CONVEGNO REGIONALE SULL’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA


di Socialismo XXI – Regione UMBRIA|

UMBERTIDE (PG) 11 FEBBRAIO 2023

Coordina i lavori l’Avv. Cesare Carini.

Buongiorno e grazie a tutti per la partecipazione al convegno dedicato al disegno di legge, denominato disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a Statuto Ordinario.   

In primis, consentitemi di ringraziare le associazioni promotrici dell’evento, che vado sinteticamente a presentare.  

Socialismo XXI: associazione che si propone di divulgare la storia del socialismo italiano e che, oggi, è impegnata, unitamente ad altri soggetti ed organizzazioni, alla costituzione di un nuovo soggetto d’ispirazione socialista–ecologista a livello nazionale.   

Umbertide Partecipa: associazione che nasce come realtà civica nel 2017, partecipando alle elezioni comunali nel 2018, che ha continuato la sua iniziativa per una democrazia partecipata nell’interesse dell’intera comunità di Umbertide ed è attualmente impegnata, insieme ad altre forze del centro-sinistra, per la condivisione di un progetto, in vista delle prossime elezioni comunali.

Movimento delle Idee e del fare: associazione che unisce varie esperienze civiche e politiche, collocate nell’area riformista-progressista-ecologista, che ha promosso varie iniziative, con particolare riferimento ai temi della sostenibilità socio ambientale ed energetica.  

Circolo culturale Giorgio Casoli: associazione neocostituita intitolata a Giorgio Casoli, che si propone di ricordare la figura e del politico e giurista, già Sindaco di Perugia dal 1980 al 1987 e, al tempo stesso, di creare uno spazio aperto per la riflessione su temi e proposte d’interesse per i cittadini di Perugia e non solo. 

Passo ora a presentare i relatori:

Mauro Scarpellini, docente di materie giuridico-economiche e commercialista. Ha svolto numerosi incarichi nel corso della sua attività professionale, anche quale Sindaco e revisore di varie Società. È componente dell’Ufficio di Presidenza Nazionale di Socialismo XXI).  

Margherita Raveraira, Professoressa Ordinaria di Istituzioni di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Perugia. Oltre ad essere stata Preside della Facoltà di Scienze politiche ha svolto numerosi incarichi nazionali, quale ad esempio, responsabile Nazionale del progetto PRIN 2003.

Mauro Volpi, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, è stato Direttore del Dipartimento di Diritto Pubblico della Facoltà di Giurisprudenza di Perugia, nonché membro laico del CSM. È anche componente del Direttivo Nazionale del Coordinamento per la democrazia costituzionale.

Lucia Marinelli, insegnante, Segretaria Generale della Federazione UIL scuola Umbria.

A seguire, avremo alcuni interventi programmati.

Le conclusioni del convegno spetteranno ad Aldo Potenza.

Relazione del Prof. Mauro Scarpellini

PEGGIO DI COSI’ SAREBBE STATO DIFFICILE

Noi siamo contro lo sgretolamento dell’unità nazionale.

L’articolo 5 della Costituzione dice che “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.”  Leggiamo le parole “decentramento amministrativo”, non leggiamo “decentramento per realizzare uno Stato quasi federale”.

Non vado oltre sugli aspetti costituzionali perché lo faranno molto bene fra poco i miei Colleghi relatori subito dopo di me. Io vi trasferisco una ricostruzione storica,  osservazioni e considerazioni e non farò sconti ad alcuno.

I Presidenti delle Giunte regionali dell’Umbria e delle Marche, Catiuscia Marini e Luca Ceriscioli il 12 luglio 2018 scrissero insieme una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte iniziando il percorso istituzionale per una maggiore autonomia dal Governo centrale e dal Parlamento, seguendo l’articolo 116 della Costituzione, come modificato nel 2001 all’interno del Titolo V della stessa.

I due Presidenti si adagiarono su una possibilità astratta di sviluppo autonomo dovuto a nuove autonomie conseguibili.

Un po’ di storia occorre. La modifica del Titolo V della Costituzione fu votata da una maggioranza parlamentare nel 2001 composta da una coalizione di Ulivo, di Comunisti italiani, di Udeur. I partiti di centro-destra votarono contro perché erano all’opposizione ma, in effetti, vedevano legiferare un complesso di loro obiettivi che ora intendono realizzare avendo la maggioranza parlamentare.

Il Governo in carica era guidato da Giuliano Amato, allora indipendente scelto dai DS. Quella maggioranza parlamentare modificò la Legge Costituzionale n. 3/2001 [riforma Titolo V della Costituzione (artt. 114–132 Cost.)] perché voleva seguire e inseguire la Lega Nord sul federalismo e sull’autonomia, sperando in un recupero elettorale a danno della Lega. Le materie erano quelle che allora la Lega sosteneva invocando anche e soprattutto la secessione dall’Italia.

Insomma la Costituzione usata non affermare principi e valori ma per conquistare subito voti.

Era il periodo anche di spinte di poteri forti che sostenevano che in Europa gli Stati erano superati come dimensione adatta allo sviluppo e occorreva passare alle economie regionali sviluppate, quindi la Catalogna fuori dalla Spagna, la Lombardia fuori dall’Italia e così proseguendo, che sarebbero state felici isole di sviluppo integrate tra loro.

La maggioranza di allora fu rapita da questo contesto : inseguimento della Lega Nord e nuovo sviluppo neoliberista per aree e non per Stati.

L’aver fatto quelle modifiche con la maggiore autonomia possibile ad alcune Regioni a statuto ordinario può influenzare e modificare tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il godimento di alcuni fondamentali servizi pubblici nazionali, come, ad esempio, la scuola pubblica e la sanità in modo più evidente e grave.

Ci sono utilità e disutilità nel maggiore decentramento di funzioni verso le Regioni. Il decentramento può avvicinare il governo locale ai cittadini, favorendo il controllo della spesa da parte dei cittadini stessi, per cui gli amministratori eletti si dovrebbero sentire più attenti e responsabili nelle scelte e nelle decisioni; questo in teoria. Al contrario la distribuzione di competenze può creare diseconomie di scala; può determinare forme di iniquità fra cittadini nel godimento di servizi sociali essenziali e incentivare un fenomeno conosciutissimo, quello della mobilità dei cittadini per ricevere le prestazioni sanitarie. Conosciamo bene il fenomeno dei pazienti che da determinate Regioni vanno a farsi curare in altre.

Le Province di Bolzano e Trento e le Regioni Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia hanno una media dei livelli pro-capite di spesa pubblica corrente ed in conto capitale che sono nettamente superiori alla media nazionale per il finanziamento di favore che hanno queste Regioni. E’ ciò ha fatto nascere un altro fenomeno poco conosciuto, la richiesta di trasferimento di Comuni da una Regione ad un’altra.

Il Comune di Sappada ha ottenuto di passare dal Veneto al Friuli Venezia Giulia nel 2017 per star meglio, proprio perché quest’ultima Regione è a statuto speciale e gode di trattamenti che non ha la confinante Regione Veneto a statuto ordinario ed è rimasto anche nella Comunità montana precedente, quella del Cadore. I Comuni di Cortina d’Ampezzo, di Livinallongo del Col di Lana e di Colle Santa Lucia – tutti in provincia di Belluno –  iniziarono a chiedere di passare dal Veneto alla Provincia autonoma di Bolzano nel 2007 e nel settembre scorso – visti i sondaggi elettorali nazionali che preannunciavano la vittoria della coalizione nazionale di destra – hanno rilanciato la richiesta sostenuta peraltro da un referendum consultivo locale, ovviamente favorevole, fatto nel 2007. Quei Comuni hanno già nominato i loro rappresentanti nel comitato referendario che sostiene il passaggio alla Provincia autonoma di Bolzano. Non vogliono perder tempo. Questi fatti avvengono se c’è differenziazione regionale ed è la prova che non volere la differenziazione è un atto di responsabilità.

 La riforma costituzionale del 2001 ha ridotto la differenza fra le competenze delle Regioni a statuto speciale e ordinario; le disparità nelle modalità di finanziamento di queste Regioni permangono. La riforma del 2001 prevede che possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario ulteriori competenze in 23 materie elencate all’articolo 117 della Costituzione; alcune sono perfino fra quelle di esclusiva potestà statale. Sulle 23 materie – cosiddette della potestà legislativa concorrente – vi riferisco, per ragioni di tempo, solo tre voci per esemplificare l’incongruenza di quel che hanno fatto con quell’elenco. Tutela e sicurezza del lavoro : si potranno raggiungere condizioni di tutela e di prevenzione da malattie professionali e da infortuni diverse da Regione a Regione. Non so cosa accadrebbe al cittadino se cambiasse residenza regionale. Istruzione : non so immaginare cosa potrà generare il pluralismo educativo regionale; ci torno fra poco e meglio di me ne parlerà la professoressa Lucia Marinelli. Previdenza complementare e integrativa : sono tipici strumenti dello stato sociale di una comunità nazionale che diventerebbero strumenti di differenziazione, di vantaggio o svantaggio, di disuguaglianza sociale ed economica solo in base alla residenza dei cittadini senza, peraltro, la garanzia di possedere i requisiti demografico-attuariali tecnicamente indispensabili per l’equilibrio di lungo periodo dei fondi pensione relativi. La Regione Umbria, nella sua risoluzione del 19 giugno 2018 del Consiglio regionale, unanime, specifica : “si richiede di garantire alla Regione la facoltà di promuovere e finanziare nel proprio territorio forme di previdenza complementare e integrativa.“ Cioè ha chiesto di pagare i contributi per le pensioni integrative e complementari. Un richiesta espressa in questo modo conferma che si è deliberato senza la conoscenza tecnico-scientifica delle condizioni demografico-attuariali che reggono la sostenibilità di un fondo pensione nel lungo periodo.

Bastano questi tre esempi per riclassificare i cittadini italiani secondo la loro residenza. E non ho portato l’esempio della sanità.

Il 28.2.2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il Governo Gentiloni, per tramite del Sottosegretario di Stato Gianclaudio Bressa (di Belluno; appartenente al gruppo parlamentare del PD) concluse la stesura con ciascuna delle tre Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, di una Pre-Intesa. Si ripeté l’insipienza del 2001 a pochi giorni prima delle elezioni, come allora, per seguire e inseguire la Lega Nord sul suo terreno. Le tre Pre-intese sono di struttura simile. Prevedono il trasferimento di competenze, una durata decennale e la modificabilità solo di comune accordo tra Governo nazionale e singola Regione. Per quanto attiene alle risorse stabiliscono che esse andranno determinate da un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione, sulla base “di fabbisogni standard, che dovranno essere determinati entro un anno dall’approvazione dell’Intesa e che progressivamente, entro cinque anni, dovranno diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi”. Stabiliscono anche, senza meglio specificare, che “Stato e Regione, al fine di consentire una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti, potranno determinare congiuntamente modalità per assegnare, anche mediante forme di crediti d’imposta, risorse da attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del Paese”.

