SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE SESTA)

Prof. Giuseppe Scanni – Già Vicepresidente di Socialismo XXI |

Nel mondo iperconnesso non si trova lo spazio per uscire dalla analisi superficiale, dicotomica e demonizzante del conflitto alle soglie del disastro nucleare.

Se un extra terrestre atterrasse sulla terra farebbe fatica a districarsi tra le divergenti opinioni che sono espresse sul coinvolgimento del mondo intero nella guerra di aggressione russa all’Ucraina. Naturalmente dovrebbe trattarsi di un extra terrestre vero, non, secondo la sarcastica definizione di Craxi, di uno pseudo alieno che si professa abitante della luna per nascondersi alla verità del mondo in cui è vissuto.

Il nostro autentico extraterrestre, buono per natura, non taccerebbe gli umani bipedi di follia, a causa di analisi sovente conflittualmente illogiche e spesso anacroniste, ma, per districare la matassa, si appellerebbe alla casualità e, poverino, sbaglierebbe anche lui perché non c’è stato niente di casuale, né di diabolico, nella aggressione russa causata da molteplici ragioni, ma sostanzialmente dalle conseguenze della irrisolta crisi evidenziata dalla implosione del comunismo e dalla dissoluzione dell’URSS, che avvennero contemporaneamente alla inarrestabile diffusione della rivoluzione sociale ed economica provocata dallo sviluppo dell’informatica e della telematica.

Il tanto dolore, sangue, terrorismo, distruzione, criminalità perpetrati a danno di civili inermi durante l’”operazione speciale” non è stato, o per lo meno non lo è stato soltanto e prioritariamente, uno scontro di civiltà personificabile nella battaglia terminale tra paesi democratici e osservanti del diritto internazionale e paesi autocratici rivendicanti il diritto primordiale della forza e della capacità di esercitare violenza per imporla.

Abbiamo sinora cercato di dimostrare che la rivendicazione di identità nazionale dell’Ucraina ha solide basi storiche; che diritto formale, diritto sostanziale. Trattati riconoscono nella sua integrità territoriale l’Ucraina quale Stato sovrano ed indipendente; che pur in presenza ed a causa di errori anche gravi degli Stati Uniti, della Germania, della Francia, in generale della UE, la Russia è stata progressivamente allertata con risoluzioni di condanna di organismi multilaterali- per ultimo la condanna ( per la prima volta) nell’Assemblea dell’ONU, il 26 aprile 2023, anche di Cina, India e Indonesia, Brasile, alla “aggression by the Russian Federation”- e con sanzioni sempre più mirate, legate al traversamento della linea rossa delimitata dalle ripetute violazioni del diritto internazionale e dei principi cardini ed universali regolamentati dalla Carta delle Nazioni Unite.

Le sanzioni comminate dagli Stati Uniti, UE, stati occidentali, americani, asiatici, africani, dell’Oceania hanno causato danni alla Russia ben superiori a quelli attesi dal Cremlino ed in un tempo minore da quello immaginato dalle cancellerie occidentali, perché la situazione economica della Russia era ben più fragile di quella che una sapiente propaganda aveva diffuso nel variegato sistema economico e finanziario.

Ricordiamo in molti, credo, che lo scorso anno si levarono critiche pesanti al governo Draghi, alla Francia, agli Stati Uniti, contro le sanzioni che sarebbero state o inutili o dannose per chi le avesse messe in pratica.

Alla fine dello scorso febbraio il Centre for Economic Policy Research, la principale rete europea di ricercatori di politica economica, ha pubblicato un’analisi (facilmente consultabile sul sito web del Centro) che certifica con la firma di Benjamin Moll, macroeconomista della London School of Economics, che le “sanzioni sono state molto meno costose di quanto previsto da molti” e che “dovremmo fare molto di più”.

Fortunatamente come leggeremo in seguito, di più non è stato fatto, ma lo studio incentrato sull’andamento del PIL negli ultimi tre anni tra Germania ( all’epoca energeticamente dipendente da Mosca) e la Russia, dimostra che l’unico grave turbamento dell’economia tedesca si riferisce al 2020 ed è imputabile agli effetti del Covid che provocarono un crollo seguito negli anni successivi da un rialzo, sicché già nel 2022 l’andamento della crescita era paragonabile a quello pre-pandemia, ad eccezione di un lieve -0,2% registrato nel quarto trimestre. Il paese più dipendente dal gas russo ha quindi registrato, nonostante il taglio delle forniture ed un momentaneo aumento del prezzo, un impatto del tutto marginale.

Al contrario della Russia che ha subito un crollo nel 2020 per il Covid, altrettanto nel 2022 e sappiamo che sta ancora diminuendo il suo PIL nel 2023.

Per essere più specifici, seguendo soltanto i documenti ufficiali russi e senza altrimenti doverose proiezioni nel 2022 per effetto delle sanzioni, il PIL è sceso del 5%, con un crollo della spesa aggregata dei consumatori del 7,5%.

Moll ha ragione quando annota che l’approccio prudente del sistema sanzionatorio europeo, con particolare riguardo alle materie energetiche esportate dalla Russia, entrando in vigore in maniere prudenzialmente ritardata, hanno consentito al prezzo del gas russo di aumentare sensibilmente, finanziando così l’invasione e assorbendo al momento il trauma provocato dalle sanzioni. Tuttavia, proprio il metodo prudenziale ha impedito che la brutalità degli ultimi mesi non si dispiegasse anticipatamente, altro che guerra a bassa intensità, impedendo una diversa attenzione sino-indo-brasiliana alla crisi e scavando un fosso irreparabile tra un auspicato cessate il fuoco e il superamento della soglia nucleare, almeno tattica, in un conflitto generale.

