AUMENTARE LE RETRIBUZIONI, SI MA COME? RIDUZIONE DEL “CUNEO FISCALE” O PARAFISCALE?

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |

L’aumento delle retribuzioni italiane, per le ragioni che abbiamo ricordato in un articolo precedente, è una esigenza reale che andrebbe realizzata con sollecitudine, anche se l’attuale fase politica con un Governo dimissionario ed in carica per “gli affari correnti” non è la più propizia.

Puo’ essere però l’occasione per riflettere – da parte delle forze politiche e delle forze sociali – rifuggendo dalle semplificazioni e dagli slogans sul modo piu’ opportuno per realizzare l’obiettivo, sul quale manca chiarezza.

In un Paese dove, da molti anni, vige una diffusa pratica ed esperienza di relazioni industriali la via maestra resterebbe la contrattazione tra le parti sociali, articolata per contratti nazionali di categoria accompagnata da una contrattazione integrativa aziendale e/o territoriale per le piccole imprese, anche se questa forma di contrattazione integrativa investe una minoranza di aziende e di lavoratori.

Anche la contrattazione nazionale – spesso – lascia scoperti settori minori a debole presenza sindacale, i cui contratti non sono rinnovati alle loro naturali scadenze oppure sono disapplicati dai datori di lavoro inadempienti.

Accordi interconfederali in materia di regolazione della contrattazione fissano che l’aumento salariale a livello nazionale faccia riferimento all’andamento dell’indice dell’inflazione europea depurata dai costi dell’energia, arrotondato da un leggero incremento economico a titolo di produttività media.

Oggi, questo procedimento sembra non essere accettato dalle Organizzazioni sindacali perché il fortissimo aumento dei costi energetici toglierebbe qualsiasi spazio ad aumenti e, quindi, per superare il pericolo di forti contrasti e tensioni tra le parti, tra chi non intende offrire alcunché (datori di lavoro) e chi vuole andare oltre a questo meccanismo (sindacati dei lavoratori), è emersa  l’idea di intervenire sul “cuneo fiscale”, cioè scaricando sullo Stato l’onere dell’adeguamento di salari e stipendi. Operazione peraltro anticipata con primi provvedimenti da precedenti Governi ed anche dall’attuale.

Taglio del cuneo fiscale o anche dei contributi previdenziali (cuneo parafiscale)? A parte, una domanda che sorge spontanea in ordine al finanziamento dell’operazione, per il quale il segretario generale della CGIL Landini ha proposto di tassare i grandi patrimoni, con questa operazione il ruolo di “sovranità salariale” passerebbe dalle parti sociali a quello dello Stato e l’aumento o adeguamento delle retribuzioni non sarebbe più collegato alla quantità e qualità della prestazione lavorativa, ma ad una generica risposta ai bisogni delle famiglie del lavoratore dipendente, una specie di “risarcimento” statale  per un incontrollato aumento dell’inflazione che erode i salari reali.

Il Governo Draghi, nell’ultima riunione con i tre Sindacati, ha risposto con una offerta minima considerata inaccettabile ed offensiva (una mancia) come si evince dalla dichiarazione del segretario generale della UIL Bombardieri (vedi articolo su questo sito).

Comunque, prescindendo dal problema del “come” finanziare un tale eventuale  provvedimento senza allargare a dismisura la spesa pubblica corrente, è importante ragionare sulla attuale situazione del “cuneo fiscale” affinché esso possa investire l’intera platea dei lavoratori di- pendenti/contribuenti senza creare contraddizioni.

L’ipotesi più probabile è il taglio dell’IRPEF, una tassazione che registra però situazioni molto diversificate tra i lavoratori interessati (cioè quelli dipendenti perché la richiesta sindacale ovviamente non riguarda i lavoratori autonomi o indipendenti se non una piccola entità di percettori di  redditi assimilabili al lavoro dipendente classico).

Ciò in relazione a determinate  condizioni personali, familiari, di reddito che portano in base al  gioco delle detrazioni, delle incapienze, dei bonus a tassazioni minime, all’esenzione e persino  a imposte “negative”, cioè a credito del contribuente.

Sono circa 8.200.000 i lavoratori dipendenti con redditi denunciati da o fino a 15.000 euro/annui pari al 38% del totale dei dipendenti classici più la quota degli assimilabili, oppure il 43/45 % circa dei dipendenti propriamente detti (poco meno di 18 mln nel 2021 e poco più di tale cifra nel 2022).

Tra i 15.000 euro/annui e 20.000 euro/annui troviamo altri 3 milioni di dipendenti che, per le ragioni summenzionati pagano una imposta media di 1.260 euro/annui, un po’ meno di 100 € mensili, ulteriormente  limati dalla recente riforma Draghi delle aliquote.

Dunque, il provvedimento del taglio del cuneo fiscale non interesserebbe la metà poco più dei lavoratori dipendenti, quelli a basso reddito che  non  hanno IRPEF da tagliare se non entità molto modeste per la minoranza di costoro. Perciò il taglio delle imposte sulle retribuzioni riguarderebbe operai ed impiegati con redditi superiori ai 20.000 euro/annui. Una disparità all’interno del mondo del lavoro, a sfavore degli ultimi, che suscita qualche evidente perplessità.