Su questi fondi assegnabili fate attenzione al verbo assegnare. La Costituzione della nostra Repubblica, in vigore dall’1.1.1948, all’art. 119 stabiliva: <<Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali>>. Questa norma fu abolita nel 2001 quando furono introdotti il federalismo e l’autonomia differenziata per le Regioni. Il Mezzogiorno non c’è più nella Costituzione e c’è la nuova possibilità di assegnare fondi attinti da quelli nazionali ma alle Regioni firmatarie dell’autonomia differenziata e non più al Mezzogiorno. Il verbo assegnare è rimasto; sono cambiati i beneficiari perché nel 2001 si abbandonò l’impostazione dell’aiuto alla crescita alle aree sottosviluppate per potenziare le aree già più sviluppate secondo la nuova visione di separazione che ho già riferito.

E’ chiaro chi ci guadagna e chi ci perde ?

Alla fine del 2018 – durante il primo governo Conte – il processo di richiesta di ulteriori competenze ha visto un attivismo emulatorio dei Presidenti delle Regioni e il Presidente della Conferenza Stato-Regioni, il Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini, non ha tentato alcuna iniziativa di ripensamento ma ha sposato pienamente l’impostazione che sto criticando.

Nell’accordo preliminare da lui firmato quale Presidente della Regione Emilia Romagna il 28 febbraio 2018 col Governo Gentiloni è scritto, tra l’altro, all’art. 4, che le modalità di attribuzione di risorse finanziarie alla Regione Emilia Romagna saranno determinate “in termini : a) di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale … … “ e per la sanità ha concordato : “Art. 3. … … 2. La Regione assicura che il sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione si applichi solo agli assistiti residenti nella Regione.”

Se un umbro avesse bisogno di una prestazione sanitaria improvvisa o non improvvisa in Emilia Romagna quale tariffa gli vedrebbe applicata non essendo residente ? Come ha interpretato nel 2018 i livelli essenziali di prestazioni il Presidente Bonaccini ? Mi pare con lettura regionale. E’ scritto.

Richieste e proposte sono state presentate nel tempo oltre che da Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna anche da Piemonte, Liguria, Toscana, Marche e Umbria; mozioni e ordini del giorno sono stati assunti dai Presidenti di Lazio, Campania, Basilicata e Puglia.

Nella legislatura 2018-2022, la delega governativa su questa materia del Presidente Consiglio Giuseppe Conte fu attribuita alla Ministra Erika Stefani (vicentina, della Lega Nord). Nell’attuale Governo è attribuita a Roberto Calderoli, senatore bergamasco della Lega Nord, estensore della legge elettorale che lui definì “porcellum”, bocciata poi dalla Corte Costituzionale. La Ministra Stefani preparò le bozze. Il Consiglio dei Ministri del 21.12.2018 – bicolore Movimento 5 stelle e Lega Nord – presieduto dall’Avvocato Giuseppe Conte, annunciò la firma delle Intese da sottoporre successivamente al voto parlamentare. L’iter non si concluse e poi intervenne la crisi di Governo in agosto.

Nel Governo del 2001 oltre il Presidente Giuliano Amato erano Sergio Mattarella, Enrico Letta e Dario Franceschini per la Margherita, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani, Domenico Minniti e Franco Bassanini per i DS, Ottaviano Del Turco e Gianfranco Schietroma per lo SDI, Alfonso Pecoraro Scanio e Carla Rocchi per i Verdi.  Tutti allineati. Possiamo restare abbastanza preoccupati.

Al tempo del Governo Gentiloni, firmatario degli accordi con tre Regioni, il Coordinatore del 5 stelle era Di Maio, Grillo era l’eccelso e Segretario del PD era Matteo Renzi.

Ho esaminato i programmi elettorali presentati per le elezioni politiche di settembre scorso dai partiti dell’attuale opposizione e su questo punto si nota la non consapevolezza delle conseguenze possibili. Ripetono tutti la stessa frase presa da una legge del 2017, senza riflessioni conseguenti né analisi critiche, cioè che è necessario definire i livelli essenziali delle prestazioni.

Riferendosi alla modifica costituzionale del 2001 Giuliano Amato si giustificò puerilmente così nel 2014 : «Quando questo accadde, il centrosinistra si era dotato di un leader, candidandolo come candidato alle successive elezioni, e questo leader non era il presidente del Consiglio in carica». Non era lui, Amato, ma era Francesco Rutelli il leader designato. Aggiungo : Rutelli, colui che in precedenti elezioni comunali di Roma aveva promosso una lista che la stampa romana definì lista “beatiful”.

Ancora Amato :«il nuovo leader della coalizione ritenne che per galvanizzare la maggioranza in vista delle elezioni fosse necessario portarla ad un successo parlamentare contro l’opposizione, e così spinse perché il titolo V venisse approvato, e venisse approvato dalla maggioranza contro l’opposizione. La nostra opinione di governo non era favorevole a questo». La maggioranza modificò la Costituzione con due voti di scarto al Senato; ricordo bene quella fase politica e non ci fu alcuna galvanizzazione popolare; Rutelli non vinse le elezioni; non è una giustificazione accettabile quella che la tattica politica di un candidato surroghi le responsabilità istituzionali e politiche del Governo in carica e il Governo non faccia il Governo. 

Approfondiamo un punto veramente critico. Cosa vuol dire che per il “superamento della spesa storica” i termini di riferimento sono la “popolazione residente e il gettito dei tributi maturato nel territorio regionale” ? Vuol dire che il Veneto, per fare un solo esempio, come da sua delibera preparatoria del novembre 2017, si terrebbe il 90 % delle risorse fiscali riscosse. Ciò ridurrebbe inevitabilmente, matematicamente, le risorse gestite dallo Stato e dalle altre Regioni e chiedetevi lo Stato nazionale chi lo regge, perché si riduce il contributo fiscale dei contribuenti delle Regioni più autonome al bilancio dello Stato. Lo Stato ridurrà tutte le spese comprimibili e cioè la spesa sanitaria, la spesa per l’istruzione, la spesa per i trasporti pubblici, la spesa per l’assistenza e via di seguito attingendo dalle entrate centrali ridotte di molto.

Che fine fa il principio costituzionale di eguaglianza fra tutti i cittadini italiani, indipendentemente dalla loro residenza ?

Con le iniziative sull’autonomia differenziata si concretizza la “secessione dei ricchi”, come è stata puntualmente definita.

Le risorse finanziarie nazionali da trasferire per le nuove competenze saranno parametrate, dopo un primo anno di transizione, a fabbisogni standard calcolati tenendo conto anche del gettito fiscale regionale, come prima detto. E’ scritto nelle Pre-intese che il livello dei servizi può solo migliorare per quelle Regioni.

Il gettito fiscale non è stato mai alla base dei calcoli dei fabbisogni standard perché il collegamento dev’essere con la demografia del territorio e con le caratteristiche del territorio stesso. Il collegamento col gettito fiscale prestabilisce che i servizi per la salute e per l’istruzione in Umbria, ma non solo qui, saranno più bassi che in Veneto, per esempio, perché più basso è il reddito medio pro-capite dei residenti umbri e più basso il gettito fiscale.

Salta il principio di uguaglianza dei cittadini, contrariamente alla Costituzione.

I costi standard vanno definiti in altro modo, peraltro non facile, e devono derivare da scelte politiche conosciute dai cittadini. Invece cosa dicono le Pre-intese firmate dal Presidente Gentiloni ?

Dicono che i criteri saranno stabiliti da una commissione paritetica tecnica fra Stato e ogni Regione. Ogni Regione porterà i propri dati, da essa stessa elaborati, e si avranno criteri difformi da Regione a Regione cui seguirà l’alterazione dell’ uguaglianza dei cittadini.

Un altro punto. La Costituzione prevede all’articolo 117.II.m che lo Stato abbia l’onere della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP, e che sia mantenuta “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Ciò è per garantire a tutti gli italiani il godimento degli stessi diritti di cittadinanza.

I livelli essenziali delle prestazioni sono riportati nella legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale. La loro determinazione non è però mai stata fatta, dal 2001 ad oggi. Nessun partito e movimento politico si è preoccupato di spiegare l’importanza e la portata di questa omissione, né di proporre iniziative per la loro determinazione. La quantificazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali, tutti da identificare, deve essere preliminare a quella dei fabbisogni standard per i servizi pubblici, altrimenti non ci sarebbe la garanzia dei diritti di cittadinanza per tutti. I diritti civili definiti essenziali mi lasciano sorpreso; cosa vuol dire essenziali ? Non possono esserci differenza tra cittadini sul godimento di diritti costituzionali quindi l’individuarli non può essere relazionato ad una differenziazione.

Invece è necessario garantire livelli uniformi di prestazione, non solo con una elencazione, ma con la sostanza, il contenuto, perché se il diritto non è fruibile per mancanza delle risorse necessarie il diritto non c’é.

Il Movimento 5 Stelle, che ha presieduto due governi nazionali, non ha preso alcuna iniziativa su questo punto. Nel programma elettorale di settembre scorso ha scritto, a pag. 202, la frase che hanno scritto tutti e prosegue: “ Dovrà comunque essere il Parlamento a definire le regole d’ingaggio con una legge quadro che tenga in massima considerazione le varie commissioni parlamentari coinvolte.” Tenere in massima considerazione le varie commissioni non si capisce cosa voglia dire. L’argomento è apparso troppo complicato per essere sviscerato compiutamente da quel Movimento nel proprio programma elettorale.

I livelli essenziali delle prestazioni – e non livelli di prestazioni uniformi – non è detto che sarebbero garantiti ai cittadini delle Regioni meno autonome. La ragione è che le coperture in bilancio non sono garantite, perché l’articolo 81 della Costituzione obbliga il pareggio del bilancio e, quindi, la riduzione di stanziamenti a servizi pubblici sarebbe possibile mentre, contemporaneamente, per le Regioni differenziate sono “fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi”, come è già scritto nelle Pre-intese. Qui si capisce bene la differenza tra fare un elenco di prestazioni e garantire la sostanza delle prestazioni in modo uniforme.

Ancora, non so immaginare lo scenario davanti alla Corte Costituzionale che, chiamata a decidere su diritti, su situazioni di conflitto tra istituzioni, sullo stesso oggetto darebbe ragione allo Stato se il conflitto fosse con la Regione Umbria o Marche o Lazio o Calabria; darebbe ragione – invece – alla Regione se il conflitto fosse con la Regione che ha l’autonomia più ampia come Lombardia, Emilia – Romagna, Veneto o altra ancora. O Viceversa. Un disordine parafederale ? Non so come definirlo.

Le Pre-intese del Governo Gentiloni prevedono altre garanzie alle Regioni differenziate. Esse stabiliscono che per dieci anni non sarà possibile far modifiche. Non sarà possibile il referendum abrogativo. Ci torno dopo.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 69/2016, ha affermato che “il parametro del residuo fiscale non può essere considerato un criterio specificativo dei precetti contenuti nell’articolo 119 della Costituzione”. Dice la Corte che il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo.

Però il Governo va avanti. Le richieste di autonomia differenziata di Lombardia e Veneto riguardano tutte le 23 materie previste dall’art. 116.III: è una sostanziale riscrittura dell’articolo 117 della Costituzione.

Vi riferisco due pareri in materia di sanità. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici ritiene che queste richieste “non faranno che aumentare le disuguaglianze nella qualità delle prestazioni e negli accessi alle cure”.

