NEL CENTENARIO DELLA MARCIA SU ROMA

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di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXi Lazio |

Nell’esaminare un fatto storico occorre inquadrarlo e contestualizzarlo esaminando gli eventi che stanno a monte di quel fatto, cercando di individuare i nessi causali che possono aver portato a quel risultato. Ce l’hanno insegnato recenti fatti che, per poter giudicare con obiettività, occorre andare indietro nel tempo ricercando motivazioni ed accadimenti, che possono essere a monte l’origine di conseguenti accadimenti. Vediamo allora di identificare i maggiori avvenimenti che possono aver avuto come esito il fatto storico che stiamo esaminando.

La crisi post-bellica

Al termine della Prima guerra mondiale, in Italia i problemi del dopoguerra sono più gravi che altrove. Il processo verso la democratizzazione della società era iniziato da pochissimo: solo dal 1913, infatti, era in vigore il suffragio universale maschile. La vecchia classe liberale era in crisi, perché non riusciva a rapportarsi con le masse dei cittadini, da sempre estranee alla vecchia Italia liberale, che per di più le aveva trascinate in una guerra che non volevano.

Le polemiche e le dimostrazioni scatenate dalla “vittoria mutilata” non erano certo il problema principale in Italia tra il 1919 ed il 1920. I prezzi del grano stavano aumentando a dismisura, dando luogo a tumulti contro il ‘caro-viveri’ in molte città, mentre i sindacalisti lottavano per un aumento dei salari, in particolare ricorrendo allo sciopero in modo massiccio. I lavoratori agricoli della pianura padana si stavano organizzando in leghe, sia socialiste che cattoliche. Le leghe socialiste stavano assumendo il controllo del mercato del lavoro, ottenendo aumenti di salario ed un ruolo di primo piano nella contrattazione con i proprietari terrieri. Nel frattempo, i contadini del Centro-Sud, molti dei quali erano reduci di guerra, iniziano ad occupare le terre incolte. Il fenomeno del reducismo costituiva una situazione politica di grande impatto sociale. Insomma, le agitazioni sociali erano molte, sconnesse tra loro, e stavano esasperando le divisioni in tutto il paese.

Si stavano intanto consolidando nuove forze politiche in grado di inquadrare le masse, dialogare con loro e mobilitarle. Si trattava del Partito popolare di Sturzo e del Partito socialista italiano.

Nel gennaio del 1919 i cattolici si organizzano nel Partito popolare italiano (PPI), un movimento che si dichiarava privo di una confessione religiosa precisa, ma che si ispirava direttamente alla dottrina cattolica ed era molto legato alla chiesa. Il movimento era stato voluto dallo stesso papa Benedetto XV per allontanare le masse dal socialismo. Per permettere ai cattolici di aderire, il papa abolisce nel 1919 il non expedit. Il fondatore don Luigi Sturzo era un sacerdote siciliano, convinto che i cattolici dovessero partecipare alla vita politica – ma il suo partito includeva anche elementi legati alla vecchia classe politica liberale.

Il Partito socialista in questi anni stava crescendo vertiginosamente: era dominato dalla propria corrente di sinistra, i massimalisti, il cui principale obiettivo era instaurare una repubblica socialista ispirata alla rivoluzione bolscevica del ‘17, pur senza muoversi concretamente per realizzarla. Insoddisfatti di questa scarsa propensione all’attività, alcuni elementi si stavano progressivamente avvicinando al mondo operaio, tentando di riproporre in Italia l’esperienza dei soviet russi.

Le forze socialiste si rifiutavano di dialogare con le forze ‘borghesi’ e democratiche, anche se il colloquio tra di esse era tormentato e conflittuale. Questo preoccupava la piccola borghesia e forniva ottimi argomenti a moltissimi gruppi nazionalisti che stavano sorgendo in quei mesi, secondo i quali il socialismo andava fermato, e in fretta.

Il biennio rosso

Il dopoguerra italiano è caratterizzato dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dall’inflazione e dal crollo della lira.

Questi processi furono la causa di lotte operaie senza precedenti in Italia; gli operai chiedevano agevolazioni circa gli orari di lavoro ed i propri diritti mentre i braccianti chiedevano salari più elevati ed una gestione migliore dell’agricoltura. L’inflazione colpisce anche gli stipendi e le rendite della piccola e media borghesia, accresciutasi numericamente durante lo sviluppo economico del primo ventennio del secolo e che non avevano mai conosciuto la disoccupazione o un basso tenore di vita.

