di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |
“Socialismo liberale o, che è lo stesso, liberalsocialismo, sono formule dottrinarie, che stanno a indicare in astratto l’esigenza di far confluire in un progetto politico concreto le istanze del liberalismo e quelle del socialismo, che durante tutto il corso del secolo passato [il XIX] erano state tenute separate. Ma come formule dottrinarie debbono essere riempite di contenuti che possono variare da un’età all’altra. Sono formule tanto dottrinarie che non è mai esistito sinora un partito socialista liberale. Entrambe le formule non dicono niente circa il quantum di socialismo che deve essere di volta in volta mescolato nella pratica politica. Altro è la formula dottrinaria, altro la combinazione in sede politica che, pur tenendo conto della duplice esigenza, deve affrontare situazioni concrete. La politica dei diritti – di diritti che possano avere la natura di diritti di libertà, che richiedono soltanto l’astensione dello Stato, o quella di diritti sociali, che richiedono invece l’intervento dello Stato – a me pare la maniera per riempire di contenuti concreti quella formula e quindi di saggiarne la validità.”
Da una intervista a Norberto Bobbio.
La nascita del socialismo liberale trova, a mio parere, la sua ragion d’essere nel rifiuto di due opposti regimi totalitari quali il fascismo ed il comunismo sovietico: dei due regimi si contesta l’intervento dall’alto di uno stato che limita e sopprime le libertà dei cittadini costretti a subire il comando di un potere centralizzato e negante spazi a diritti fondamentali insiti nella dignità umana. Del comunismo si critica anche il materialismo marxiano, accettando del socialismo la vocazione alla difesa dei più deboli ed emarginati attuabile con una politica che estenda i diritti sociali.
Nel mondo odierno ritengo vastamente accettata la concezione di uno stato che si astenga dall’intervenire nella limitazione o regolamentazione dei diritti di libertà, solo la destra oggi al governo, già dai suoi primi vagiti, esprime la propensione ad intervenire su questi diritti con affermazioni di principio e interventi legislativi che preannunciano uno stato etico di gentiliana memoria. Ma va pure notato che la destra al governo, quando preannuncia interventi nel campo dei diritti e delle libertà, si premura di assicurare che non c’è alcuna intenzione di abolire o cancellare, ma di meglio interpretare, quei principi che pur si mettono in discussione.
Dove i confini del socialismo liberale sono più indefiniti è nel campo dei diritti sociali, che non possono non rimandare ad un campo molto specifico, quello dell’economia, e quindi dei temi della produzione e della redistribuzione.
Alle origini si pensava ad un’economia mista, con imprese pubbliche, private e cooperative, che, senza misconoscere le regole del mercato, fornisca al potere pubblico e alle forze sociali i mezzi per la realizzazione degli obiettivi di interesse generale.
Si pensa alla pecora (il capitalismo) che va supportata e difesa per poterla meglio tosare agendo sulla redistribuzione, un sistema che troverà la sua piena formulazione teorica e pratica in quello che si chiama welfare state. Questo indirizzo politico ha prodotto riguardevoli risultati sia nel settore dei diritti sociali che nelle politiche redistributive, risultati che non possono essere negati e che hanno contrassegnato un preciso momento storico.
Nell’agosto del 1971 il governo statunitense, sganciando il dollaro dalla convertibilità in oro, ha dato inizio ad periodo di anarchia economica contraddistinta dal trasformazione del capitalismo da produttivo in finanziario. Da allora le crisi si sono succedute, nel nuovo secolo, nei primi venti anni, si sono già prodotte tre crisi (quella del 2007, quella pandemica e oggi quella energetica) di cui la prima ancora incombe sulle economie dei paesi e sugli equilibri internazionali. E quando queste crisi si abbattono sul mondo capitalista succedono due cose: il capitale chiede aiuto allo stato e lo stato si rifà sui contribuenti; il capitale riversa le sue difficoltà sui lavoratori. La crisi del 2007 è un esempio perfetto: il capitalismo in crisi ha chiesto l’aiuto allo stato (quindi lo stato che secondo i capitalisti dovrebbe essere estraneo all’iniziativa privata, quando serve deve diventare elemosiniere del capitale) lo stato si è indebitato, è stato attaccato dalla finanza che aveva elemosinato e ha accumulato un enorme debito, trasmettendo alle generazioni future i guasti creati dal capitalismo finanziario. Ma non basta la crisi del capitalismo finanziario si è travasato sul capitalismo produttivo (mancati investimenti e crollo della domanda) producendo fallimenti che hanno generato nel mondo occidentale 20 milioni di disoccupati.