Le cifre in economia sono sempre interpretabili ed il buon senso invita a non creare con i numeri dei totem per loro natura indiscussi.

Michail Vladimirovič Mišustin, il primo ministro del Governo russo, poco conosciuto all’estero perché molto attento a tenersi lontano dai riflettori, è in patria molto apprezzato per la gestione della crisi economica. Mišustin insiste molto per limitare a contingenze non strutturali il peggioramento dell’andamento economico, sottolineando che l’agenzia statistica statale (Rossstat), ha reso pubblico che in Russia il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli del 1991, l’anno della dissoluzione dell’URSS. In soldoni, disoccupazione al 3,7% e 72,4 milioni di occupati. È una interpretazione corretta? Ecco le sanzioni applicate dalla UE e sostanzialmente dall’Occidente con l’infografica del Consiglio Europeo:

Sanzioni che oggi, dispiegate a pieno regime, fanno comprendere le enormi difficoltà economiche della Russia, le cui riserve valutarie estere sono bloccate. Senza entrare in una elencazione dettagliata, a metà 2021 Mosca poteva contare su bond esteri, oggi inesigibili, pari a 222 miliardi, circa il 38% delle riserve; idem per i 142 miliardi, 24% del totale, in depositi presso controparti estere; 127 miliardi in oro, 21,7% del totale (fonte https:/www.econopoly.ilsole24ore.com 22 marzo 2022).

Una cifra apparentemente da capogiro ma essenziale per partecipare in modo fluido al complesso sistema bancario e finanziario mondiale che regola l’import e l’export di paesi a valuta non facilmente convertibile.

Come è possibile che un paese bloccato nel suo export a prezzi di mercato e con serie difficoltà di approvvigionamento sui mercati esterni per difficoltà bancarie e finanziarie abbia un basso tasso di disoccupazione? È dai tempi di Biancaneve che mele avvelenate e specchi delle brame trasformano le fantasie in realtà e queste in fantasia, figuriamoci le guerre.

Lo sforzo bellico è sempre accompagnato da stanchezza, dissapore sociale, criticità espressa e tacita. La Russia non è da meno o diversa da altri stati, e quindi deve da una parte sollecitare il mercato interno con interventi di sostegno sociale al lavoro, dall’altra affrontare le carenze di personale provocate sia dalla “mobilitazione” che dalla emigrazione di massa.

Fu la stessa Banca centrale russa a fotografare il fenomeno; secondo i suoi calcoli, confermati da Alexander Isakov di Bloomberg Economics, la mobilitazione ha espulso 600.000 lavoratori, pari a circa il 2% degli uomini compresi nella fascia tra 20 e 40 anni (una fascia che comprende 30 milioni di cittadini). La reintegrazione nel sistema produttivo non è però intervenuta nei settori che hanno subito lo shock da guerra (quello meccanico, metallurgico, edile e dei trasporti) quanto in quelli collegati alla sicurezza militare ed alla pubblica amministrazione, che da soli hanno assunto quasi 400.000 unità.

La differenza tra le uscite e le entrate – sostenute con spesa pubblica a debito- di circa 200.000 unità è dovuta all’impiego femminile in settori prevalentemente legati all’occupazione maschile, così che i comparti dedicati al commercio, all’industria ed alle costruzioni continuano nella carenza di personale, non essendo state, neanche nei tempi migliori ,un volano efficace allo sviluppo di una economia concorrenziale.

Poiché la Russia è erede di una storia talmente importante e protagonista da avere formato una scuola diplomatica e politica di alto livello, degna di attenzione e rispetto, resta da capire quale sia la ratio, apparentemente suicida, della guerra palese che da tredici mesi sconvolge l’Ucraina, spaventa il mondo, ha accelerato la formazione, non più embrionale, di un nuovo e competitivo sistema di relazioni internazionali ed ha trasformato la Russia, nell’immaginario collettivo diplomatico e delle popolazioni occidentali, in un paria del sistema mondiale.

Immaginare che lo storico centralismo russo abbia partorito una classe dirigente modesta, paranoica, disattenta, peggio: ingenua al punto di cadere in una trappola scavata dal “principe del male” occidentale, gli Stati Uniti, in collaborazione con astuti furfanti ucraini, immette direttamente in un percorso maniacale, che non fa molto onore a soi disant esperti, generali ( fortunatamente in pensione) , intellettuali alla ricerca affannosa di una qualsivoglia pubblicazione, ché ricevere una citazione è assai difficile.

Il grande lavoro “interno” di Vladimir Putin è difficilmente sintetizzabile ( consiglio la lettura del bel saggio della professoressa Mara Morini, La Russia di Putin, edito da il Mulino); mi sento tuttavia di indicare il lavoro di Putin nella avvenuta approvazione di riforme costituzionali incidenti nella composizione della dialettica politica in un sistema bipolare sostanzialmente monocamerale, lasciando alla Camera alta poco più che un potere di ratifica delle leggi da parte dei rappresentanti delle tante amministrazioni “repubblicane” federate, i cui vertici sono nominati dal capo dello Stato. L’evidente verticalizzazione dei poteri esecutivi ha prodotto diversi effetti, tra i quali anche quello di cristallizzare, per tempi che non conosciamo né possiamo prevedere, una grave crisi sociale.

Eviterei, peraltro, di urlare subito all’”autocrazia” imperante e dilagante; rifletterei sullo choc progressivo del gruppo dirigente russo alla presa d’atto della fragilità del sistema economico interno, evidenziata dalla crisi mondiale del 2008/2009 passata alla storia col nome della fallita Lehman Brothers. La Russia si scoprì debolissima, assai più di altri paesi industrializzati, enormemente più della Cina.