La Fondazione Gimbe ritiene che “le ulteriori autonomie concesse dal regionalismo differenziato da un lato indeboliranno le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, dall’altro accentueranno iniquità e diseguaglianze disgregando definitivamente l’universalismo del SSN”. Tuttavia i recenti governi a guida PD e 5 stelle sono stati inattivi e non vado oltre.

Riferisco il giudizio dello studio della autorevole SVIMEZ, firmato dal suo Presidente, il Prof. Adriano Giannola e dal professor Gaetano Stornaiuolo della Federico II di Napoli, pubblicato nel 2018. Nell’analisi compiuta si manifestano “molte perplessità sulle modalità di finanziamento dell’autonomia differenziata: la pretesa di trattenere il gettito fiscale generato sui territori è infondata, inconsistente e pericolosa.”Secondo lo studio SVIMEZ l’autonomia differenziata è “da promuovere se è adeguatamente motivata e se aumenta l’efficacia e l’efficienza nell’uso delle risorse, senza compromettere il requisito di solidarietà nazionale”.

Le richieste di autonomia avanzate dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, cui faranno seguito a ruota altre regioni del Nord, “in assenza di riforme costituzionali”, potrebbero innescare un percorso verso un sistema confederale, nel quale alcune Regioni si fanno Stato, cristallizzando diritti di cittadinanza diversi in aree del Paese differenti” mettendo così a rischio l’unità nazionale. Così scrive lo SVIMEZ.

Il Presidente di Confindustria Bonomi riconosce esplicitamente che quando Confindustria ragionò sull’autonomia regionale differenziata 22 anni fa, c’era un mondo diverso e che oggi non si deve dividere l’Italia, che abbiamo bisogno di una dimensione europea e che la soluzione non è un sistema regionale, basti pensare alle infrastrutture e alle opere pubbliche.

Sull’istruzione. Quale situazione si configurerà per i concorsi di personale docente e non docente ? Quali saranno i programmi d’insegnamento? Quanto sono stati tenuti in considerazione gli avvertimenti dati dai sindacati dei docenti due anni/tre anni fa al governo PD-5Stelle e al governo Draghi ?

I cinque sindacati del settore dell’istruzione hanno diffuso questa valutazione : “Tale progetto, invece di consolidare il carattere unitario e nazionale, ad esempio del sistema pubblico di istruzione, rafforzando la capacità di risposta dello Stato di cui si è avvertita l’estrema necessità durante la recente pandemia, ripropone un’ulteriore frammentazione degli interventi indebolendo l’unità del Paese, col rischio di aumentare le disuguaglianze senza garantire la tutela dei diritti per tutti i cittadini e ampliando i divari territoriali”.

Il PD cerca di mettere una piccola pezza nel programma elettorale del settembre scorso. Vi scrive “Sono comunque esclusi dalla differenziazione delle competenze regionali i grandi pilastri della cittadinanza, a partire dall’istruzione … “ eccetera. Il Presidente Bonaccini ora è più attento con le parole – ma lo scritto rimane – e il Sindaco della sua città Merola è invece su posizioni del tutto responsabili.

Intanto 18 deputati leghisti hanno già presentato in ottobre scorso una proposta di legge per l’insegnamento della lingua veneta nelle scuole, a partire dall’età dell’infanzia, e il suo uso in radio e televisione. Il Ministro dell’istruzione Valditara ha fatto da sponda facendo sperare agli insegnanti delle grandi città che con la differenziazione potrebbero guadagnare di più. E’ l’azione di sgretolamento dell’unità nazionale, dell’attacco ai contratti nazionali collettivi di lavoro.

Insomma l’intera operazione dell’autonomia differenziata determina diversi diritti di cittadinanza in base alla residenza. Rompe la parità fra i cittadini. Rompe i servizi essenziali nazionali. Rompe l’unità nazionale. 

Riassumo e concludo su alcuni punti di massima gravità coi seguenti sette.

Primo punto. Grave è la modalità di finanziamento delle materie trasferite alle Regioni. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna sono le prime tre nella graduatoria del reddito medio pro-capite. Quindi si ridurrà quasi del tutto il loro apporto al finanziamento del bilancio nazionale. Per mantenere i livelli delle attività statali dovranno contribuire le altre Regioni, riducendo le loro prestazioni ai cittadini e/o si ridurranno direttamente le prestazioni attinte dal bilancio statale impoverito.

E’ la concretizzazione della “secessione dei ricchi”. Il collegamento col gettito fiscale deforma l’impianto costituzionale e lo modifica introducendo discriminazioni a favore e contro. Il Consiglio dei Ministri il 2 febbraio ha approvato il disegno di legge. Introduce all’articolo 1 “la distribuzione delle competenze che meglio si conformi ai principi di sussidiarietà e differenziazione” . Quindi la differenziazione ha dei principi e questo illumina su come questa maggioranza politica legge i livelli essenziali delle prestazioni, cioè un elenco uguale per tutti ma non uniformità. di godimento delle prestazioni, dall’elettrocardiogramma al pronto soccorso, dall’asilo nido ai tipi di scuole e così di seguito.

I livelli essenziali delle prestazioni saranno decisi con decreto del Presidente del Consiglio, dice l’articolo 3.

Poi c’è l’articolo 9 che con linguaggio farisaico descrive il percorso che lo Stato deve fare per garantire i livelli essenziali delle prestazioni alle Regioni che non hanno ampie autonomie – come l’Umbria, sicuramente – “previa ricognizione delle risorse allo scopo destinabili” che lo Stato vedrà ridotte  di 80/90 miliardi di euro e potrà coprire le prestazioni con una coperta intuitivamente cortissima., più corta di molto di quella odierna.  

Anziché il gettito fiscale sarebbe indispensabile la diretta connessione con una specificità territoriale, considerata requisito necessario per il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia. Per esempio, poiché l’Italia ha il proprio territorio per il 53% montano, questa specificità è fonte di problematiche – peraltro conosciute anche nel 2001 – sui servizi di trasporto, sulla viabilità, sulle manutenzioni stradali ed altro, la cui risoluzione è d’interesse nazionale non regionale e a prescindere dal gettito fiscale regionale. 

Secondo punto di gravità. E’ proprio l’elenco delle 23 materie della legislazione concorrente. C’è di tutto. Invece, in alternativa, sarebbe necessario e sufficiente rivedere la legge Bassanini sulle autonomie e far realizzare molti miglioramenti funzionali con legge ordinaria e con un’ intelligente strutturazione diversa di procedure e assetti burocratici, senza rompere l’unità del Paese. Non è più possibile, quale unica soluzione; quindi le materie delegate devono avere il significato del miglioramento gestionale non una sorta di federalismo pasticciato e mascherato.

Il terzo punto di gravità riguarda la prevista competenza di commissioni tecniche bilaterali che si sostituiscono alla determinazione politica e parlamentare.

Il quarto punto grave è che le Pre-intese riducono la funzione del Parlamento ad una mera presa d’atto dell’accordo tra il Governo ed una Regione. Ciò esautora il Parlamento e conferisce alla Regione un potere straordinario; essa avvia la richiesta di autonomia, indica le materie, porta nella commissione tecnica paritetica i dati che vuole perché li elabora e li controlla, firma un’intesa non modificabile senza il proprio consenso. La sua firma dell’accordo rende non sindacabile l’accordo stesso da parte del Parlamento.

Il quinto punto di gravità è lo sgretolamento della sanità nazionale e dell’istruzione quali servizi nazionali; così si consegue un’analogia con molti sistemi liberisti nei quali è tutto o quasi tutto privato e solo chi può ne usufruisce a pagamento.

Il sesto punto di gravità è l’assenza di forme di controllo degli effetti delle spese che le Regioni realizzeranno per le materie delegate. Ciò è nella logica della totale non considerazione di programmazioni, di crescite equilibrate, di spinte allo sviluppo generale. Mancano solo le zone franche fiscali per completare un’arlecchinata anche se parlamentari leghisti le hanno già chieste negli anni passati, coerentemente con il loro disegno dissolutorio. (Ho ascoltato l’ex ministro leghista Centinaio, che sosteneva a suo tempo la secessione del nord dall’Italia, dire pochi giorni fa che la differenziazione rafforza l’unità nazionale. Non ho parole adatte per commentare queste bugie).

Il settimo punto di gravità è rappresentato dalla esclusione del referendum abrogativo perché la costruzione fino ad ora fatta prevede una legge cosiddetta rinforzata che lo esclude. Non va bene.

Non è difficile pensare che ci saranno ricadute negative sull’operatività delle Province e dei Comuni in molti servizi alla persona di loro competenza ma anche per altre materie nei Comuni al confine della Regione e non solo a quelli.

Siamo favorevoli alle proposte dell’ Associazione denominata “Coordinamento Democrazia Costituzionale” per un disegno di legge popolare che intervenga sulle parti peggiori della modifica del Titolo V della Costituzione e invito a firmarla. Cerca di porre alcuni rimedi su alcune materie che debbono essere sottoposte solo a leggi nazionali e occorre anche e comunque una clausola di supremazia della legge nazionale su leggi regionali perché l’Italia non dev’essere trasformata in una imitazione abborracciata degli Stati Uniti d’America o della Repubblica Federale tedesca. 

Questa è la sintesi. Non ho toccato tutti gli aspetti costituzionali, né ho parlato della legge elettorale, né del presidenzialismo connesso a questo disegno e per il quale a breve verrà presentata dalla destra la proposta di legge. Questa sintesi già basta per essere preoccupati ed indignati.

Grazie per la vostra attenzione.

Relazione della Professoressa Margherita Raveraira

Federalismo e autonomia regionale differenziata

Prima di affrontare lo specifico tema del regionalismo differenziato, divenuto negli ultimi anni di grande attualità, mi sembra necessario svolgere alcune brevi, generali considerazioni sull’evoluzione che il concetto di autonomia ha avuto in Italia e nella maggior parte dei Paesi dell’Ue. Considerazioni che prendono lo spunto sia da precise norme costituzionali, come interpretate dalla Corte costituzionale, sia dalle disposizioni dell’Unione Europea disseminate tra la Carta europea dell’ autonomia locale del 15 ottobre 1985 e i Trattati Ue.

La prima considerazione è che, specie a livello europeo, la distribuzione dei poteri pubblici tra più livelli territoriali all’insegna del principio di sussidiarietà sta assumendo particolari caratteristiche. Non solo è emersa, a livello dottrinario, una tendenza a rinvenire diversi tipi di pluralismo multilivello, denominati regionali, autonomici, parafederali, decentrati, ecc., ma sono stati gli stessi Stati, confortati il più delle volte dalle rispettive Corti costituzionali, a mutare i loro stessi caratteri. La distinzione tra federalismi duali e competitivi, da una parte, e federalismi cooperativi dall’altra parte si è venuta via via stemperando fino ad abbandonare la tradizionale metafora che assimilava lo stato federale classico ad una layer cake, e cioè ad una torta multistrato, in cui ogni livello di governo, poteri, responsabilità, risorse rimane distinto e separato dagli altri, e a dare spazio, in alternativa, all’immagine della marble cake, di una torta, cioè, in cui gli strati si amalgamano in varie forme.