Un risultato più consistente e valido per tutti i lavoratori dipendenti potrebbe essere rappresentato, invece, dal taglio dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori, come ipotizza – non come proposta, ma come “esempio di scuola” – un intelligente ricercatore ed esperto di mercato del lavoro e pensioni della Fondazione Kuliscioff il compagno Claudio Negro, per un valore del 7,2/7,5 % residuale dopo gli sgravi operati in materia dal governo Draghi con la Finanziaria 2022 e con il recente decreto “Aiuti bis”.

Un aumento del SALARIO NETTO di queste dimensioni sarebbe una misura apprezzabile di grande peso positivo nell’economia di una famiglia dei lavoratori dipendenti.

Ho detto, però, che si tratta di un “esempio di scuola” perché l’altra faccia della medaglia sarebbe rappresentata da un equivalente fabbisogno di spesa pubblica  corrente per coprire il mancato introito da parte dell’INPS dell’ammontare dei contributi pensionistici.

Oppure, in alternativa, non vi è che la riduzione dei trattamenti pensionistici in atto per un ammontare corrispondente al mancato introito dei contributi. Una ipotesi, però, inimmaginabile in un Paese in cui le pensioni sono diffuse ma mediamente basse e perciò oggetto, semmai, di richieste di aumento perché rappresentano per diverse famiglie l’unica entrata e sostegno economico.

L’ammontare in cifra assoluta, quindi, di detta operazione a carico della finanza pubblica sarebbe attorno ai 12 miliardi (sempre che gli autonomi continuino a versare il loro dovuto)  che si aggiungerebbero ai 2.670 mld che già finanziano gli sgravi già intervenuti decisi dall’attuale Governo. Una cifra non eccessivamente rilevante, ma che in una fase di forte aumento della spesa pubblica corrente e del debito, sarebbe in controtendenza alle indicazioni del PNRR che prescrive impieghi di finanza pubblica per investimenti produttivi e l’occupazione, per il risanamento ambientale e per la transizione energetica.

Questo è il quadro che si presenterà sull’argomento agli “attori” politici e sociali quando, dopo le elezioni e formato il nuovo Governo, si tratterà di affrontare il tema della riduzione del “cuneo fiscale” che oggi appare in tutti i programmi elettorali dei partiti e delle coalizioni. Ad esempio, una riduzione della metà  del carico contributivo sostenuto attualmente dai  lavoratori dipendenti costerebbe un finanziamento pubblico di poco meno di 6 miliardi che, in presenza di uno sviluppo e perciò di crescita del PIL, sarebbe un carico per la finanza statale del tutto sostenibile.

Nel frattempo, ha fatto irruzione nella  campagna elettorale e nel dibattito nel Paese, la proposta della “destra” (ed in particolare del leader leghista Salvini) di sostituire l’attuale sistema progressivo di tassazione dei redditi con la FLAT TAX (tassa “piatta” con una % unica di trattenute fiscali senza scaglioni.

Le simulazioni degli esperti, calcolate su 9 scaglioni di redditi di lavoratori dipendenti, ci dicono che per i primi quattro (fino a 11.000 euro/annui, fino a 13.500, fino a 17.500, fino a 23.000) vi sarebbe una tassazione in aumento, mentre per tutti gli altri fino a 52.440 vi sarebbero dei guadagni per i contribuenti !!!  Verrebbero favoriti i redditi più alti a scapito di quelli più bassi!

Come è stato spiegato piu’ sopra, in questi quattro scaglioni di redditi annui – per il gioco delle incapienze, detrazioni a vario titoli, bonus Renzi e Draghi) –  oggi questi lavoratori non pagherebbero alcunché ed una minoranza (tra 15.000 euro e 20.000) pagherebbe di IRPEF una piccola cifra. E’ pertanto verosimile che i proponenti della FLAT TAX pensino di confermare queste detrazioni e questi sgravi, diversamente di “piatto” più che la tassa sarebbe il loro encefalogramma!

Ma anche in questo caso, ci troveremmo di fronte ad una grande iniquità sociale, ad una ingiustizia fiscale indigeribile, tenendo presente che nelle fasce più alte (e medio- alte) dei redditi di tutte la categorie di contribuenti (dipendenti, partite iva, autonomi) si annidano i contribuenti infedeli che sarebbero con la tassa piatta favoriti. Pensare, poi, che abbassando sensibilmente le trattenute fiscali si combattono gli evasori seriali è una pia illusione come se, ad esempio, riducendo il costo del biglietto dell’autobus sparissero  i “portoghesi” (la maggioranza, purtroppo, degli utenti ).

Socialismo XXI, per tutte queste ragioni è decisamente e fortemente contraria all’introduzione della FLAT TAX, anche perché la progressività fiscale è prevista nella Costituzione.