Gli economisti russi, il governo, scoprirono che il mastodontico apparato industriale costruito dal comunismo nei primi decenni del Novecento per valorizzare il “miracolo geologico” del territorio, cioè le ingenti risorse minerarie, non era compatibile col nuovo sviluppo produttivo del pianeta e che le riforme adottate a partire dagli anni ’90 per adeguarsi al libero mercato occidentale erano insufficienti o avrebbero tardato nel tempo i loro benefici effetti.

Si rivelarono carenti le misure volte alla privatizzazione delle grandi aziende statali e la liberalizzazione dei commerci per ovviare al peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. 

A partire dal 2009 i paesi occidentali in generale, particolarmente USA , UE ed anche paesi “ex” comunisti dell’Europa centro-nordica, come pure Cina, India, Brasile, esploravano, in modi diversi, un percorso di sviluppo tanto difficoltoso quanto virtuoso; la Russia dovette invece prendere atto che il suo futuro era destinato a trasformarsi in una rincorsa affannata alle nuove potenze; una gara davvero improba, ostacolata dalla bassa produttività dovuta all’arretratezza tecnologico-organizzativa del settore industriale; alla forte dipendenza dalle oscillazioni dei prezzi mondiali di petrolio, gas naturale, aggravata dalla contemporanea trasformazione degli USA da paese importatore a paese esportatore di materie prime energetiche. Prima della guerra in Ucraina il mercato energetico costituiva oltre l’80% del totale delle esportazioni e collocava il PIL russo ben al di sotto di quello dei paesi del G7.

Atlante geopolitico Treccani 2022

Russia

Superfice 17.098.220 Kmq

Popolazione 145.102.755

Incremento demografico -0,51%

PIL annuo 1.775,5 miliardi$

Pil pro-capite PPA 30.850

Era evidente che non c’era il tempo sufficiente per sanare le enormi inefficienze nella distribuzione e nel trasporto delle merci che provocano sprechi e problemi di approvvigionamento; le difficoltà a coordinare le attività economiche di un territorio enorme, caratterizzato da mal gestite risorse di capacità produttive e amministrato da un numero elevato di Repubbliche assai differenziate fra loro.
Il settore primario ( il 3,8% del PIL), dall’agricoltura alla pesca, dalle risorse forestali alle attività minerarie, non è stato negli ultimi decenni coinvolto nel processo di privatizzazione ed è ancora gestito in modo improduttivo e arretrato soprattutto da aziende di Stato e in parte da cooperative.

Il mancato sfruttamento del settore primario è incongruente alla fertilità della Russia europea, dove sarebbe possibile incrementare la produzione di cereali, particolarmente frumento, orzo, segale, avena, mais, barbabietole da zucchero e patate. Lungo le coste del Mar Nero e del Mar Caspio, là dove il clima più mite lo consente, già sono diffuse piantagioni di tabacco e vitigni, girasoli, ortaggi e frutta, ma l’arretratezza produttiva impedisce la soddisfazione del mercato interno. Gli estesi pascoli del Paese consentirebbero adeguati allevamenti di bestiame, così come sarebbe possibile valorizzare lo smisurato patrimonio forestale, a sostegno della industria della carta e del legno. L’industria pesante, siderurgica, metallurgica, meccanica e petrolchimica è più sviluppata, ma sempre meno concorrenziale sui mercati internazionali, dove, prima delle sanzioni e del price cap, regnava la vendita di carbone, petrolio e gas naturale, le principali risorse di un territorio ricco anche di ferro, uranio, rame, oro e mercurio. I beni di largo consumo, la cosiddetta “industria leggera”, non ha un ruolo di primaria importanza nella formazione del PIL.

Il territorio vastissimo e le condizioni climatiche, spesso proibitive, rendono difficili i collegamenti e i trasporti. La Russia ha un discreto sistema ferroviario, benché in alcune aree quasi disabitate della Siberia esso sia del tutto assente. Le linee ferroviarie si allungano nelle regioni meridionali e centrali e si irraggiano dalla capitale Mosca; le più importanti sono la Transiberiana, lunga ben 10000 chilometri, che collega Mosca a Vladivostok, nell’estrema punta sud-orientale e con un ramo arriva fino a Pechino, in Cina, e la Transcaspica, che collega Mosca a Baku, sul Mar Caspio, oggi nell’Azerbaigian. Le strade sono concentrate nella Russia europea, ma il traffico è ancora molto limitato. La rete di fiumi navigabili e canali artificiali è estesissima. In un Paese dalle grandi distanze e dal clima rigido, il trasporto aereo rappresenta in molti casi l’unica soluzione. Il commercio interno ha progredito nei confronti dell’era comunista ma è lontano dai livelli raggiunti dai paesi europei ex comunisti. Il turismo internazionale, oggi praticamente inesistente, era limitato nell’anteguerra alle città di Mosca e San Pietroburgo, poiché non erano, e ovviamente non ci sono, sufficienti strutture ricettive.

Putin ed il gruppo dirigente russo si erano già scoperti vulnerabili perché, nonostante la superficie terrestre quasi pari a quella di Stati Uniti e Cina messe insieme, la bassa popolazione, il gran numero di etnie (secondo il censimento del 2002 convivono 200 etnie), l’oramai vicino sorpasso delle popolazioni asiatiche su quelle di origine europea, causato da una prolungata decrescita demografica, l’economia russa si è rivelata modesta a fronte delle necessità. Nel 2021 il Pil della Russia era inferiore a milleottocento miliardi di dollari, rispetto ai 23,3 degli Stati Uniti. La sola California ha un’economia da tremila quattrocento miliardi, quasi il doppio di quella russa, ma con solo circa un quarto degli abitanti. Il PIL russo è decisamente inferiore a quello italiano, che si attesta a 2103 miliardi, il pro-capite 46.161$.