Il maggiore effetto di ciò è stato il progressivo cambiamento dei tratti fondamentali del concetto stesso di autonomia, nel senso di un passaggio dalla nozione classica di autonomia come autosufficienza e come conseguente riparo dalle ingerenze di altri poteri ad un’altra nozione che, nell’ottica della sussidiarietà, esalta la fase della partecipazione e del coordinamento tra i diversi livelli e innesta in modo più completo la tutela degli interessi locali all’interno della forma di Stato unitario.

Nel nostro Paese l’illustrata metamorfosi della nozione di autonomia è anche frutto della, modifica, avvenuta nel 2001, del titolo V, parte II della Costituzione e, in particolare, dell’introduzione del nuovo testo dell’art. 117, attraverso il quale si è dato un contenuto al principio di sussidiarietà verticale individuando le competenze esclusive dello Stato (c.2), quelle residuali delle regioni (c. 4), quelle concorrenti per le quali spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (c. 3).

È opportuno ricordare peraltro brevemente, prima di entrare nel merito della questione del regionalismo differenziato, come, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, fossero stati predisposti gli Statuti di quattro Regioni speciali (Valle d’Aosta, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Sardegna) e come tale decisione, rappresentando una novità assoluta, avrebbe potuto influenzare notevolmente il Costituente, verso un afflato di tipo federale duale. Comunque, pur prevedendo tali Regioni nella Costituzione in considerazione di specifiche ragioni storiche, geografiche, linguistiche, nell’ambito dell’Assemblea Costituente fu pregiudizialmente esclusa, nonostante qualche orientamento in senso favorevole, qualsiasi ipotesi di federalismo, pur anco connesso alla specialità delle Regioni nominate, poiché secondo le forze politiche maggioritarie il federalismo avrebbe compromesso il principio fondante del sistema repubblicano voluto dal Costituente ed espresso dall’art. 5 Cost.. Principio il quale, è appena il caso di menzionarlo, afferma l’unità e la indivisibilità della Repubblica, nel cui solo ambito si riconoscono e promuovono le autonomie locali.

Esclusa la soluzione federale, si scontrarono due diverse visioni delle Regioni, Regioni dotate soltanto di “autonomia amministrativa” e Regioni dotate invece anche di potestà legislativa nonché statutaria, controversia che, nella ricerca di un punto di mediazione, portò all’approvazione di un nuovo articolato con una ripartizione “molto elastica” fra la competenza legislativa statale e regionale.

Ad una concezione di autonomia di tipo federale che si proietta verso una partecipazione collaborativa a procedimenti che fanno capo ad istituzioni di livello superiore ha fatto riferimento la giurisprudenza costituzionale italiana quando è stata chiamata ad applicare gli artt. 117 e 118 Cost.

In tale sede la Consulta ha affermato, infatti, che l’autonomia non è definita da contenuti concreti costituzionalmente predeterminati, ma “deve essere intesa come un diritto della comunità locale a partecipare, attraverso i propri organi, al governo e all’amministrazione di quanto assunto al riguardo” .Il che presuppone, evidentemente, una regola di modulazione, in termini di sussidiarietà, tra nucleo delle competenze proprie della comunità autonoma e incidenza di una partecipazione a decisioni di livello superiore. Nella fondamentale sentenza n. 303 del 2003, il giudice italiano delle leggi ribadisce, in particolare, che “le relazioni tra Stato e regioni sono rette dal fondamentale principio di leale collaborazione, che richiede una composizione dialettica fra esigenze di interventi unitari ed esigenze di garanzia per l’autonomia e la responsabilità politica delle Regioni”.

Per lo stesso giudice, “in caso di coinvolgimento, sovrapposizione o interferenza tra competenze e interessi di diversi livelli” si impone ad entrambe le parti l’obbligo di “sostenere un dialogo, di tenere un comportamento collaborativo volto al perseguimento di un’intesa”. Deve dirsi, però, che questo positivo orientamento nel senso della collaborazione non ha avuto finora una sufficiente, più articolata e organica attuazione da parte del legislatore ordinario. In controtendenza con la maggior parte degli altri Paesi membri dell’Ue, esso è stato costretto ad operare in un quadro debole, segnato in particolare dalla mancanza di inclusione delle autonomie territoriali nel Parlamento nazionale tramite una “Camera delle autonomie”, Camere esistenti nella maggior parte dei Paesi europei anche diversi dagli Stati classicamente considerati federali.

Per quanto diversamente organizzate e denominate esse sono connotate dal dato comune secondo cui i soggetti che rappresentano i territori debbono essere in grado di incidere sulle scelte legislative che inevitabilmente si riverberano sulle loro comunità. È evidente che la mancanza in Italia di una Camera delle autonomie ha costretto la Corte costituzionale ad effettuare spesso un’operazione di supplenza interpretativa che l’ha portata, oltre che a guardare con favore alle previsioni legislative di meccanismi di predeterminazione pattizia tra Stato e regioni, anche ad affermare sempre più spesso, in via generale e di principio, che la leale collaborazione va ricostruita “valorizzando le Intese e le Conferenze Stato-autonomie, almeno finché (parole della stessa Corte) “perdura l’assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari”.

Ciononostante la netta impressione che si ha è che, nell’assenza di una Camera delle autonomie, il dibattito finora sviluppato sia stato incapace di produrre reali cambiamenti legislativi nella direzione di un rilancio di quel processo federalista di tipo cooperativo che si sarebbe potuto e dovuto immaginare alla base delle intenzionalità del legislatore in riferimento alla, invero pessima, riforma del 2001 del Titolo V Cost. Che invece, anche a causa del complesso e non lineare quadro delle competenze esclusive e concorrenti attribuite a Stato e regioni dall’art. 117, si è prodotta una forte conflittualità, con la conseguente esplosione del contenzioso costituzionale e un pervasivo ristagno dell’azione, amministrativa e politica, di coordinamento e collaborazione.

Ciò sinteticamente premesso ed incentrando l’attenzione sull’autonomia differenziata di cui al c. 3 dell’art. 116 Cost., è il caso di sottolineare come, stante quanto sopra, il suo inserimento nel nuovo Titolo V fu un’evidente forzatura dettata, si è detto, dalla convinzione della maggioranza delle forze politiche che reggevano il Governo Prodi I di poter così disinnescare le pulsioni federalistiche o addirittura secessionistiche (si pensi all’idea di Padania di Miglio e Bossi) che alla fine degli anni ’90 montavano sull’onda dell’avanzata leghista nelle regioni del Nord Italia ed anche, come qualcuno ha rilevato, per motivi elettorali in vista delle elezioni che si sarebbero tenute nello stesso anno.

Se c’è dunque un peccato originale nella introduzione dell’autonomia differenziata è quello di aver utilizzato la leva costituzionale., peraltro con un testo decisamente scarno e dalla “cattiva” qualità tecnica, sotto la pressione di spinte politiche contrastanti, senza una vera e propria visione prospettica, perseverando in quello che è stato chiamato dopo la riforma del Titolo V un regionalismo senza modello in uno Stato composto, ma dalla forma ancora liquida e per alcuni aspetti incompiuta.

Sia come sia e tralasciando qui ben più puntuali approfondimenti che il tempo a disposizione non consente, alcune considerazioni però si impongono nei confronti della norma costituzionale in questione dalle quali partire per talune valutazioni nei confronti del ddl Calderoli.

Una prima osservazione riguarda il fatto che l’art. 116, c. 3 sia una norma “neutra”, nel senso che non condiziona la richiesta di ulteriori ambiti di autonomia a particolari motivazioni o a particolari condizioni, legittimando in tal modo tutte le Regioni che lo ritengano opportuno ad avanzare la richiesta. Riprova ne sia che la locuzione contenuta nelle intese (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) del 28 febbraio 2018 e quelle (uguali) del 2019 per la quale la richiesta di maggiore autonomia nelle materie indicate “corrisponde a specificità proprie della Regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e sviluppo” suona come un mero simulacro di motivazione, che di per sé nulla aggiunge alla circostanza che sia sufficiente la volontà della Regione di richiedere ulteriori forme di autonomia per giustificare la richiesta stessa, sia relativamente a potestà legislative, sia amministrative.

Diversamente sarebbe auspicabile, ai fini di una più oculata e ragionata negoziazione con lo Stato, che si prevedesse una motivazione articolata, per di più accompagnata da un altrettanto articolato processo di analisi di impatto delle funzioni relativo a ciascun settore, analisi che potrebbe essere funzionale alla valutazione successiva dell’efficacia della stessa intesa e in vista di eventuali future modifiche.

Seconda osservazione: la neutralità dell’art. 116 determina una forte criticità; ciò nel senso che ciascuna Regione a statuto ordinario può chiedere maggiori ambiti di autonomia in tutte le materie di cui alla disposizione costituzionale, come si evince dal “contratto di governo” stipulato tra Lega e Movimento 5 Stelle in occasione della nascita del Governo Conte I e come si è verificato nella pratica ove, prima dall’esplodere dell’emergenza sanitaria, la platea dei soggetti potenzialmente in corsa si è estesa a quasi tutte le Regioni, sia pure con atti preliminari consistenti nel conferire al loro Presidente l’incarico di attivare il negoziato con il Governo: ad oggi risulterebbe che solo l’Abruzzo e il Molise non abbiano intrapreso alcuna iniziativa. Insomma si è prodotta quella che molto efficacemente è stata definita una sorta di “bulimia” dell’autonomia, dando luogo ad un possibile scenario futuro che rischia di innescare una sorta di “competizione sulla autonomia” tra le Regioni sia relativamente alle materie, ma anche alla misura ed alla natura (legislativa o amministrativa) in cui detta autonomia debba attribuirsi per ogni materia: ciò fermo restando che tutto ciò è rimesso alla volontà politica della Regione, volontà che incontra solo due limiti, quello della Costituzione e quello rappresentato dallo Stato, con il quale la Regione dovrebbe poi raggiungere l’intesa.

Una terza osservazione: rimane acclarato il fatto che il disposto dell’art. 116 non è tale da attribuire alle Regioni la competenza legislativa esclusiva sulle materie oggetto dell’intesa, poiché in un caso siffatto si svuoterebbe di significato, con conseguente violazione costituzionale, la norma che regola il riparto di competenze cristallizzato dal Titolo V, spettando in sede di accordo la determinazione della “misura” da un “minimo” ad un “massimo” relativa all’espansione dell’autonomia che comunque non potrebbe mai svuotare la potestà legislativa statale.

Per non dire poi che il meccanismo dell’intesa può comportare che l’ambito di autonomia sia nella stessa materia diversa da Regione a Regione, con la conseguenza che la produzione normativa – statale e regionale- sarebbe soggetta ad un numero indefinito di variabili a seconda delle Regioni e delle materie, che certo complicherebbe il sistema soprattutto a livello della produzione statale in riferimento alla disciplina che resta nel dominio dello Stato.

Ciò premesso, si impone un interrogativo. Tutte le discipline previste dall’art. 116 possono essere legislativamente devolvibili oppure le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono riguardare solo la devoluzione di funzioni amministrative? La risposta non può che essere articolata e differenziata in considerazione della “materia”.

