di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |
A febbraio di quest’anno, l’ISTAT ci comunica che i lavoratori dipendenti sono 18.315.000, gli autonomi (liberi professionisti, artigiani, esercenti, operatori in proprio) sono 4.995.000 per un totale di occupati al lavoro di 23.310.000 unità lavorative, pari al 61,50% della popolazione in età di lavoro (15/64 anni l’età che ISTAT prende in esame).
Due punti percentuali in piu’ rispetto al 2019, ma questo tasso di attività lavorativa dell’Italia è fra i piu’ bassi nell’Unione Europea, 10 punti percentuali in meno rispetto alla media europea, ci collochiamo al penultimo posto in quanto ci supera in peggio solo la Grecia.
Ben 13 Paesi, prevalentemente nordici, ma anche qualcuno dell’Europa orientale già appartenente al Patto di Varsavia, registrano un tasso di attività tra il 77,8 % dei Paesi Bassi ed il 70 %di Cipro. Persino Paesi economicamente poveri come Bulgaria e Romania, con condizioni lavorative difficili, ci superano in questa classifica.
L’Italia è anche il Paese con le maggiori disparità tra le situazioni delle singole Regioni con le Regioni settentrionali ai primi posti e quelle meridionali agli ultimi. Si passa dal 67,5% del Nord-Est e dal 65,9 % del Nord-Ovest al 62,7 % del Centro Italia ed al 44.6 % del Mezzogiorno e 43,7 % delle Isole. La Campania è la regione europea con il piu’ basso tasso in assoluto di occupazione.
Il tasso di disoccupazione è sceso a fine 2022 (dati Istat) al 7,8 % non molto lontano dal tasso medio europeo, ma esso non è però l’unico indicatore della situazione lavorativa da prendere in esame per capire (e tentare di risolvere) determinate gravi contraddizioni che caratterizzano il nostro mercato del lavoro.
La disoccupazione riguarda solo la parte della popolazione considerata da ISTAT in età lavorativa che non ha un impiego ma che lo sta attivamente cercando o richiedendo.
Ma ci sono anche coloro che non lo cercano: sono certamente giustificabili quando si tratta di inabili, di non autosufficienti, di infermi e malati cronici ma vi sono anche coloro, che le statistiche chiamano gli inattivi, che potrebbero lavorare, ma non cercano un impiego e ciò non è affatto giustificabile.
La prima contraddizione è evidenziata da un importo studio dell’Università di Roma Tor Vergata che ci dice che a fronte di 18.315.000 lavoratori dipendenti e 4.995.000 c.d. autonomi (liberi professionisti, artigiani, esercenti, operatori in proprio, p.iva a progetto) vi sono (o si stimano) 3.600.000 unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (2,6 mln di dipendenti e 1 mln circa di autonomi) che compongono la piaga del “sommerso” che non appare, un lavoro spesso sottopagato, non continuativo perché spesso occasionale. Se esso, grazie ad una seria e continuata attività di controllo, di accertamento e di regolarizzazione, fosse in buona parte reso regolare aumenterebbe il tasso statistico della occupazione ma anche quello delle statistiche salariali, nelle quali appare che la retribuzione media italiana è anch’essa fra le piu’ basse d’Europa. Diciamo in buona parte perché sarebbe difficile “regolarizzare” certe attività “in nero” in quanto spesso illegali.
La seconda contraddizione risiede nel fatto, a cui Organizzazioni datoriali, l’Agenzia statale per le Politiche attive del lavoro, Centri per l’impiego ed il Ministero del Lavoro non sanno dare una risposta plausibile, che – a fronte di questa disastrosa situazione della occupazione – vi sono nel contempo continue richieste di personale da parte di imprese non solo nel settore industriale – in gran parte allocato al Nord – ma anche in edilizia, in agricoltura, nel commercio al dettaglio, nel turismo, nelle attività alberghiere e della ristorazione e dei pubblici esercizi, nei settori dell’assistenza alle persone e della collaborazione alle famiglie.
In questi settori spesso la domanda di lavoro delle aziende è parzialmente soddisfatta dalle disponibilità di impiego da parte degli immigrati. Perché altrettanta domanda non puo’ essere soddisfatta da una offerta di cittadini italiani, in particolare giovani e donne, settori nei quali la % di disoccupazione è piu’ alta della media?