Attualmente la capacità di importazione della Russia si è ulteriormente indebolita per le sanzioni ed il calo del valore di cambio del rublo: il trenta per cento in meno rispetto al dollaro dall’inizio della guerra contro l’Ucraina alla fine di febbraio 2022. Computer, macchinari e veicoli rappresentano oltre il quaranta per cento delle importazioni russe, e sono tutti beni essenziali sia per la produzione interna che per proseguire una guerra che ha un costo sempre più salato.

Oggi l’esportazione dei prodotti combustibili fossili, chimici, realizzati con combustibili fossili, non è sufficiente a coprire la spesa interna pubblica, perché le sofisticate sanzioni occidentali ne hanno abbassato notevolmente il prezzo.

La UE ha tagliato le importazioni passando da circa settecentocinquantamila barili /giorno di petrolio grezzo a quasi zero, sostituendolo con petrolio di origine medio orientale. Il West Texas Intermediate, il petrolio americano utilizzato per fissare i prezzi di riferimento, è crollato di oltre il quarantaquattro per cento, da un massimo di 123,68 dollari dello scorso anno a 69,20 dollari del 24 marzo. Il greggio Brent, petrolio proveniente dai fondali dell’Atlantico, tra Scozia e Norvegia, viene venduto a settantatré dollari, in calo rispetto ai centoquattordici dollari dello scorso giugno. Il prezzo del petrolio russo è sceso da 92,20 dollari al barile di un anno fa a 49,50 dollari di marzo: un calo del quarantasei per cento, ammesso dalle cifre del ministero delle Finanze del Cremlino.

L’Opec ha attualmente un solo obiettivo: limitare la depressione del prezzo del petrolio impedendo il contagio dalla Russia ad altri produttori, perché l’acquisto ad un prezzo politico, saldato da Cina ed India in yuan e rupie, mette a dura prova non soltanto i paesi Opec ma anche altri paesi produttori come l’Iran, a sua volta soggetta da decenni a sanzioni.

Non ho letto sinora ipotesi di analisi sull’influenza delle sanzioni sui mercati come possibile tema di studio attorno alla necessaria attività diplomatica della Cina, per esempio sulla genesi della pace freddina tra Iran ed Arabia Saudita.

È sempre a causa delle sanzioni che il petrolio russo trasportato via nave è limitato a sessanta dollari al barile comprensive del trasporto, ben al di sotto dei due benchmark (il West Texas Intermediate ed il Brent). Sulla base delle dichiarazioni, tante e spesso discordanti, del Cremlino il prezzo russo effettivo è inferiore di oltre dieci dollari al barile. L’Occidente può limitare il prezzo a sessanta dollari barile perché le petroliere marittime si affidano a compagnie di assicurazione marittima controllabili dai governi, che così impongono il rispetto delle loro sanzioni alla Russia.

La Russia, come è ovvio, si ingegna ad aggirare le sanzioni acquistando petroliere, per forza di cose immediatamente disponibili e quindi obsolete- come ha diffusamente scritto il Washington Post e presumibilmente altri che non ho letto- certamente al prezzo imposto dalla necessità e dall’urgenza, quindi molto più alto dell’effettivo valore. Vendere petrolio a basso prezzo, con imbarcazioni costose, a paesi non propriamente ricchi (Cuba, Corea del Nord, Sri Lanka, Egitto) non è davvero un grande affare. In più dover progettare o l’ampiamento o la costruzione di nuovi oleodotti per aumentare l’export di gas verso l’Asia, magari affidandosi in tutto o in parte alla Cina, non è certamente una prospettiva allettante.

La fuga di cervelli è molto costosa e indebolirà ulteriormente le entrate del governo e danneggerà la crescita economica a lungo termine. Le compagnie petrolifere occidentali, che hanno il know how necessario per l’estrazione del petrolio da terre geologicamente complesse e spesso gelate, sono uscite dalla Russia, il che provoca danni per la mancata competenza tecnica nella gestione dei giacimenti, degli oleodotti, delle raffinerie.

Poiché poi le imprese occidentali non vendono più pezzi di ricambio alla Russia, la rete aerea interna si restringe, non soltanto perché molti aerei di linea sono stati fermati all’estero, spesso a causa del mancato pagamento dei costi aeroportuali e dei rifornimenti, ma anche perché la flotta jet di Airbus e Boeing è cannibalizzata per le parti di ricambio necessarie, diminuendo il numero dei velivoli in esercizio e la sicurezza di volo.

Sta accadendo quello che Putin, il governo, il Consiglio di sicurezza, la grande maggioranza della Duma voleva scongiurare: privazioni, penuria di beni, repressione del dissenso, paura generatrice di repulsione alla guerra, dolore per la morte dei militari e per il numero di feriti; si alimentano sparse manifestazioni di dissenso e diffusa nascosta, opposizione e tragici attentati.