A mo’ di esempio si pensi alla materia dell’organizzazione della giustizia di pace, la quale, poiché riguardante il sistema giudiziario, non può che rimanere di competenza esclusiva dello Stato e certo non di competenza delle Regioni; il che comporta che a queste ultime possono essere devolute caso mai solo quelle funzioni di “amministrazione della giurisdizione” che, limitatamente peraltro alla sola giustizia di pace, possono essere ricondotte ai “ servizi relativi alla giustizia” che l’art. 110 Cost riserva al Ministero della Giustizia.

Ma si pensi inoltre, soprattutto dopo gli eventi pandemici e bellici, a materie come i rapporti internazionali e con l’UE, la produzione, il trasporto e distribuzione nazionale dell’energia o anche la disciplina di porti ed aeroporti civili o delle grandi reti di trasporto e di navigazione, ed altre ancora, la cui devoluzione, a seguito dello spezzettamento delle normative regionali, impedirebbe le necessarie politiche nazionali unitarie, anche nei rapporti internazionali e sovranazionali. Per non dire quanto complessa si ponga la questione per le materie oggetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (i c. d. LEP e i LEA), prima di tutto per quanto riguarda istruzione e sanità. Dal che si trae la conferma che in molti casi le forme di maggiore autonomia oggetto di differenziazione consistano, in realtà, in funzioni amministrative da allocare a livello regionale. Si tratta di un rilievo valido per molti settori considerati dalle bozze, come “paesaggio e beni culturali”, “ambiente”, “governo del territorio”, “acque”, “attività produttive”, “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.

Anche in settori a maggiore rilevanza, per così dire, ordinamentale ― che qualificano “diritti” (si pensi ad ambiti come quello della “salute”, “istruzione”, “università e ricerca”, “lavoro”, “previdenza complementare e integrativa”, la già citata “giustizia di pace”, “immigrazione”), ― non mancano le ragioni per affermare che le funzioni da assegnare si concretino in funzioni amministrative, piuttosto che in funzioni normative.

Molto vi sarebbe ancora da dire, ma non si può evitare di rilevare come, laddove sussistano obiettivi che coinvolgano territori più ampi di quelli delle singole regioni, l’autonomia differenziata, legislativa o amministrativa, meglio si sposerebbe con delle macroaree che non dovrebbero comportare la creazione di “macroregioni”, ma più semplicemente un vincolo reciproco nelle richieste di maggiore autonomia ai fini economici, territoriali, di contiguità i cui effetti riguarderebbero tutte le regioni della macroarea che ne fanno parte che potrebbero agire in tal modo in sinergia sui rispettivi territori.

Il ddl Calderoli approvato dal Consiglio dei ministri il 2 febbraio 2023 dà risposte alle questioni sollevate? Si qualifica come una legge-quadro che regolamenti in modo unitario e soddisfacente i principi ed i cardini dell’autonomia differenziata? Basta una lettura superficiale per dare una risposta nettamente negativa, venendo meno alla qualificazione di legge quadro nel significato più ampio e completo.

Esso si sovrappone al procedimento di cui all’art 116, c. 3, Cost., ciò nel senso che Regioni e Stato potrebbero in ogni caso stipulare un’intesa seguendo il procedimento previsto nella stessa disposizione costituzionale e nel senso che, anche ove il ddl Calderoli divenisse legge, ad esso potrebbe derogarsi (rispettando solo quanto prescritto dalla norma costituzionale). Infatti, anche ove completasse l’iter ed entrasse in vigore, resta un atto con forza di legge per di più con ampi vuoti, come tale abrogabile e modificabile attraverso un’altra legge dotata della stessa forza, diversamente da come sarebbe se il procedimento venisse disciplinato con una legge costituzionale.

In 10 articoli il ddl non tratta infatti nessuna delle questioni sopra sollevate; si limita a disciplinare il procedimento per le intese secondo un iter complesso e non condivisibile (si pensi che attribuisce ai competenti organi parlamentari, secondo i loro regolamenti, atti di indirizzo, mentre tutto il procedimento delle intese è gestito dal CDM che le approva neppure con un DPR, atto normativo, ma con DPCM che è atto di natura amministrativa e, ripeto, non normativa, escludendo così il controllo del Presidente della Repubblica e quello della Corte costituzionale). Ma soprattutto si concentra sui LEP, la cui disciplina, preliminare alle intese, è peraltro contenuta nella legge di bilancio del 2023 a cui il ddl espressamente rinvia.

Se appare paradossale la costituzione di una Cabina di regia ed una Commissione tecnica per la determinazione dei fabbisogni standard, salvo stabilire, in caso di inadempienza entro sei mesi da parte di tali organi, la nomina di un Commissario che entro trenta giorni deve completare le attività, appare ancora più grave che tutto il procedimento per i LEP previsto nella legge finanziaria avvenga tramite atti governativi in evidente violazione della Costituzione che allo stesso art. 117 lett. m) dispone che esso debba avvenire con legge statale, come sopra ricordato.

Dal punto di vista sostanziale poi la determinazione dei LEP attraverso i costi standard accertati sulla spesa storica, come previsto nella legge di bilancio, non consente di realizzare la perequazione prevista dall’art. 119 Cost.: non essendo previsto un fondo perequativo, rimanendo perciò la compartecipazione al gettito di tributi erariali maturati nel territorio regionale, così confermando la differenza tra territori dovuta alla diversa capacità fiscale, comporta ulteriori divari di cittadinanza.

Sintetizzando riassuntivamente, dal procedimento delineato nel ddl Calderoli emergono: a) un ruolo chiave degli esecutivi, statali e regionali, e in specie dei loro vertici monocratici, presidente del Consiglio (e in subordine ministro per gli Affari regionali e le autonomie) e presidente della Giunta; b) una marginalizzazione dei consigli regionali; c) una violazione della riserva di legge nella determinazione dei LEP; d) conseguente verticalizzazione e amministrativizzazione della decisione in tema di diritti; e) e, in particolare, marginalizzazione se non esautoramento del Parlamento con conseguente estromissione delle opposizioni nonché della discussione e mediazione politica parlamentare anello cardine della democrazia.

Si poteva fare di meglio? Decisamente sì.

Intervento del Prof. Filippo Stirati – Sindaco di Gubbio

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: GRAVE MINACCIA PER L’UNITA’ NAZIONALE E PER I CITTADINI DEI TERRITORI SVANTAGGIATI

Intervenendo nella mia veste di sindaco di Gubbio su un tema spinosissimo e che, verosimilmente, ancora sfugge nel suo reale impatto alla maggior parte dell’opinione pubblica italiana, voglio esprimere alcune riflessioni centrate in maniera particolare sulla mia esperienza politico-amministrativa e istituzionale. La genesi leghista di questa proposta di legge di per sé suscita tutta una serie di fondati dubbi e di legittime perplessità non fosse altro per le ricorrenti tentazioni che questo movimento politico ha rappresentato sin dalle sue origini a danno dell’unità nazionale italiana. Da uomo di scuola la prima criticità eclatante che mi sento di evidenziare riguarda il nostro sistema scolastico.

Al di là di tutte le complesse contraddizioni che il nostro universo-scuola ancora manifesta in tanti suoi gangli, regionalizzarlo e frantumarlo mettendo in crisi i suoi capisaldi culturali, contenutistici e didattici potrebbe risultare letale!

Forte di una tradizione politica e istituzionale, il municipalismo della sinistra e del socialismo riformista ha rappresentato una autentica pietra miliare della nostra vita democratica. Ciò non significa rivendicare visioni localistiche e campanilistiche dal corto respiro, bensì farsi interpreti di bisogni sociali, di aspirazioni tese a emancipare le comunità e a realizzare visioni socio-economiche e culturali capaci di abbattere tutta una serie di strozzature che incidano negativamente sul libero sviluppo della persona umana come recita lo stupendo articolo 3 della nostra Costituzione.

La Regione Umbria e il territorio eugubino che rappresento si portano dietro ancora oggi squilibri territoriali e sperequazioni storiche, responsabili, in buona parte, di gravi ritardi e rallentamenti in materia di sviluppo, di innovazione, di progetti concreti per la voglia di futuro delle giovani generazioni. Se prendiamo in esame i nudi dati statistici che riguardano le risorse disponibili delle diverse Regioni italiane e, anche in seno di una stessa Regione, quelli dei diversi Comuni, ci rendiamo conto di quanto i cosiddetti LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) siano ben lontani da una equa distribuzione tra le comunità amministrate.

In anni ormai lontani rappresentai all’allora ministro Aniasi l’oggettiva ingiustizia patita da un Comune come quello di Gubbio nel dover governare e manutenere un territorio  tra i più grandi d’Italia con alcune centinaia di chilometri di strade comunali, con un numero elevato di cimiteri, con una sconfinata estensione di verde, con inevitabili complicazioni nella gestione di servizi fondamentali come il trasporto scolastico e la relativa mensa e tante strettoie ancora; questo a fronte di una popolazione di poco superiore ai 30mila abitanti!

D’altra parte la recente strategia delle aree interne (SNAI) varata alcuni anni fa dal Governo italiano e confermata da quelli successivi, con particolare apprezzamento anche da parte dell’Unione Europea che vi ha intravisto un paradigma particolarmente virtuoso, ha sancito, se ve ne fosse stato bisogno, la necessità di innervare azioni efficaci per il riequilibrio dei territori, in particolar modo montani ma non solo, caratterizzati da decremento demografico, invecchiamento della popolazione, difficoltà di varia natura nella erogazione e fruizione di servizi fondamentali per la vita dei cittadini.

Puntare sulla autonomia differenziata è in netta controtendenza rispetto a quanto affrontato e programmato dal sistema nazionale delle  aree interne, contraddicendone lo spirito e ribaltandone le prospettive.

Sono fermamente convinto che su questa partita sia possibile generare una grande iniziativa politica ed istituzionale che, per il tramite di una appropriata comunicazione nei confronti dell’opinione pubblica, evidenzi in maniera plastica rischi e contraddizioni della proposta leghista fatta propria dal governo Meloni e rilanci su larga scala il tema dell’uguaglianza dei diritti e dell’accesso partitario ai servizi fondamentali del nostro sistema democratico a cominciare dalla sanità e dalla scuola. C’è ampia materia per una mobilitazione di tutte le energie operose della società civile.

Intervento della Professoressa Lucia Marinelli Segretaria Generale Federazione Uilscuola Rua Umbria

Già la parola “differenziata” non ci piace perché il termine “differenza” ha un’accezione negativa, significando separazione, divisione, disuguaglianza; di contro il termine “diversità” ha un’accezione positiva, significando comunione, unione delle diverse specificità, quindi arricchimento. Tutti ricordiamo le “classi differenziali”, che separavano i ragazzi disabili; oggi, invece, si parla di alunni diversamente abili, perfettamente inseriti nelle classi, e l’inclusione è il fondamento del nostro sistema d’istruzione.

Il problema dell’Autonomia Differenziata è iniziato già nel 2018, e l’attuale Governo sta dando una forte accelerazione, per cui regioni come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna potranno intervenire nell’ambito dell’istruzione, e altre regioni stanno seguendo l’iter, tra cui l’Umbria.