Spesso si sente rispondere da commentatori e politici disattenti o non a conoscenza delle situazioni, che il problema risiede nella scarsa ed inefficace attività di formazione professionale. Ciò riguarda solo una piccola parte delle attività che prima sono state elencate perché nei settori sopra indicati sono prevalentemente presenti mansioni lavorative semplici che non richiedono particolari forme di addestramento professionale e tanto meno di preparazione tecnico-scientifica. E’ vero che aziende industriali sono alla incessante ricerca – in questa fase di ripresa produttiva – di tecnici, di operai specializzati e qualificati, di progettisti, di operatori informatici e di manutentori di macchine utensili sempre piu’ sofisticate, ma vi sono in numero largamente maggiore – in particolare in agricoltura e nel vasto e variegato mondo del terziario- richieste di personale generico e per mansioni che non richiedono particolari esperienze e conoscenze.
Certo, sappiamo bene che, spesso, detti lavori sono rifiutati a causa di un trattamento contrattuale poco soddisfacente, molte volte non in regola con il CCNL di settore. In particolare nelle piccole e microimprese sempre piu’ diffuse, questi lavori definiti “poveri” sono spesso sottopagati e non regolarmente inquadrati nella dovuta qualifica retributiva.
Controlli, verifiche e perseguimento delle violazioni sono compiti che dovrebbero impegnare gli Uffici pubblici preposti e i Sindacati anche per mettere fine ad una piaga rappresentata dalla presenza di organizzazioni padronali e sindacali “farlocche” che stabiliscono tra loro contratti di lavoro “pirati” con condizioni normative e salariali largamente inferiori a quelli negoziati dai sindacati storici confederali.
Appare perciò non più rinviabile una legge sulla rappresentanza e titolarità contrattuale (come vigente nel pubblico impiego) che potrebbe garantire ai contratti nazionali e di 2° livello sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative una loro validazione “erga omnes” in via di fatto se non di diritto.
Si registrano pure in determinati settori con una presenza sindacale debole lunghi ritardi temporali nel rinnovo dei CCNL e l’assenza di una contrattazione integrativa a livello aziendale o territoriale, come era stato previsto dal noto patto sociale del 23/7/1993 con il Governo Ciampi.
Il tutto concorre a realizzare una miscela di insoddisfazione profonda per una condizione lavorativa negativa che porta molti disoccupati a rifiutare l’offerta di lavoro, una situazione negativa che determina anche una concorrenza sleale da parte di imprenditori non virtuosi nei confronti di altre aziende rispettose delle regole e impegnate a ricercare le condizioni di competitività e di redditività con l’innovazione di prodotto e di processo e non con le violazioni contrattuali e/o fiscali/parafiscali e delle regole praticate dai primi a danno dei lavoratori.
La debole azione degli Uffici per l’impiego, i programmi (anche pubblici) non adeguati di formazione e di riqualificazione professionale, una insufficiente azione di incrociare domanda con l’offerta di lavoro, una situazione di difficoltà contrattuale e di violazione sistematica delle norme stesse in vari settori ed aziende rendono di grande attualità un nuovo patto sociale triangolare tra Governo centrale e poteri locali con le forze sociali del lavoro e d’impresa che punti ad affrontare le criticità prima evidenziate e che rimettano ordine ad un sistema di relazioni industriali destrutturato e che estenda in qualsiasi posto di lavoro – attraverso la contrattazione integrativa a livello interaziendale, di settore omogeneo, di distretto o di filiera le consolidate pratiche contrattuali normative e salariali in atto nelle medie e grandi aziende.
Un patto sociale che non può perciò fermarsi a livello nazionale, ma tradursi in tanti patti territoriali ove possono essere affrontati concretamente nel vivo delle realtà locali i vari aspetti riguardanti lo sviluppo della occupazione, di una buona occupazione, della regolarità dei trattamenti contrattuali, della produttività delle imprese favorita anche da processi di superamento della polverizzazione in una moltitudine di micro- imprese, dello sviluppo di servizi del territorio a sostegno delle aziende e delle famiglie dei lavoratori.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.