La brutalità del capitalismo è lampante e rende problematica la strategia riformistica predicata da Turati e che aveva raggiunto il suo apice nel trentennio glorioso (1945-1975). Occorre riconoscere che la strategia riformistica del socialismo liberale è stata sbaragliata dal capitalismo imperante e che quindi rende problematico e discutibile il proposito di riprendere quella strada; basta guardare l’indice Gini e la conseguente curva di Lorenz per vedere i regressi nella distribuzione dei redditi (non parliamo di quella della ricchezza, mille volte più grave) e rimarcare la polarizzazione nella distribuzione dei redditi associata alla quasi scomparsa della piccola borghesia dei ceti medi. E ciò dovrebbe dirci qualcosa nel ricercare un parallelo con la crisi della piccola borghesia del primo dopoguerra che ha portato alla nascita del fascismo.
C’è quindi da chiedersi se nella situazione in cui ci troviamo sia ancora percorribile una via riformistica che agisce sovrastrutturalmente a livello redistributivo o non sia il caso di pensare ad una strategia che intacchi la struttura economica ritornando ad uno approccio materialistico marxiano che in sintesi ponga il problema dei mezzi di produzione.
Per rispondere a questa domanda vorrei esaminare alcuni punti essenziali per il nostro paese alfine di rendere più consapevole la risposta da dare (anticipo il fatto che sono partigiano a favore dell’opzione riformatrice versus quella riformista e ciò si noterà nell’esposizione dei punti che seguono.
1 – Economia
In questo momento storico dobbiamo renderci conto che il futuro dell’economia è basato sulla ricerca; l’avvento dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione schumpeteriana, dei calcolatori quantistici che risolvono in pochi secondi problemi che i più avanzati computers tradizionali impiegherebbero secoli, ci dicono che solo attraverso la ricerca si può impostare un domani nella divisione internazionale del lavoro. Ma la ricerca richiede molti capitali e presenta grossi rischi di insuccesso e quand’anche il successo fosse raggiunto lo sarebbe in tempi incompatibili con il payback del capitalismo privato (specie quello italiano) malato com’è di shortismo. Solo un programma impostato tra gli stati europei può offrire una base seria per una ricerca capace di tenerci in campo nella competizione mondiale. Solo lo stato può avere i capitali, il tempo e la capacità di affrontare questo problema. Non affrontarlo o lasciarlo ad una struttura industriale nazionale, miope com’è, significa destinarci all’emarginazione dai mercati internazionali e nazionale. L’inadeguatezza della struttura industriale nazionale si riscontra nel fatto che il capitalismo produttivo nazionale che pur si vanta di essere il solo a dover agire sul mercato, relegando lo stato ad elemosiniere nei tempi duri, tradendo l’asserita capacità di saper esso solo comportarsi sul mercato, nel momento ricardiano di scelta fra lavoro manuale e innovazione tecnologica sceglie di basarsi su un basso costo della mano d’opera accedendo all’innovazione solo nel momento in cui lo stato con i sussidi 4.0 di Calenda regala soldi a chi introduce la tecnologia nei processi produttivi. Per assurdo i soldi delle tasse pagate dai contribuenti sono regalati ad un capitale ozioso e inadempiente ai suoi compiti, per aumentarne la produttività (ferma da trent’anni) che in un primo approccio crea licenziamenti ai danni proprio di quei contribuenti che hanno finanziato l’innovazione.
Ma lo stato, avendo gli stessi risultati nell’economia aziendale, non potrebbe dare quei fondi non gratuitamente ma avendone in cambio azioni societarie delle imprese beneficiate? Non investirebbe i soldi dei contribuenti in cambio di azioni societarie che darebbero ai contribuenti gli stessi poteri che ha un privato che compera azioni?
2 – Sfruttamento
Lo sfruttamento nei classici marxiani consiste nel fatto che il frutto del lavoro prodotto per esempio nelle 8 ore va a pagare il lavoratore utilizzando il frutto del lavoro delle prime 5 ore mentre le ulteriori 3 ore sono appropriate dal capitale per generare il suo profitto. Ma Marx aveva già anticipato gli sviluppi di questo sfruttamento primario che tuttavia persiste peggiorando, presentando forme di lavoro quale quello precario e quello servile degli immigrati, Lo sfruttamento diciamo non più primario, ha uno sviluppo diffuso quando il capitale non si appropria più del solo lavoro fisico ma si appropria dei prodotti del lavoro intellettuale. Lo sfruttamento del cervello (il general intellect nei Grundrisse di Marx) come potenza fa impallidire lo sfruttamento del lavoro fisico raggiungendo l’apice nel momento in cui lo sfruttamento del lavoro intellettuale è utilizzato per produrre modi di produzione e macchinari intelligenti capaci di sostituire in modo sostanziale il lavoro umano. Non stiamo certo proponendo soluzioni luddistiche, stiamo solo sottolineando il fatto che il capitale sfrutta il lavoratore utilizzandolo per creare strumenti capaci di sostituire il lavoro umano con capitale fisso di proprietà del capitale.