Come in tutto il mondo l’incertezza economica spaventa. L’autorevole quotidiano russo Izvetjia ha pubblicato la relazione della commissione energia del Consiglio di stato russo secondo il quale nell’anno corrente il volume di gas esportato si è attestato a -21% sullo stesso periodo di riferimento del 2022. Le entrate oil&gas sono scese del 64% su base annua, nonostante l’aumento delle imposte sulla produzione. Nei primi mesi del 2023, è una valutazione unanime dei centri di analisi e ricerca, la spesa pubblica è aumentata del 59% sul 2022 e del 90% sul 2021. Per compensare le perdite sul mercato più ricco, quello europeo, la Russia dovrebbe espanderei consumi interni, che, invece, sono in netta diminuzione, e dovrebbe incrementare la capacità di rigassificazione costruendo non meno di 94 terminal di gas naturale liquefatto (Gnl) e due gasdotti per collegare i giacimenti siberiani alla Cina. Obiettivi minimi, sollecitati dal Consiglio per l’energia, ma impossibili a realizzarsi per mancanza di risorse. La Russia non può indebitarsi in valuta estera, come accade negli stati industrializzati occidentali a cominciare da USA, Giappone, Italia, Francia, Gran Bretagna, che non trovano ostacoli a rinnovare i propri debiti e contrarne altri. Il governo russo subisce il peso delle sanzioni, l’isolamento finanziario mondiale che ha provocato la caduta del valore di cambio del rublo, il tracollo delle esportazioni, una seria discrepanza fiscale e si è indebolito il sostegno popolare che all’inizio dell’”operazione speciale” ha accompagnato la sua azione.

Per finanziare la guerra, Putin ha autorizzato il ricorso al risparmio produttivo nazionale, conservato dal suo Fondo sovrano. Nell’ultimo trimestre del 2021 il fondo gestiva un capitale di 14 miliardi di rubli. Alla fine del primo trimestre del 2023 il Fondo è stato depauperato di tre miliardi. Sono rimasti in cassa 11 miliardi, al valore corrente di 150 miliardi di dollari USA. Per dare un’idea di quanto sia insufficiente il patrimonio del Fondo, in riferimento alle necessità di un Paese esteso e popolato come la Russia, riporto che nel bilancio consolidato del 2021 il valore totale delle attività di CDP (Cassa Depositi e Prestiti, il gioiello finanziario dello Stato italiano) è pari a 517, 1 miliardi di euro. In tempi accelerati l’acquisto di materiali bellici, il sostentamento delle truppe, il saldo delle spettanze ai mercenari, le obbligate politiche di assistenza sociale, le limitate entrate da esportazione, aumenteranno la necessità di attingere al “salvadanaio” e di chiedere non gratuiti interventi esterni di sostegno.

La Russia avrebbe potuto negli scorsi decenni accelerare il necessario sviluppo economico evitando il passaggio da superpotenza di un mondo bipolare, a superpotenza in un pianeta affascinato da una fallace ideologia della globalizzazione, a potenza regionale euro-asiatica, a potenza nucleare totalmente dipendente dall’estero?

Avrebbe potuto invertire il declino oramai chiaro negli effetti futuri con la crisi recessiva mondiale del 2008/2009?

Rispondere a queste domande è un lavoro complesso che gli storici dovranno affrontare. Compito urgente appare quello di non accettare come verità assoluta e incontrovertibile che la guerra russa continui infinitamente e che compito di un Occidente spaesato sia, prioritariamente , quello di impedire una disastrosa escalation.

Abbandonarsi ad una concezione difensiva della politica rischia di aprire la porta al formarsi di una pericolosa convinzione, secondo la quale l’aggravamento della situazione economica e sociale interna provocherà una debolezza militare tale da ingenerare la sconfitta russa; naturalmente col retropensiero che il Cremlino urli al vento minacce che non attuerà per diverse ragioni, compresa la pressione cinese. L’altra faccia della concezione difensivo-statica della politica estera in questo, come in altri conflitti, è il generico anti-bellicismo che, appellandosi nella maggioranza dei casi alla “buona volontà” degli uomini ed delle donne, piega il diritto alla vita dei popoli nella libertà, seguendo le regole del diritto, al sopruso autoritario del dominio imperialista, del potere, della forza. In altri termini trasforma la beatitudine personale degli umili, dei giusti, dei martiri nell’inferno terreno dei popoli.

L’analisi statica della geopolitica conduce inevitabilmente a considerare inevitabili le conseguenze delle azioni secondo i parametri definiti dalla Storia ed in alcuni casi dall’esperienza recentemente acquisita ( ad esempio Serbia- Bosnia, Afghanistan, Iraq), quasi che i modelli di riferimento dei processi economici, antropologici, etnico-identitari, comprese le mutazioni geografiche provocate dalla dissoluzione dell’URSS nel 1991, siano immutabili per formare i quadri interpretativi delle relazioni internazionali.

Sostengo, invece, che tutte le discipline che compongono l’analisi delle relazioni internazionali debbano essere elaborate all’interno di un concetto, di uno spirito, di human agency che riporti il ruolo degli esseri umani al centro di attività capaci di provocare effetti sulla società. Gli uomini non hanno il potere di realizzare ciò che progettano o desiderano ma possono collaborare a fare la differenza, prendendo coscienza che fare la differenza significa anche compartecipare idee e proposte che nascono da un ineguale accesso a conoscenze e risorse, che consentono ad alcuni gruppi di “fare una differenza” maggiore di altri gruppi.

Occorre far tesoro della rivoluzione digitale, delle grandi scoperte fisiche e dello spazio, delle nuove società che si sono formate con un radicale cambio del sistema demografico, dell’evoluzione del concetto di religiosità, per trovare nuove strade per la pace e lo sviluppo, invece di invocare la panacea della sostanziale staticità delle cause-effetto e dei metodi per governare le crisi.

Non è inviolabile lo schema che ha governato per secoli le conclusioni dei conflitti, con riferimento alla Pace di Augusta ed a quella di Westfalia, il cui metodo servì da base allo svolgimento del Congresso di Vienna (1815), Congresso di Parigi (1856), Conferenza internazionale di Parigi (1919).

