26-27 GIUGNO 1983: LE ELEZIONI POLITICHE DI QUARANT’ANNI FA

di Franco Astengo |

Il 26-27 giugno 1983 si svolse un turno di elezioni politiche anticipate, gestite da un governo Fanfani molto provvisorio dopo che nel corso della legislatura la presidenza Pertini che dopo i passaggi dei governi Cossiga e Forlani (durante il cui mandato erano stati scoperti gli elenchi della P2) aveva concretizzato, per la prima volta dalla fase-post resistenziale del gabinetto Parri, una presidenza del consiglio non democristiana affidata al segretario del PRI Giovanni Spadolini.

Sono passati esattamente quarant’anni e vale la pena ricordare quel passaggio della storia politica del nostro Paese non tanto e non solo per la ritualità della scadenza.

Andò alla prova, in quell’occasione, il PCI portato sulla linea dell’alternativa con la “seconda” svolta di Salerno annunciata da Berlinguer nel pieno del dramma del terremoto dell’Irpinia del 1980 e la nuova veste del PSI condotto sulla linea dell’autonomia anche ideologica (il saggio di Pellicani su Proudhon) dalla segreteria Craxi.

Nel dopo XVI congresso del PCI vi furono contatti e un famoso incontro alla Frattocchie che sembrò in una qualche misura come un passaggio di avvicinamento, mentre De Mita aveva lanciato la DC sulla strada di un rinnovamento di stampo tecnocratico, in linea con le tendenze dell’epoca dominate dall’avvento della reaganomics negli USA e della presidenza Thatcher in Gran Bretagna.

L’esito elettorale fece registrare un punto di novità che poteva essere giudicato in quel momento sostanziale, da vera e propria “elezione critica”: quello del calo della DC nella misura più consistente dalla nascita della Repubblica.

In un quadro complessivo che vedeva per la prima volta la percentuale dei partecipanti al voto scendere sotto il 90% fermandosi all’88,3% (il timore della crescita delle astensioni aveva pervaso tutta la campagna elettorale) la DC perse quasi due milioni di voti (da 14.046.290 a 12.153.081) oltre 5 punti percentuali (da 38,30% a 32,93%). Il PCI (che nelle sue liste aveva incluso oltre alla Sinistra Indipendente anche il PdUP e la Lega dei Socialisti, frutto di una scissione del PSI avvenuta nel 1981) tenne a fatica le posizioni scendendo da 11.139,231 voti (30,38%) nel 1979, a 11.032.218 (29,89%) nel 1983. Il divario tra le due forze protagoniste del “bipartitismo imperfetto” si ridusse considerevolmente (“in discesa” per via del calo democristiano) da 2.907.059 voti a 1.121.763 (nella notte tra il 27 e il 28 giugno un affluire di dati parziali aveva perfino fatto pensare qualcuno al “sorpasso”).

La nuova linea del PSI portata avanti fin dallo schierarsi sulla “linea della trattativa” durante il rapimento Moro pagò con circa 650.000 voti in più(1,63% in percentuale) passando da 3.596.802 a 4.223.362 ma l’incremento maggiore, nell’ambito del quadro governativo uscente fu ottenuto dal PRI qualificatosi come campione della “questione morale” e passato da 1.110.209 voti (3,03%) a 1.874. 512 voti (5,08% con il passaggio della soglia psicologica del 5%). “Questione morale” che nel corso della campagna elettorale si era imposta all’attenzione dell’opinione pubblica con i fatti di Torino (caso Zampini- Biffi Gentili) e della Liguria (Caso Teardo, con l’arresto dell’ex-presidente della Regione e candidato alla Camera dei Deputati, anche lui iscritto alla P2).

L’esito politico della tornata elettorale fu però quello di rendere ancora più netto il divario a sinistra: il PCI dimostrò l’insufficienza della sua proposta di alternativa; il PSI considerò la posizione di governo come punto d’appoggio per la ricerca di un “riequilibrio” a sinistra.

Il 21 luglio il presidente Pertini conferì a Craxi l’incarico di formare il governo: il 4 agosto il governo giurò e il 12 dello stesso mese ricevette la fiducia della Camera. Un governo di penta-partito guidato per la prima volta nella storia da un socialista. Si avvicinava la bufera degli anni’80, del decreto di San Valentino, dell’installazione degli euromissili (ma anche di Sigonella), della “Milano da bere” e della “grande riforma”.

Questa improvvisata ricostruzione intendeva soltanto affrontare un passaggio elettorale che non può essere dimenticato quando si intende misurarsi sul complesso e tormentato cammino percorso dalla sinistra nel sistema politico italiano.

Si stava avviando la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in “antipolitica” nel corso della cui fase di espansione si svilupparono, favoriti dalla concezione maggioritaria della “governabilità” via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in “partiti pigliatutto” poi in partiti “azienda” o “personali” fino all’approdo alla democrazia recitativa all’interno delle cui coordinate ci stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento (inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all’esecutivo e al condizionamento del peso delle lobbies.

Al frantumarsi della società in isole corporative e nell’egemonia assunta dal fenomeno dell’individualismo competitivo i nuovi partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose per la democrazia come quelle rappresentate dalla costruzione di una “Costituzione materiale” di stampo presidenzialista che si sta cercando di torcere in una modifica effettiva della Costituzione del ’48.