L’obiettivo è quello di regionalizzare la scuola e l’intero sistema formativo tramite una vera e propria “secessione” delle Regioni più ricche, che porterà a un sistema scolastico con investimenti e qualità legati alla ricchezza del territorio. Si avranno, come conseguenza immediata, inquadramenti contrattuali del personale su base regionale (quale tipo di mobilità sarà possibile?); salari, forme di reclutamento (Concorsi) e sistemi di valutazione disuguali; livelli ancor più differenziati di welfare studentesco e percorsi educativi diversificati; interventi di edilizia scolastica che varieranno in base alle risorse. Ma, soprattutto, dovremmo pensare alle ingerenze di tipo politico che potrebbero condizionare le offerte formative delle scuole, per es. l’introduzione dello studio di lingue locali, persino la possibilità di aprire a finanziamenti privati, con aziende del Nord che darebbero ancora più soldi alle scuole del Nord e il Sud che resterà al palo. Di fatto verrà meno il ruolo dello Stato come garante di unità nazionale, solidarietà e perequazione tra le diverse aree del Paese; ne conseguirà una forte diversificazione nella concreta esigibilità di diritti fondamentali.

Verranno meno principi supremi della Costituzione racchiusi nei valori inderogabili e non negoziabili contenuti nella prima parte della Carta Costituzionale, che impegnano lo Stato ad assicurare un pari livello di formazione scolastica e di istruzione a tutti, con particolare attenzione alle aree territoriali con minori risorse disponibili e alle persone in condizioni di svantaggio economico e sociale.

 Sarà inevitabile l’aumento del divario tra nord e sud e tra i settori più deboli e indifesi della società e quelli più abbienti. In tale contesto, dunque, una scuola organizzata a livello regionale sulla base di specifiche disponibilità economiche, rappresenta una netta smentita di quanto sancito dagli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione a fondamento del principio di uguaglianza, cardine della nostra democrazia, e lede gravemente altri principi come quello della libertà di insegnamento.

Regionalizzare la scuola e il sistema educativo e formativo significa prefigurare istituti e studenti di serie A e di serie B a seconda delle risorse del territorio; ignorare il principio delle pari opportunità culturali e sociali e sostituirlo con quello delle impari opportunità economiche; disarticolare il CCNL attraverso sperequazioni inaccettabili negli stipendi e negli orari dei lavoratori della scuola che operano nella stessa tipologia di istituzione scolastica, nelle condizioni di formazione e reclutamento dei docenti, nei sistemi di valutazione, trasformati in sistemi di controllo; subordinare l’organizzazione scolastica alle scelte politiche – prima ancora che economiche – di ogni singolo Consiglio regionale; condizionare localmente gli organi collegiali.                       

Significa in sostanza frantumare il sistema educativo e formativo nazionale e la cultura stessa del Paese.

Questa frammentazione sarà foriera di una disgregazione culturale e sociale che il nostro Paese non potrebbe assolutamente tollerare, pena la disarticolazione di un tessuto già fragile, fin troppo segnato da storie ed esperienze non di rado contrastanti e divisive.

L’unitarietà culturale e politica del sistema di istruzione e ricerca è condizione irrinunciabile per garantire uguaglianza di opportunità alle nuove generazioni nell’accesso alla cultura, all’istruzione e alla formazione fino ai suoi più alti livelli.

Un Paese che voglia innalzare il proprio livello d’istruzione generale deve unificare, anziché separare: unificare i percorsi didattici, soprattutto nella scuola dell’obbligo; garantire, incrementandola, l’offerta educativa e formativa e le possibilità di accesso all’istruzione fino ai suoi livelli più elevati; assicurare la qualità e la quantità dell’offerta di istruzione e formazione in tutto il Paese, senza distinzioni e gerarchie.

Concludo citando le parole del critico e storico letterario, saggista e politico italiano Alberto Asor Rosa, recentemente scomparso, in un articolo su Repubblica: “… chi voglia oggi attentare all’unità dello Stato italiano non può fare a meno di colpire l’unità della scuola…”, e ancora: “Semmai sarebbe da chiedersi perché la scuola sia stata considerata da tutti i governi di tutti i colori, nell’ultimo decennio, un secondario motivo di interesse nazionale, un bene rifugio di ministri di infimo grado.” L’articolo così si conclude: “L’identità culturale e linguistica non è un patrimonio che si conserva. Ha bisogno di un investimento politico e culturale di altissimo livello.”

Intervento del Prof. Mauro Volpi

UN’AUTONOMIA CONTRO LA COSTITUZIONE

L’autonomia differenziata è una minaccia particolarmente insidiosa contro la Costituzione perché viene contrabbandata come un’attuazione della Costituzione, in particolare dell’art. 116, comma 3, che prevede l’attribuzione alle Regioni di “forme e condizioni particolari di autonomia” ulteriori rispetto a quelle stabilite nell’art. 117. Tale previsione fu introdotta improvvidamente dal centro-sinistra nella riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione del 2001, come una sorta di contentino al federalismo sbandierato dalla Lega Nord, nella illusione che avrebbe evitato il riproporsi di minacce all’unità nazionale. In realtà i leghisti sostenitori dell’autonomia differenziata sono rei confessi nella loro intenzione di stravolgere la Costituzione quando fanno derivare dall’autonomia differenziata l’instaurazione di uno Stato federale.

Quindi prefigurano il cambiamento della forma di Stato mediante una legge ordinaria (la legge Calderoli) e le leggi adottate a maggioranza assoluta che recepiranno le intese tra lo Stato e le singole Regioni, senza che sia approvata una legge costituzionale con il procedimento stabilito dall’art. 138 (doppia votazione delle Camere, di cui la seconda almeno a maggioranza assoluta, e, qualora la maggioranza sia inferiore ai due terzi dei componenti, possibilità di chiedere il referendum da parte di un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali).

Va poi considerato che una disposizione costituzionale deve fare corpo con l’insieme delle norme costituzionali e non può pregiudicare i principi supremi della Costituzione e l’assetto complessivo dei rapporti Stato-Regioni. Questo è proprio quello che fanno la legge di bilancio per il 2023 e la legge Calderoli di attuazione dell’autonomia differenziata approvata il 2 febbraio dl Consiglio dei ministri.

Il primo principio fondamentale a essere violato è l’unità e l’indivisibilità della Repubblica ex art. 5 Cost., che sarebbe pregiudicato dalla numerosità delle materie tutte trasferibili alle Regioni (23 nella intesa relativa al Veneto, 20 per la Lombardia e “solo” 16 per l’Emilia e Romagna) e dalla loro importanza. Infatti alcune riguardano i diritti fondamentali, come la salute, l‘istruzione, i beni ambientali e culturali, la tutela e la sicurezza del lavoro), altre le infrastrutture di interesse nazionale, come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione e (sembra incredibile in tempi di crisi energetica in Italia e in Europa) produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.

In pratica l’Italia si trasformerebbe in un Arlecchino diviso in Repubblichette titolari di competenze disparate e enormemente differenziate tra di loro. Ciò porterebbe di fatto a una forma di secessione e alla disunione del Paese, progetto che la Lega non ha mai abbandonato, come dimostra il fatto che il referendum consultivo nel 2017 del Veneto (seguito lo stesso anno dalla Lombardia) sulla richiesta di autonomia differenziata si tenne in base alla prima di due leggi approvate nel 2014, che chiedevano ai cittadini di pronunciarsi anche su altri quesiti: se mantenere alla Regione almeno l’80% dei tributi pagati dai veneti, se trasformarla in Regione a statuto speciale e infine se farla diventare una “Repubblica indipendente e sovrana”. Le previsioni legislative dei tre referendum più dirompenti sono state dichiarate incostituzionali con la sentenza n. 118/2015 della Corte costituzionale, che ha lasciato in vita solo il referendum sull’autonomia differenziata.

Un secondo principio a essere violato è quello stabilito dall’art. 2 Cost., che impone l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. L’art. 5, comma 2, della legge Calderoli stabilisce che il finanziamento delle funzioni attribuite alle Regioni avvenga tramite “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”. Quindi le Regioni più ricche otterranno finanziamenti ulteriori e più cospicui, esattamente al contrario di quanto prevede l’art. 119, comma 3, Cost., che stabilisce l’istituzione di un fondo perequativo “per i territori con minore capacità fiscale per abitante” e del comma 5, per cui lo Stato “destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali” a favore di Enti locali e Regioni al fine di promuoverne lo sviluppo economico, la coesione sociale, l’effettivo esercizio dei diritti della persona.

Viene poi violato il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., sia in senso formale come pari trattamento davanti alla legge, sia in senso sostanziale come rimozione degli ostacoli economici e sociali che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Infatti il progetto governativo è destinato ad aumentare le diseguaglianze tra territori e tra cittadini in base alla loro residenza, impoverendo di più proprio quelli che dovrebbero essere maggiormente finanziati. Basti pensare alle due materie della salute e della istruzione. Nella prima, che ha conosciuto un progressivo definanziamento della sanità pubblica e lo sviluppo della privatizzazione, con gli effetti nefasti che si sono prodotti durante la pandemia, si avrebbe lo smantellamento del servizio sanitario nazionale e dei principi di universalità, eguaglianza e gratuità, che è stato già colpito producendo il fenomeno terribile di milioni di cittadini che rinunciano a curarsi. Per l’istruzione le Regioni beneficiarie delle intese potrebbero ereditare in via esclusiva il potere, anche legislativo, di dettare le “norme generali” in materia e quindi di stabilire gli indirizzi educativi e culturali (come l’insegnamento obbligatorio della “lingua veneta”, previsto in una proposta di legge presentata a inizio legislatura da 18 deputati leghisti), di disciplinare la designazione dei direttori scolastici e la struttura degli organi rappresentativi e infine di prevedere le modalità di reclutamento di professori e personale e un trattamento economico differenziato (come ventilato dal poco “meritevole” ministro Valditara).

La legge di bilancio per il 2023 viola l’art. 117, comma 2, lett. m, Cost., che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Infatti tale competenza viene attribuita a una cabina di regia di nomina governativa supportata da una commissione tecnica e, qualora non ci riesca entro dodici mesi, a un commissario nominato dal Presidente del consiglio e dal Ministro per gli affari regionali, per essere alla fine recepita in Decreti del Presidente del consiglio dei ministri (DPCM), cioè in atti amministrativi generali non assoggettati al controllo del Presidente della Repubblica, del Parlamento e della Corte costituzionale. Intanto è del tutto improbabile che i LEP inattuati dal 2001 siano determinati entro un anno ed è ancora più difficile che sia stabilito l’ammontare delle notevoli risorse finanziarie necessarie, il che significa in concreto che il trasferimento di nuove funzioni alle Regioni sulla base dell’intesa stipulata con il Governo potrebbe avvenire in base alla spesa storica che ha nettamente privilegiato quelle più ricche del Nord. Ma soprattutto il procedimento previsto viola la riserva di legge stabilita nella Costituzione per cui la determinazione dei LEP deve avvenire in base ad una legge o comunque ad atti legislativi che stabiliscano i principi fondamentali e le norme generali della materia.