Augusta (1555) ed il complesso dei Trattatati sottoscritti nel 1648, che sono conosciuti come Pace di Westfalia nel contesto eurocentrico dell’epoca, organizzarono un sistema di “Ordine globale “, che ha inspirato la politica mondiale fino al suo ultimo grande esponente, Kissinger.

La prima osservazione, apparentemente semplice che già descrissi in uno dei miei saggi quasi vent’anni fa, che ripeto oggi con convinzione, è che non si può riparare un danno importante in un sistema complesso usando un cacciavite.

La seconda osservazione è legata ai tempi richiesti dalla complessità: lunghi, articolati per tappe.

Non è facile, né difficile, è inutile proporre un piano di pace. Un politologo può, in coscienza piuttosto che con sapienza, osservare dati di fatto, esplicitare alcune opzioni che, alla luce di quanto è conosciuto, potrebbero agevolare il difficoltoso viaggio da intraprendere per un cessate il fuoco e poi una Pace durevole.

Abbiamo affermato che le così dette mappe geo politiche sono essenzialmente ricavate da un metodo storicizzato di analisi dei problemi. Anche questa rischia di essere una considerazione “ideologica”, un rigido incanalamento delle acque mutevoli della realtà, se non viene per lo meno esplicitata la ratio che ne suggerisce la proposta.

Dalla filosofia alla quotidianità il mondo globale si è trasformato e noi lo abbiamo definito “liquido”. È stato soprattutto Zygmunt Bauman che ha fotografato esistenza ed effetti della modernità liquida, nella quale nuotano i singoli individui tra le rive del bene e gli scogli del male che attraggono i desideri e gli interessi di una malvagità sociale che si camuffa nelle sembianze amichevoli di chi si dichiara pronto ad aiutare, a dare una mano.

Evaporando i concetti di assoluto e formandosi sottili coercizioni etiche, che hanno plasmato bisogni e criteri di giudizio, morbidamente plastici e “relativi” ad una pluralità di interessi- come le religioni monoteiste sanno bene- si sono modificati i concetti di verità e di falsità; nella ricerca della convenienza relativa la sindrome comportamentale ha comunemente etichettato come prioritaria la individuazione della “res”, per adeguarsi a questa piuttosto che a stimarla per confrontarne benefici o pericolosità.

La società liquida non è soltanto “fluida” nelle argomentazioni, ma comporta la sostanziale modifica dello stato fisico del corpo che la contiene, lo Stato, e l’interpretazione e applicazione delle regole che lo fanno funzionare, le regole, le leggi.

E non è quello che visibilmente accade nell’epoca del politically correct?

La pace che vuole essere duratura e sconfiggere la guerra infinita deve essere perseguita con la pazienza dell’artigiano che sa di dover usare, e saper usare, molti strumenti e tanti materiali, dei quali una parte forse non irrilevante, sono assenti dalla sua bottega.

Il che significa sottolineare che il compito del politologo esperto in relazioni internazionali è quello di aiutare a definire il quadro generale di intervento, la volontà degli attori a condividerla, lo studio separato dei problemi e la loro coordinata e successiva soluzione.

La Pace non è un optional: se c’è è meglio se non c’è ci accontenteremo. La Pace è l’esigenza ineludibile per convivere nel pianeta piccolo, malato e disordinato nel quale viviamo.

La difficoltà a trovare e partecipare un ordine consapevole e condiviso esige uno sforzo così gravoso che non è possibile attendere alla sua formazione per concludere crisi generali ed immediate (guerra, clima, fame ad esempio) ed è necessario usare buon senso e pragmatismo pur avendo chiaro il percorso ed il fine.

Oggi occorre rompere la prospettiva della guerra infinita, restituendo dignità e sacralità all’unica creatura che, secondo una pagina esaltante e coinvolgente dell’Antico Testamento, fu forgiata da Dio (Gen.1,27) “a sua somiglianza”, vitalizzata (Gen.2,7) dal creatore che” soffiò nelle sue narici con alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.

Per collaborare allo stabilimento della pace tra gli uomini, che proprio perché tale è sempre transitoria, occorre tenere conto delle molteplici realtà che partecipano alla individuazione dei presupposti critici da portare a soluzione, perché la politica è adattamento pragmatico delle regole ai principi inviolabili.

Abbiamo sottolineato da subito la spregiudicatezza, la improponibile immoralità, del suggerimento di arrendersi alle ragioni della forza, come è stato dimostrato dalla orami certa sconfitta politica e storica dell’invasione russa. È altrettanto chiaro che una vittoria militare della Russia aprirà la strada ad un conflitto con i paesi dell’Unione , anche per la dovuta osservanza del patto di difesa reciproca esplicitato dall’articolo 42 del Trattato di Lisbona (argomento studiato ed approfondito dal costituzionalista professor Felice Besostri che lo ha collegato al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il TFUE -358 articoli- che ho, purtroppo, scoperto essere generalmente e colpevolmente ignorato soprattutto dai parlamentari europei e da quel tipo, non raro, di “geopolitici” convinti che la realtà muti secondo cangevoli interpretazioni delle cartine geografiche).

La vittoria politica ucraina, per quella militare si vedrà, delimita, meglio, aiuta a formare un campo possibile e legittimato per iniziare a discutere. E per campo si intende non tanto il luogo fisico ed istituzionale ma chi è considerato legittimato a discutere perché credibile e autorevole. Papa Francesco, e per /con lui una delle più sofisticate diplomazie del mondo, quella vaticana, ha dovuto scoprire quanto la sua stessa “unica”, originale, peculiarità non sia ancora sufficiente a predisporre un tavolo per un incontro tra l’aggressore e l’aggredito. Persino il dichiarato rispetto di Pechino per la Russia e l’Ucraina, con i 12 punti per la trattativa, non è stato utile, come apparve da subito chiaro, per aprirla.