Ma ci sono altre forme di sfruttamento: l’appropriazione del plusvalore tramite fiscalità è una di queste forme nuove di sfruttamento. E’ di estrema attualità il programma del governo Meloni di rinnovare, ampliandola, la flat tax. In poche parole con la flat tax, la pace fiscale, gli incentivi, i sussidi, i bonus e i superbonus si trasferisce ricchezza dal lavoro dipendente al capitale e ci si scaglia su quei pochi miliardi destinati al reddito di cittadinanza (con tutti i suoi limiti).
Ma lo sfruttamento più enorme consiste nel fatto che il plusvalore creato nel processo produttivo, processo cui indubbiamente hanno contribuito tutti i soggetti partecipanti al processo stesso, sia gestito in proprio ed esclusivamente dal capitale. Anzi il capitale, oltre ad essere il solo a decidere come investire il plus prodotto, viene favorito fiscalmente applicandogli una imposta flat e non un’imposta progressiva come invece viene applicata al redditi da lavoro e alle pensioni.
Lo sfruttamento sta dominando e tutte le riforme redistributive si dimostrano incapaci di tutelare una equa ripartizione del frutto del lavoro.
Se poi analizziamo il capitalismo finanziario concludiamo che quel capitalismo “non crea valore” ma lo sposta generalmente da outsiders a favore di insiders (capitalisti) con conseguenze spesso catastrofiche (come la crisi del 2008) che ricadono sul mondo del lavoro ed in particolare sui lavoratori e sulle loro famiglie.
3 – Robotizzazione
Se ne parla un po’ meno, stante la preminente attenzione sulla politica estera, ma è indubbio che il processo di robotizzazione della produzione sta portando e sempre più comporterà mutamenti strutturali nel modo di produzione. L’esercizio logico che propongo è: come si redistribuirà il prodotto quando i robot produrranno tutto e non sarà più richiesto il lavoro umano. Tutto quello che è prodotto oggi sarà prodotto dai robot senza alcuna ora di lavoro umano né fisico né intellettuale.
E’ indubbio che la redistribuzione sarà decisa dal proprietario dei robot, che destineranno tot robot a produrre quanto necessario affinché i non possessori di robot non si ribellino al quantum redistribuito (oggi la redistribuzione tende a mantenere e riprodurre la forza lavoro, domani la riproduzione potrebbe non essere più necessaria), e utilizzerà il restante e preponderante numero di robot a soddisfare i suoi bisogni e ad ampliare la sua capacità produttiva.
Ne discende che se il proprietario dei robot è il capitale ci troveremo di fronte a nuove forme di schiavismo; se invece la proprietà dei robot è socializzata si prospetta una nuova società. Ecco che allora l’intervento sulla struttura proprietaria si rende essenziale e l’intervento sovrastrutturale sulla redistribuzione diventa sempre più debole.
4 – Energia
Collegato al tema della robotizzazione c’è quello dell’energia; è l’energia che dà forza ai robot e permette loro di lavorare sostituendo il lavoro umano. In questi giorni ci rendiamo conto quanto il problema energetico sia fondamentale (anche se non è il solo) e di quanto sia stata carente tutta la gestione dei governi successivi al referendum sul nucleare. La scelta nucleare tendeva a renderci energeticamente indipendenti dall’estero, si erano programmate decine di centrali ma dopo il referendum le cinque centrali esistenti furono chiuse e, quel che è peggio, non si programmò nulla per sostituire quelle fonti, solo ora stiamo pensando a solare e eolico.
Ma quel che è peggio abbiamo privatizzato, anche se in parte sia Eni che Enel, due imprese fondamentali per la gestione del fattore energetico. L’Enel era stata nazionalizzata con il primo centro sinistra (quello che programmava e incideva sulla struttura), ma nella foga delle privatizzazioni ci siamo privati di due strumenti essenziali per la gestione energetica, contraddicendo in toto l’art. 43 della Costituzione, che recita:
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Ecco un altro caso in cui la filosofia riformistica basata sulla redistribuzione senza intaccare la proprietà dei mezzi di produzione pone interrogativi pressanti.
Se poi l’Europa costituisse un Ente unico dell’energia, volturando tutti i contratti a lungo termine stipulati con la Russia e presentandosi al mercato TTF con la potenza del monopsomista, e rivendendo l’energia al costo medio ponderato sostenuto, ecco che non servirebbero deboli price caps.
CONCLUSIONI
Il socialismo non richiede ulteriori aggettivi, esso è l’avvento della razionalità alla guida del paese; esso si pone in economia come programmatore basandosi sulla proprietà pubblica delle imprese strategiche ed indicando all’imprenditoria privata gli obiettivi da raggiungere per risolvere le equazioni della produzione non con la ottimizzazione della variabile profitto, ma con il calcolo scientifico permesso dai nuovi calcolatori quantistici.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.