La piccola borghesia si schiera contro il proletariato e contro la grande borghesia dei “pescicani”, ritenuta avida ed egoista. Questo stato metteva in luce la crescente sfiducia nella classe dirigente liberale, ritenuta incapace di tutelare gli interessi dei ceti medi.

Il 20 settembre del 1920 l’occupazione delle fabbriche, impressionante e potente, segna un episodio drammatico, vissuto dai lavoratori come l’inizio di una vera e propria rivoluzione: Giolitti si rifiuta di intervenire con la forza pubblica e accoglie alcune delle istanze degli operai. Ma ciò che era rimasto era una profonda ostilità verso il socialismo da parte della borghesia, profondamente legata alla paura della rivoluzione.

I fatti del settembre del 1920 impaurirono profondamente i capitalisti che temono una ripetizione ad ovest della rivoluzione di ottobre; quindi, il “biennio rosso” fa nascere l’esigenza di una opposizione reazionaria impersonata con più efficacia dal fascismo di Mussolini (che si disvela a metà ottobre con l’assalto al palazzo d’Accursio a Bologna, esattamente un mese dopo i fatti del settembre). Organica a questa preoccupazione del capitale è il superamento della lotta di classe da effettuarsi con l’unione di imprenditori e lavoratori considerati entrambi “produttori” nella concezione corporativistica.

Tuttavia, a dar forza e popolarità all’avanzamento del movimento fascista, è la cronica incapacità delle forze della sinistra di raggiungere una sintesi necessaria. Sono incapaci di dare sviluppo e concretezza a moti spontanei dal basso (come peraltro erano state le occupazioni del settembre del 20) come quello degli “Arditi del popolo” o come quello sindacale dell’”Alleanza del lavoro”, per dichiarare apertamente la loro imbellità con il clamoroso fallimento dello “sciopero legalitario” dell’agosto del ’22 che sposterà decisamente l’opinione pubblica verso la convinzione che solo il fascismo sarà in grado di far uscire il paese dalla crisi. Scriverà Gramsci:” La catastrofe dello sciopero legalitario dell’agosto 1922, ebbe il solo risultato di spingere gli industriali e la Corona verso il fascismo e di far decidere l’on. Mussolini al colpo di Stato”.  

Le elezioni del ’19 e del ‘21

Nel novembre del 1919 ci sono le elezioni: il PSI è il primo partito, il PPI il secondo. I liberali formano un governo di coalizione Giolitti con i popolari. Giolitti tenta di inserire i socialisti nella dialettica parlamentare, i socialisti si rifiutano di collaborare col governo.

I socialisti ottengono più del 32% dei voti, seguiti dai Popolari di Sturzo con il 20% dei voti. Per quanto riguardava le liste dei fascisti, non avevano ottenuto che qualche migliaio di voti, e nessun deputato. Non era per niente facile, a questo punto, riuscire a formare una maggioranza di governo. Siccome i socialisti si rifiutavano di collaborare con gli altri partiti, gli unici a poter formare una maggioranza erano i popolari, i liberali ed i democratici.

Mussoliniaveva capito che in Italia stava crescendo un riflusso antisocialista, e per questo, tra la fine del ‘20 e l’inizio del ‘21, il fascismo attraversa una fase di grande cambiamento ricordata come fascismo agrario. Il partito si militarizza ulteriormente, ed accantona gli originari progetti radicali e democratici, impegnandosi intensamente nella lotta violenta al socialismo, contro cui i fascisti iniziano a mobilitarsi dal novembre del 1920, partecipando ad una serie di scontri armati e ritorsioni nell’area di Bologna e del Ferrarese. Presto i proprietari terrieri intravedono nel fascismo un efficace metodo per contrastare le leghe rosse, ed iniziano ad appoggiarlo. Il fascismo in questa fase allarga la propria base di militanti, mentre il fenomeno dello squadrismo si riversa in molte grandi città del Centro e del Nord.

Nel gennaio del 1921 a conclusione del XVII congresso del Partito socialista i comunisti lasciano il teatro Goldoni e fondano il Partito Comunista d’Italia.

Nel maggio del 1921 si torna alle elezioni. I candidati fascisti entrano nei blocchi nazionali, ovvero liste elettorali capeggiate dai conservatori, dai liberali e dai democratici che speravano di arginare il successo dei partiti di massa, legittimando così apertamente il fascismo, che in campagna elettorale si abbandona a nuove violenze. I risultati non penalizzano particolarmente i socialisti, ma segnano l’entrata in parlamento di 35 deputati fascisti, tra cui lo stesso Mussolini. Quando Giolitti si dimette all’inizio di luglio, l’Italia è sull’orlo di una guerra civile. Ad agosto il nuovo leader Ivanoe Bonomi, un ex socialista, fa firmare alle due parti in causa una tregua, almeno teorica, il patto di pacificazione.