Lo status quo presuppone una guerra infinita e quindi, dopo l’umiliante lezione di quel gran diplomatico del ministro degli esteri russo Lavrov nella quale ha spiegato alle Nazioni Unite che il potere del diritto di veto è superiore al rispetto del diritto internazionale, si deve riflettere sulla necessità di attendere il momento del ritorno attivo dell’ONU. È un ostacolo non da poco conto che può in un primo tempo essere superato attraverso la intermediazione di incaricati alla predisposizione di una agenda di colloqui.

Intermediatori che, proprio perché tali, potranno liberamente intavolare i livelli necessari di interlocuzione con le parti coinvolte direttamente ed indirettamente nel conflitto, godere dell’assistenza, tramite questa volta gli organismi onusiani che partecipano a diverso titolo al sistema multilaterale, soprattutto economico e finanziario.

Per iniziare i lavori per una pace duratura potrebbe essere utile proporre un’agenda che, dando tempo alla soluzione, metta all’ordine del giorno la fine del disordine globale. Attualmente nazionalismi, dazi, barriere impediscono prospettive di crescita, hanno alzato la soglia degli impedimenti agli scambi ed agli investimenti: la bomba russa è esplosa per la impossibilità di coniugare uno sviluppo difficilissimo in un periodo breve, nel mentre una precarietà sociale, sconvolta dalla fine di un impero ideologico e superbamente nazionalista, poteva far presagire la deflagrazione di una guerra civile. La via d’uscita, immaginata risolvibile con la prepotenza, l’inganno, sistemi ibridi di vario tipo, uso cinico dell’influenza manipolatrice è stata sconfitta sul campo. dando così alla interdipendenza quella virtuosità non ideologica che ha frenato la crescita di tante nazioni, permettendo a poche, e per specifiche differenti ragioni, di partecipare profittevolmente alla rivoluzione del WTO nel quale entrò la Cina, divenuta la prima potenza manifatturiera del mondo.

Questa affermazione non è un volo pindarico, ma nasce dall’idea degli sherpa, cioè dei diplomatici a capo delle delegazioni tecniche degli stati che compongono il Gruppo, di discutere nel prossimo G7 i rapporti dell’Occidente con la Cina.

Oramai, a tredici mesi dall’inizio dell’invasione, è chiaro che la svalutata Europa è tornata tra i punti centrali di quell’ideale cerchio geometrico dove si concentrano le spinte innovative o involutive che possono promuovere o infrangere l’equilibrio del pianeta.

Molto ha da dire l’Europa, che si è ri-scoperta debole nel sistema di difesa per fronteggiare eventuali nuove esigenze belliche e quindi più bisognosa della cooperazione militare della NATO, che oggi appare ancora più legata d’altri tempi ad un apparentemente incoerente esercizio del primato statunitense, ma che è fondamentale per lo stabilimento di nuovi necessari equilibri.

L’incoerenza statunitense si misura non sull’azione dei singoli presidenti ma in rapporto alle attività non coerenti tra le diverse presidenze. Il caso Trump è evidente, ma sarebbe illusorio non valutare diverse, a volte opponenti, le politiche estere dei Busch, di Clinton e di Obama.

Anche all’interno delle stesse presidenze si devono cogliere segnali diversi.

Fu proposta lo scorso anno contro i ricatti delle autocrazie di “fare affari con i paesi amici” dal Segretario di Stato, Janet Yellen, che ha come dote non soltanto il suo lungo e apprezzato insegnamento di economia alla Haas School of Business di Berkeley, dove è professoressa emerita, ma anche la sua presidenza della Federal Reserve. Yellen conosce bene, come economista e banchiera, il peso della “friendshoring”, e parlando di relazioni commerciali non si riferì genericamente al potere dei commerci ma a quello del commercio con la Cina, che citò direttamente in una sua lezione alla Johns Hopkins University.

Nel mondo “liquido” Yellen ha esplicitamente allarmato il sistema sui rischi del decoupling, un progetto che è di gran moda, nella politica esibita sui palcoscenici popolari, sulla stampa, e che scivola là dove serve tra le maglie della diplomazia, dei sistemi finanziari, dell’intelligence.

Il fatto è che nella società liquida, non regolabile con i canoni della fermezza di valori, considerati in altre epoche storiche intangibili, rinunciare alla globalizzazione dei commerci – essendo fallita quella ideologica- apre dopo trent’anni una pericolosa faglia di convivenza pacifica generale che, nonostante la retorica negativa delle guerre locali diffuse, tuttora resiste a dispetto delle vigorose spallate russe.

Nel prossimo G7 è quindi auspicabile che il decoupling auspicato dalla maggioranza repubblicana del Congresso e non palesemente esclusa dalla comunicazione della Casa Bianca, non entri tra gli accordi degli Stati membri.

Se osserviamo le aspettative di crescita della Cina, aggiornate nelle previsioni di queste ultime settimane della Bank of America, dal più 5,5 al 6,3%, è più facile comprendere che anche il deresking presentato alla Cina in modo cautelare e diverso dalla UE (Von der Leyen), Germania ( Scholz), Francia ( Macron) non è ininfluente sulla costituzione di un nuovo Ordine commerciale, che dovrà comprendere un ruolo più incidente della Cina e di un nuovo protagonista asiatico che appare destinato ad essere concorrenziale alla Cina- fabbrica del mondo, l’India. Nello stesso tempo anche la guerra in Ucraina e nei suoi territori invasi potrebbe trovare una sponda possibile per far approdare le speranze di cessate il fuoco; la neutralità della Cina potrebbe, sempre al condizionale, indurre la Russia a rivedere le condizioni che l’hanno indotta alla sciagurata invasione e gli Stati Uniti ad iniziare la discussione sulle modalità di cessate il fuoco con gli ucraini e gli europei.