L’ultima e più eclatante violazione colpisce il principio di separazione dei poteri. Il Parlamento viene ad essere emarginato in quanto sulla determinazione dei LEP si limita a esprimere un parere non vincolante entro 45 giorni e sullo schema di intesa formula “atti di indirizzo” entro 60 giorni, che sono “valutati” da Presidente del consiglio e Ministro, ma la cui irrilevanza è dimostrata dal fatto che questi possono procedere anche senza pareri e atti di indirizzo che non siano stati espressi entro il termine stabilito. Inoltre il Parlamento non può minimamente modificare il disegno di legge che recepisce l’intesa tra Governo e singola Regione. In teoria può respingerlo, ma una maggioranza di destra-centro come quella attuale approverà sicuramente la legge specie se riguarda una Regione politicamente “amica”.

Un’ultima osservazione riguarda il valore giuridico della “legge Calderoli” approvata in via preliminare dal Consiglio dei ministri. Si tratta di una legge ordinaria che per essere approvata richiede il voto favorevole della maggioranza dei deputati e dei senatori votanti e quindi si collocherebbe su un livello inferiore rispetto alle leggi che recepiranno le intese con le Regioni che sono approvate a maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti delle Camere). Si tratta quindi di leggi rinforzate che potrebbero derogare a quanto previsto nella legge Calderoli, stabilendo ad esempio che si proceda al trasferimento delle materie e delle funzioni indicate nella intesa anche se non siano stati stanziati i provvedimenti di finanziamento del LEP. Tanto più che la determinazione delle relative risorse umane, strumentai e finanziarie viene attribuita ad una commissione paritetica, disciplinata dall’intesa, composta dai rappresentanti del Governo e della Regione interessata.

Il progetto di autonomia differenziata deve essere seriamente contrastato con una mobilitazione popolare che metta in difficoltà la maggioranza parlamentare e in particolare coloro che parlano continuamente di Patria e di Nazione e sono disposti a svendere l’unità nazionale a vantaggio di quella della coalizione di maggioranza. In questo quadro il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha lanciato un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare per la cui presentazione alle Camere occorrono cinquantamila firme che possono essere raccolte su moduli cartacei o in via digitale sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.

Le modifiche degli articoli 116 e 117 Cost. contengono quattro novità importanti:

1 – Le funzioni ulteriori attribuibili alle Regioni sono limitate alle materie di competenza concorrente di Stato e Regioni, devono essere giustificate dalle specificità del territorio, sono deliberate non sulla base di intesa ma solo “sentita la Regione” con legge approvata a maggioranza assoluta delle Camere, che può essere sottoposta a referendum preventivo su richiesta di un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali e a referendum abrogativo dopo la sua entrata in vigore.

2 – La legge statale può intervenire nelle materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richiede la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o la tutela dell’interesse nazionale.

3 – I livelli delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali non devono essere “essenziali” ma “uniformi” in modo da garantire effettivamente l’eguaglianza tra i cittadini.

4 – Sono restituite alla competenza legislativa esclusiva dello Stato materie concernenti i diritti fondamentali, come tutela della salute, scuola e università, tutela e sicurezza del lavoro, ricerca scientifica e tecnologica; in materia di infrastrutture, come reti nazionali e interregionali di trasporto e di navigazione, porti e aeroporti civili di rilievo nazionale e interregionale, reti e ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale e interregionale dell’energia; relative alla previdenza sociale e a quella complementare e integrativa.

Il ddl popolare in base a una modifica del regolamento interno del Senato approvata nel 2017 deve essere esaminato dalla Commissione competente entro tre mesi decorsi i quali viene iscritto d’ufficio nel calendario dei lavori dell’Assemblea. La sua presentazione sarebbe quindi l’occasione per discutere finalmente in Parlamento sulle norme necessarie a impedire lo stravolgimento della Costituzione da parte del progetto di autonomia differenziata.

Intervento del Dott. Lucio Caporizzi

Umbria, ecco tutti i pericoli dell’autonomia

Il progetto di legge Calderoli la penalizza insieme al Sud e al Friuli

In seguito alla presentazione del disegno di legge-quadro del ministro Calderoli, recentemente approvato dal Consiglio di Ministri, è ripresa la discussione pubblica sulle richieste di autonomia regionale differenziata, già a suo tempo avanzate in base all’articolo 116, comma 3 della Costituzione dalle regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna.

Sarà un caso che l’iniziativa sia stata presa dalle 3 regioni più ricche del Paese, che, da sole, fanno circa il 40% del Pil italiano?

In tale norma costituzionale si introduce il principio della differenziazione degli ordinamenti delle Regioni a Statuto Ordinario, attribuendo loro la possibilità di negoziare con lo Stato forme e condizioni particolari di autonomia, consentendo in tal modo il passaggio di alcune materie dalla competenza concorrente a quella primaria, oltre ad acquisire competenze anche su materie di esclusiva competenza statale (giudici di pace, istruzione e beni culturali, ambiente ed ecosistema).

Va innanzitutto chiarito che si tratta di una questione di importanza cruciale per il futuro del Paese, dal punto di vista istituzionale, sociale, politico ed economico. Ben lungi dal rappresentare eventuali semplici modifiche agli assetti amministrativi, le richieste di cui sopra comportano un complessivo riassetto delle responsabilità su tutte le principali politiche economiche e sociali, a partire da istruzione e sanità.

L’attenzione è in questa fase prevalentemente concentrata sul processo decisionale, con particolare riferimento al ruolo che in tale processo deve avere il Parlamento.

Tanto nelle ipotesi costruite nel 2019 dal governo Conte I quanto nel disegno di legge Calderoli, infatti, il ruolo delle Camere appare residuale se non proprio mortificato, ridotto alla formulazione di pareri consultivi e a un’eventuale approvazione a scatola chiusa. Quasi che si voglia cambiare profondamente l’Italia a colpi di Dpcm e di Intese con le singole Regioni, senza che il potere legislativo abbia tempo e modo di valutare e, conseguentemente, esprimersi.

Va invece ricordato che, a norma della Costituzione, le Regioni possono chiedere le competenze previste dall’articolo 116, ma sta al Parlamento, considerando l’interesse nazionale, decidere se e quali concedere.

Inoltre, non è che le richieste possano essere fatte così “all’ingrosso”: il Veneto ha iniziato richiedendo tutte le 23 materie possibili e adottando, nel 2017, una Delibera consiliare dove si fissa l’obiettivo di trattenere i nove decimi dei tributi riscossi sul proprio territorio.

Dalla Scuola all’Università, dalle infrastrutture (ferrovie, autostrade) all’energia (produzione, trasporto e distribuzione), dalla Sanità alle attività produttive, le Regioni “differenziate” assumerebbero un livello di poteri del tutto simile a quello di uno Stato sovrano.

Le richieste, in realtà, andrebbero motivate in base alle specifiche condizioni, problematiche e vocazioni del territorio, cosa che nessuna Regione ha finora fatto, né viene chiesto loro di farlo: ciò significa che tutte le Regioni a statuto ordinario possono potenzialmente cercare di ottenere tutte le competenze. Competenze che vengono concesse sulla base di una Intesa fra stato e singola regione; ciò significa che qualsiasi decisione parlamentare di devoluzione di poteri è sostanzialmente irreversibile, dato che cambiare l’intesa richiederebbe il consenso regionale.

I difensori dell’autonomia differenziata “spinta”, sostengono, tra l’altro, che portare quante più competenze e le relative risorse in periferia significa avvicinare la loro gestione – e le connesse responsabilità – ai cittadini e, quindi, al controllo degli stessi sugli organi politico-amministrativi. Certo non è da rimpiangere, infatti, l’effetto di deresponsabilizzazione che decenni di finanza derivata hanno avuto nei confronti delle regioni italiane, laddove gli amministratori regionali gestivano risorse trasferite loro dallo Stato con vincolo di destinazione, senza quindi dover rispondere ai propri elettori del reperimento di tali risorse.

Tali argomentazioni rappresentano il cuore del federalismo fiscale, in merito al quale venne approvata una apposita legge nell’ormai lontano 2009, la numero 42, legge per la quasi totalità ancora inattuata. Quindi, non si dà compimento al federalismo fiscale – peraltro a suo tempo cavallo di battaglia dello stesso partito del Ministro Calderoli – ma si intende “strappare” in avanti con l’autonomia differenziata.

L’impianto del federalismo fiscale, come venne disegnato dalla legge sopra citata, si basava su:

1 – L’applicazione del principio di territorialità delle imposte, secondo cui una parte delle risorse deve essere reinvestita, sotto forma di servizi pubblici locali, nel territorio stesso in cui sono prodotte. Si tratta del cuore del concetto di federalismo fiscale, che richiede una corrispondenza leggibile tra servizi erogati e prelievo delle relative risorse per un dato territorio, pur non escludendo l’operatività di schemi perequativi. Al riguardo, occorre peraltro precisare che territorialità e autonomia tributaria non sono sinonimi. Per la territorialità sono sufficienti le compartecipazioni al gettito di tributi erariali con quote fissate a livello statale, mentre l’autonomia presuppone l’effettiva manovrabilità di tributi propri (in termini di aliquote e di basi imponibili);

2 – L’identificazione delle funzioni fondamentali assegnate agli enti territoriali (ex lettere m e p del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione) e la garanzia della copertura dei relativi fabbisogni;

3 – La quantificazione dei fabbisogni delle suddette funzioni fondamentali per il tramite dello strumento dei costi standard, che si pongono quindi come l’architrave su cui poggia la sostenibilità finanziaria dell’intero riassetto della finanza per livelli di governo, la cui definizione dovrebbe incorporare il perseguimento di determinati obiettivi di efficienza;

4 – Il prevedere, per le funzioni diverse da quelle fondamentali, uno schema perequativo basato sulla riduzione dei divari di capacità fiscale pro-capite tra i diversi territori.

Il conseguente superamento della spesa storica e dei ripiani a piè di lista, in nome appunto di una più effettiva responsabilizzazione dei governi regionali e locali, coniugata con un elevato livello di solidarietà tra territori e nel rispetto del principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini del Paese di fronte a servizi fondamentali quali la Sanità, l’Assistenza sociale e l’Istruzione (i cosiddetti diritti di cittadinanza).

Ma non è certo questo lo schema generale che si va perseguendo con il percorso delineato dal Governo, nonostante che nei vari aggiustamenti, siano stati introdotti nel ddl in questione una serie limiti e cautele, in particolare con riferimento alla preliminare fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Le Regioni proponenti, del resto, non chiedono l’attuazione della legge 42/2009, ma meccanismi finanziari “concordati” simili a quelli in vigore per le Regioni a statuto speciale. È comprensibile la preoccupazione dei rappresentanti dei territori del Paese a minor reddito perché questo potrebbe determinare un ampliarsi dei già notevoli scarti esistenti. Anche perché acquisire quante più risorse finanziarie possibili è da sempre un obiettivo chiaramente enunciato (anche se ora messo in sordina) delle amministrazioni regionali di Lombardia e Veneto, come dimostrato dalla richiamata delibera consiliare del Veneto del 2017.

Anche se ora non se ne parla granché – per evidenti motivi tattici e anche per le divisioni in tema dentro la maggioranza – quello del “residuo fiscale” resta uno dei temi di fondo della questione, che concorre a dare una risposta al quesito posto all’inizio, del come mai a muoversi siano state le regioni più ricche del Paese.

Si intende per “residuo fiscale” una stima ottenuta raffrontando la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un dato territorio con l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti dello stesso territorio, calcolo in realtà non semplice e che non sempre dà luogo ad esiti certi ed univoci.