La marcia su Roma

Internamente al fascismo si è sviluppata una frangia, capeggiata dai ras, i capi dello squadrismo agrario, che non condividono il patto di pacificazione. Per serrare i ranghi, Mussolini decide di sottrarsi al patto di pacificazione, trasformando però il fascismo, nel novembre del ‘21 da un vago movimento ad un vero e proprio partito: il PNF (partito nazionale fascista). Nel febbraio del 1922 si forma un nuovo governo dall’autorità politica ancora più scarsa del precedente, affidato a Luigi Facta, e nel frattempo la violenza squadrista torna a dilagare in modo sempre più spettacolare, scatenandosi contro il socialismo in tutta Italia in occasione di uno sciopero generale, nell’agosto del ‘22.

A questo punto Mussolini punta al controllo dello Stato. Mentre il fascismo si prepara ad un vero e proprio colpo di stato, organizzato dai quadrumviri (Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi), Mussolini inizia a vestirsi da gentiluomo, con ghette e tuba, e rassicura la corona, i moderati e l’esercito delle proprie migliori intenzioni. 

L’ultimatum di Mussolini: il 24 ottobre a Napoli, durante una manifestazione, il capo del fascismo proclama che “o ci daranno il governo, o lo prenderemo calando su Roma”. Due giorni dopo, i fascisti fanno sapere al re che, se il governo non si dimetterà, passeranno all’azione armata. Il piano era piuttosto semplice: mobilitare tutti i fascisti d’Italia verso la capitale.

La resistenza che oppone il movimento operaio è puramente simbolica. Nenni ha ricordato che “tutti in Italia erano concordi a non prendere il fascismo sul serio”; il 25 ottobre, mentre era reso noto il proposito dei fascisti riuniti a congresso a Napoli di calare sulla capitale, la direzione del PSI si trovava riunita a Milano per coordinare l’invio della delegazione socialista a Mosca e nessune dei presenti valutò come reale la minaccia contenuta in quel proposito. “L’indomani la delegazione con alla testa Serrati, prendeva il treno per Mosca, con l’assoluta certezza che non sarebbe successo nulla”.

Anche i liberali ed i moderati, buona parte degli avversari del fascismo, erano convinti di trovarsi di fronte ad un fenomeno transitorio. Per i socialisti massimalisti e per i comunisti, poi, il governo fascista era pur sempre un governo ‘borghese’, come i precedenti, e quindi niente di nuovo. Ma come soltanto pochi tra gli antifascisti capirono all’epoca, quello che sembrava a molti un ritorno alla normalità era in realtà l’epilogo definitivo dello stato liberale in Italia.

Da un punto di vista tattico e numerico, il piano della marcia su Roma non aveva pressoché alcun senso: i fascisti che pretendevano di ‘conquistare’ Roma erano all’incirca 10.000, equipaggiati in modo insufficiente. Non avrebbero potuto nulla contro i soldati ben armati, che presidiavano la città calcolati nel numero di 28.000.

Il Consiglio dei ministri, all’unanimità, alle 6 del mattino del 28 ottobre 1922 delibera di proporre al re la proclamazione dello stato d’assedio.

Alle 7.10 la Presidenza del Consiglio dei ministri invia un telegramma a tutti i prefetti e comandanti militari del regno:” Il governo su unanime deliberazione del Consiglio dei ministri ordina signori loro di provvedere a mantenere ordine pubblico… usando tutti i mezzi, a qualunque costo, e con arresto immediato senza eccezione capi e promotori del moto insurrezionale contro poteri dello stato”.

Alle 7.50 un altro telegramma agli stessi destinatari:” Consiglio dei ministri ha deciso proclamazione stato assedio in tutte provincie regno da mezzogiorno oggi. Relativo decreto sarà pubblicato subito. Frattanto SSLL usino immediatamente di tutti i mezzi eccezionali per mantenimento ordine pubblico e sicurezza proprietà e persone”.

Ordine del giorno del generale Emanuele Pugliese per ufficiali e soldati del presidio di Roma:” Contro Roma, madre di civiltà, nessuno ha mai osato marciare per soffocare l’idea di libertà che in essa si personifica. A voi difenderla fino all’ultimo sangue ed essere degni della sua storia”.

