qualificati in quantità massive, al limite (e alcuni autori hanno affrontato questo tema) si può immaginare un modo di produzione che non necessita del lavoro umano.

Marx immaginava questo sbocco come lo scopo del socialismo, di un mondo cioè in cui gli uomini non sono obbligati a vendere il loro tempo per poter campare; ma Marx vedeva questo risultato come la risultante dell’eliminazione del dominio del capitale.

Quello che invece non vedo nelle nostre discussioni è una indicazione, un progetto che possa gestire questa rivoluzione senza che essa sbocchi in un neo-schiavismo gestito dal capitale.

Su questo fronte si è mosso Calenda con i bonus 4.0, ovvero regalare soldi al capitale se questo investe in tecnologia. Il PNRR prevede ben 38 miliardi di simili regali.

Piccola riflessione: e se quei soldi invece di regalarli fossero erogati in cambio di azioni societarie, l’impresa produttiva non avrebbe nessuna conseguenza negativa, ma la comunità invece sarebbe la legittima proprietaria della tecnologia in più e non la generosa distributrice dei soldi che provengono per la più gran parte dalle imposte pagate dal mondo del lavoro.