Sta di fatto che il gettito è certamente superiore alla spesa in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte e Toscana, mentre è certamente il contrario (gettito inferiore alla spesa) nella 8 Regioni del Mezzogiorno, in Umbria ed in Friuli. Per le altre regioni la stima cambia a seconda del metodo di calcolo utilizzato. In particolare in Umbria il residuo fiscale – abbiamo visto negativo – è stato stimato alcuni anni fa intorno ai 1.000 euro pro-capite. Notoriamente l’Umbria conosce da diversi anni una calo del suo Pil pro-capite, quindi del reddito prodotto in regione, calo parzialmente compensato da notevoli flussi di risorse pubbliche in entrata, che fanno sì che il reddito disponibile pro-capite si presenti invece a livelli ben più elevati del Pil. Basterebbe questo dato per capire con quanta attenzione andrebbe seguita, in Umbria, la vicenda dell’autonomia differenziata.

A sua volta, il residuo fiscale complessivo della Lombardia – positivo – è stimato tra i 50 e i 60 miliardi di euro, un ammontare quasi uguale alla metà dell’intero Fondo sanitario italiano.

Si dirà, ma se una certa funzione era svolta dallo Stato e poi passa alla Regione, unitamente alle relative risorse, magari sotto forma di un corrispondente maggior gettito fiscale di quella regione trattenuto sul territorio, i conti tornano. Lo Stato incassa meno risorse come gettito proveniente da quella Regione ma, al tempo stesso, spende meno per finanziare servizi su quel territorio in quanto con il trasferimento di competenze, sarà la Regione a provvedere.

Magari avremmo una “cristallizzazione” della spesa storica, finché non si passi ai fabbisogni standard, con le conseguenti disparità territoriali già esistenti, ma non un peggioramento di tali disparità.

Forse le cose andranno davvero così, ma vi sono elementi per pensare che, nel tempo, le disparità potranno invece crescere.

Intanto l’azione redistributiva dello Stato non si realizza tra territori ma tra individui, segnatamente a favore delle persone meno abbienti, anche grazie ad un sistema impositivo ad aliquote progressive (sarà un caso che il Governo che porta avanti l’autonomia differenziata sia anche lo stesso che propugna, con la flat tax, un’attenuazione della progressività del sistema impositivo sul reddito…?). Inoltre, le pre-intese già siglate – che vengono recepite nel ddl Calderoli – non paiono infatti così “neutre” dal punto di vista della ripartizione delle competenze tra i livelli di governo e delle relative risorse.

Al punto 4 delle pre-intese siglate il 28 febbraio 2018 tra i Presidenti di Lombardia e Veneto ed il Governo, trattando di risorse, a proposito dei fabbisogni standard, si recita testualmente che dovranno “….progressivamente….diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente ed al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali,…”.

Il rischio è che la capacità fiscale pro-capite – notoriamente molto più elevata in quei territori rispetto alla media nazionale – diventi uno degli elementi di calcolo dei fabbisogni standard di quelle regioni.

Ecco, non sarà lo Spacca Italia o la Secessione dei Ricchi, come paventato da alcuni, ma, certo, qualche preoccupazione è lecita e fondata, soprattutto da parte di chi, invece, ha capacità fiscale inferiore.

INTERVENTO CONCLUSIVO DI ALDO POTENZA

Desidero ringraziare tutti i relatori per il grande contributo tecnico e politico assicurato alla iniziativa ed, in particolare, rivolgere un ringraziamento e un augurio a Marco Locchi per l’impegno organizzativo e per la prossima competizione elettorale ad Umbertide; ai Sindaci di Gubbio Stirati e di Ficulle Maravalle ed al Presidente del consiglio comunale di Città di Castello Bacchetta che hanno portato la loro testimonianza di vita amministrativa che con il disegno di legge Calderoli sarà ancora più complessa di quella attuale a causa delle gravi diseguaglianze che si produrranno.

Ovviamente un sincero apprezzamento ai relatori Mauro Scarpellini, Mauro Volpi, Margherita Raveraira, Lucia Marinelli e all’intervento di Lucio Caporizzi che per la seconda volta non ha mancato di aderire alla nostra richiesta di partecipazione per portare il suo contributo alle nostre iniziative.

Infine ritengo meriti un caldo ringraziamento Cesare Carini che con paziente delicatezza e grande professionalità ha saputo presiedere i lavori.

Il convegno ha due finalità: la prima è rappresentata dalla necessità di rendere evidenti le profonde criticità costituzionali, istituzionali, politiche e sociali di un disegno che oltre ad essere confuso al limite dalla sciatteria, è la negazione dei principi costituzionali su cui la nostra società si dovrebbe riconoscere.

Afferma Gaetano Azzariti che purtroppo sono le diverse maggioranze politiche che tendono a governare il cambiamento della Costituzione “venendo così a tradire la natura storica e teorica che il costituzionalismo moderno aveva assegnato al contratto sociale.”

Quindi non uno strumento per assicurare i poteri del governo nazionale o locale, ma all’opposto un patto per assicurare i diritti.

Con la legge in questione si realizza il disegno che quasi tutte le forze politiche avevano condannato, quando nel 1983 Bossi varò il programma della Lega Lombarda che prevedeva il superamento dello Stato centralista; la affermazione della cultura, storia DELLA LINGUA LOMBARDA CONTRO OGNI ATTENTATO ALLA IDENTITA’ NAZIONALE LOMBARDA.

L’amministrazione della scuola gestita dai lombardi, le TASSE CONTROLLATE E GESTITE DAI LOMBARDI.

Senza riesumare per intero questo reperto che pensavamo superato dalle sortite con le felpe salviniane per varare una lega nazionale, aggiungo solo un ricordo.

Nel 1991 il solito Bossi a Pontida parla della Repubblica del Nord  per una riforma della Costituzione che riconosca tre repubbliche confondendo il federalismo con un progetto che  trasformerebbe l’Italia in una confederazione di Stati.

Oggi con questa legge il processo si è messo in cammino e per giunta a Costituzione invariata sostanzialmente ignorando le norme costituzionali.

La seconda motivazione che ci ha determinati ad assumere l’iniziativa odierna è rappresentata dal rischio che la discussione, svolta sul rigoroso terreno costituzionale, non riesca a raggiungere l’attenzione dei cittadini.

Purtroppo in questi 30 anni ci sono stati molti “assalti” alla Costituzione sia ad opera del centro destra a guida berlusconiana, sia dal centro sinistra a conduzione renziana.

E’ vero che sia il primo tentativo che il secondo sono stati battuti alla prova referendaria confermativa, ma tra il primo tentativo e il secondo è iniziata la consuetudine di considerare la Costituzione materia di scambio politico, prima con la Lega e successivamente con le 5 stelle.

Così la rappresentanza è diventata non un diritto offerto ai diversi orientamenti culturali, sociali e politici dell’elettorato italiano, ma un costo inutile.

In altre parole la democrazia è stata considerata alla stregua di un prodotto troppo costoso del “mercato” politico.

Sono seguite nel silenzio le riduzioni dei consiglieri comunali, di quelli regionali e la indecente  riforma delle province.

Infine, poteva mancare il Parlamento?

Tutto è avvenuto senza una profonda discussione sugli assetti istituzionali e sul funzionamento della  democrazia.

L’attenzione dei cittadini per questi problemi è stata gradualmente manipolata e il rischio è che anche questa volta l’attenzione sia rivolta ad altro considerando questa legge estranea alle condizioni di vita quotidiana come se fosse solo materia che interessa una ristretta categoria di studiosi o al più una questione che riguarda l’assetto dei poteri che in fondo non cambia la loro vita quotidiana.

Negli interventi dei relatori sono state evidenziate tutte le conseguenze che si avranno e che incideranno pesantemente sulla attività delle Istituzioni nazionali, regionali e comunali.

A me preme aggiungere, per rendere più evidenti le conseguenze nella vita quotidiana dei cittadini, cosa comporta dal punto di vista fiscale il disegno di legge Calderoli.

A questo proposito mi soffermo su due possibili scenari:

il primo è rappresentato dai dati recentemente diffusi da alcuni autorevoli interventi pubblici e sulla stampa.

Secondo tali interventi l’ammontare complessivo annuale del gettito fiscale di tutte le regioni sarebbe di circa 750 miliardi di euro.

Le dichiarazioni rilasciate dalle regioni interessate dalla autonomia differenziata dicono che intendono trattenere il 90% della fiscalità regionale.

Ciò comporterebbe che tra Lombardia, Veneto ed Emilia e Romagna verrebbero sottratti 184 miliardi all’ammontare del gettito fiscale totale a vantaggio esclusivo delle suddette regioni.

Il secondo è il frutto di calcoli che mi sono preso la briga di effettuare e che possono non essere corretti, ma che si basano su dati raccolti dal MEF.

In base al dato MEF il gettito fiscale complessivo annuale di tutte le regioni sarebbe di circa 496 miliardi (forse con i dati più aggiornati potranno essere di circa 550 miliardi).

Ebbene partendo da questo dato l’ammontare complessivo che resterebbe alle regioni sarebbe di circa 80 miliardi di euro.

Osservo che l’Europa, per aiutare l’Italia a sviluppare le proprie capacità competitive con il famoso PNRR, ha stanziato la ingente somma di 191,5 miliardi di cui 122, 6 a titolo di prestito e 68,9 a fondo perduto.

Ebbene nel primo caso le tre regioni oltre ad ottenere le risorse che provengono dal PNRR, avrebbero 184 miliardi quasi l’intero importo che serve a tutta l’Italia per uscire dalle difficoltà e non a prestito.

Nel secondo caso sarebbero destinatarie di una somma pari a quasi la metà del PNRR alle stesse condizioni che prima ricordavo.

Ciò comporta non solo un esorbitante vantaggio competitivo con le altre regioni, ma determina una forte riduzione delle entrate dello Stato che a causa dell’indebitamento non potrà far fronte all’esigenza di assicurare adeguati sostegni alle regioni per garantire un livello di servizi sanitari, scolastici ecc.

Insomma, se già da molto tempo si erano lamentate le profonde differenze tra le regioni, con questa legge ci sarà una profonda sperequazione tra nord centro e sud.

Siamo davvero sicuri che le diseguaglianze che si allargheranno tra i cittadini di una medesima comunità nazionale non creeranno profonde divisioni al limite della sostenibilità democratica?

Lo scambio, come se la Costituzione fosse cosa loro, tra autonomia differenziata per accontentare la Lega e la “riforma” in senso presidenziale per FdI della nostra repubblica, è l’ulteriore prova di come la Costituzione sia ridotta a materia di scambio politico tra partiti della maggioranza.

E’ il degrado a cui siamo giunti grazie alla eutanasia della etica e della politica.

A tutto ciò occorre mettere un argine prima possibile.

Nel concludere il mio intervento, desidero ringraziare tutti i presenti che hanno ascoltato con evidente interesse le relazioni e  invitarvi a sostenere la raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare proposta dal Coordinamento per la democrazia Costituzionale che ha l’obiettivo di correggere le gravi violazioni costituzionali del disegno di legge in questione.

Grazie per la vostra cortese attenzione.