Le incognite e le variabili sono molteplici : fra tutte il deresking controllato dovrà tener conto, specialmente nell’anno che precede le elezioni presidenziali statunitensi, più che del territorio di Taiwan della necessità di preservare sia l’indispensabile know how occidentale in specifici sistemi che coinvolgono la sicurezza, sia di trovare un metodo equilibrato di individuazione e sfruttamento del nuovo petrolio : le terre rare, essenziali al funzionamento del variegato meccanismo che regola l’esercizio del mondo digitale.

Il fallimento dell’Ordine mondiale ideologico si è concretizzato nella scarsa comprensione della rivoluzione del Tempo e dello Spazio che ha caratterizzato la rinuncia- a volte intollerante- a valori relativizzati in interessi progressivamente divenuti individuali. Gli Stati “nuovi”, pressati dalla eterogenia dei bisogni, rimodelleranno il concetto di partecipazione politica passando dal modello di welfare a quello di workfare, rivoluzionando il concetto stesso di Stato nell’ambito della necessità prima del fare, che è quella di esistere, di vivere.

Kissinger ha ragione su un punto fondamentale: la necessità del mondo di un Ordine globale cui fare riferimento.

Se è cambiato il sistema alla base dell’Ordine vestfaliano, che poggiava su un diritto internazionale eurocentrico riconosciuto dalla distribuzione gerarchica dei poteri, il nuovo multilateralismo dovrà, in un futuro non condizionale ma indicativo, disegnare una nuova scala di poteri che per il sistema commerciale e produttivo si dovrà forzatamente poggiare, per evitare il disordine su una catena di accordi che regolano le transazioni. Le sanzioni alla Russia hanno dimostrato nell’era digitale che l’uso dello SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), il sistema di messaggistica globale che con quattro passaggi autorizza le parti in commercio a saldare gli importi concordati, è tanto in ritardo sull’uso garantito del sistema digitale, comprese le valute digitali, quanto uno strumento straordinario di controllo e blocco dei commerci. Altro problema da affrontare, ci vorranno anni per risolverlo, riguarderà la internazionalizzazione delle monete.

La Cina è decisamente interessata al mercato delle valute; ha operato nel 2022 scambi per 6,1 miliardi $. Lo Yuan dal 2016 è incluso nel paniere degli SDR (Special drawings rights), i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale; ciò posto Pechino non desiste, nonostante le rigidità del suo sistema di poteri che influisce direttamente sull’azione della Banca centrale, dal voler concorrere al mercato delle valute di riserva, che sono al 60% detenute in dollari. La questione, prima ancora dell’importanza attribuita alla Via della Seta, è considerata essenziale per il governo cinese. Oggi il mercato delle valute è formalmente legato ad accordi bilaterali. La Cina ne ha siglati una trentina che stabiliscono la compensazione dello yuan con un certo numero di paesi. Credo che sia interessante sottolineare che nel 2021 Andrew Balley, Governatore della Banca d’Inghilterra, ha rinnovato per il triennio successivo lo swap di 55 miliardi$ con la Cina e contemporaneamente l’autorità bancaria di Hong Kong ha attivato con la Banca centrale cinese lo scambio “rafforzato” di valuta, ottimizzando il vantaggio della Bond connection con le Borse cinesi, uno dei pilastri del commercio mondiale.

Ciò detto non per addentrarsi nelle tecnicalità essenziali alla formazione di un riconosciuto Ordine mondiale commerciale, ma per sottolineare che il sistema globale, il “new normal”, è formato da entità complesse e frammentate non risolvibili, come ha compreso in generale la UE e particolarmente la Francia, in una competizione strategica USA-Cina, basata secondo il metodo trumpiano, sulla continua restrizione degli scambi con Pechino.

L’attuale conflitto, che si preannuncia persistente, ma che da grave può divenire catastrofico, la necessità di modelli economici sostenibili per l’ambiente e quindi il bisogno di forti investimenti tecnologici diffusi, l’erosione del sistema multilaterale, la frammentazione nazionalista e individualista dei bisogni, il decoupling, sono ostacoli seri alla progressione dello sviluppo e della Pace.

Il mondo si accorge ora più che mai che non si può subire l’incertezza provocata dalla mancanza di un grande disegno, respirando l’ossigeno necessario alla sopravvivenza tra uno choc ed un altro, finanziario, sanitario, bellico.

Quello stesso mondo dinnanzi a chiare dimostrazioni di interesse a valutare, studiare, proporre, concordare, come già tante volte nella storia, nuove concrete volontà di cambiamento, si comporterà come le banche creditrici: piuttosto che il fallimento del debitore collaborerà al successo di un piano risanatore.

È quello che può accadere concretamente nella guerra attuale sapendo i vincitori- ed i loro alleati-che gli sconfitti, politicamente e/o militarmente di oggi, non debbono essere per forza i nemici di domani. Anzi, la evoluzione pacifica europea ci racconta che è possibile.

Più passa il tempo più è evidente che aumenta una crisi interna alla Russia, che non va alimentata dall’esterno.

Lancino i paesi occidentali i segnali giusti, e c’è una speranza concreta che le parti comincino ad accettare una mediazione internazionale autorevole, che permetta l’apertura di un tavolo di trattative.

I tempi saranno lunghi, ma si scorgerà la fine del tunnel.