Ma il re Vittorio Emanuele III si rifiuterà all’ultimo di proclamare lo stato d’assedio, che avrebbe lasciato l’iniziativa ai militari: il re non si fidava particolarmente dell’esercito, ma soprattutto non avrebbe per nessun motivo voluto la responsabilità di una guerra civile. 

A seguito del rifiuto del re di firmare lo stato d’assedio, il governo Facta dà le dimissioni. In definitiva, quindi, la marcia su Roma, nel senso di conquista militare della città di Roma da parte dei fascisti, non c’è. Di fatto, le legioni fasciste entrano a Roma il 30 ottobre in modo allo stesso tempo trionfale e pacifico, senza incontrare alcun tipo di resistenza.

Si pensava di affidare ai fascisti la partecipazione ad un governo conservatore, ma Mussolini ambisce al ruolo di presidente del consiglio: il sovrano gli conferisce l’incarico di formare il nuovo governo e Mussolini, la notte del 29, in vagone letto lascia Milano e viene ricevuto dal re la mattina del 30 ottobre, e la sera stessa il primo governo fascista è pronto. Mussolini resterà al potere fino al 1943.

Considerazioni conclusive

La marcia su Roma si conclude in un modo piuttosto ambiguo. Se i fascisti sono convinti di aver portato a termine una rivoluzione, i moderati hanno l’illusione di aver raggiunto un qualche tipo di compromesso con Mussolini, e sperano ancora di poter riassorbire in qualche modo il fascismo nello stato liberale. Oggi gli storici più che di marcia su Roma parlano di grande (e riuscito) bluff giocato da Mussolini. Per il momento Mussolini dichiara fedeltà alla corona, ed include nel governo elementi estranei al fascismo, come i nazionalisti ed i popolari, tutti scelti personalmente da lui: in seguito li avrebbe deposti all’occorrenza. Quanto ai fascisti, anche i quadrumviri verranno presto messi da parte dal duce.  

Mussolini era riuscito nel suo piano: spaventare le istituzioni e prendere con la forza il comando del Paese. Durante il suo discorso di insediamento davanti alla Camera dei deputati (il 16 novembre) si presenterà con l’ormai famoso discorso del bivacco: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto“.

Tutta l’area democratica crede, o finge di credere, alla normalizzazione o è disposta ad accettarla passivamente. Votano per Mussolini 306 deputati (tra cui Bonomi, Giolitti, De Gasperi, Meda, Salandra, Orlando) contro 116 (i rappresentanti del movimento operaio).

Nel nuovo governo di coalizione entrano, sotto la presidenza del capo dei fascisti, i democratici-sociali (Di Cesarò), i popolari (Tangorra al Tesoro e Cavazzoni al Lavoro), i giolittiani (Teofilo Rossi), i nazionalisti (Federzoni e Giuriati), i salandriani (De Capitani) oltre al filosofo Giovanni Gentile, al maresciallo Diaz e al “Duca del mare” Thaon di Revel.

La composizione del governo tende ad escludere il carattere di colpo di Stato mentre accentua l’elemento di compromesso istituzionale, in effetti allora dominante, che testimonia l’ispirazione borghese dell’operazione fascista, restando il dubbio se come forza preminente sia di origine piccolo-borghese, ovvero la componente agraria o, infine, espressione di tutta la classe dirigente.

Si nega “all’avvento ogni carattere rivoluzionario e ogni parvenza anche lontana di colpo di stato. Un colpo di stato abbatte un ceto dirigente e muta le leggi fondamentali di uno stato; fino ad oggi la vittoria fascista ha soltanto rinnovato un gabinetto”.

Tuttavia nello sviluppo storico, il fascismo, da strumento del capitalismo per contrastare il pericolo comunista, diventa, specialmente nella sua derivazione nazista, il nemico che va ad uno scontro finale con i paesi capitalisti più avanzati.

Note:

Togliatti, nella sua relazione per l’esecutivo del partito, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 1922, pone l’accento su tre elementi che caratterizzano la situazione risultante dopo l’esito della marcia su Roma:

1 – Continuità del processo involutivo coll’identificazione del fascismo nello Stato borghese senza che si scalfisca “alcuno dei tradizionali pregiudizi democratici”;

2 – Compattezza mostrata dal partito e prestigio acquistato nella avanguardia operaia, in contrapposto allo sfaldamento del PSI e alla capitolazione della CGL;

3 – Necessità di consolidare la organizzazione illegale, non potendo escludersi nuovi colpi del nemico.