REDDITO D’IMPRESA, REDDITO DI CAPITALE


di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Quando si parla di equità orizzontale, in materia fiscale, si espone un principio generale che consiste nel tassare in modo uguale l’imponibile fiscale indipendentemente dalla fonte dalla quale l’imponibile deriva. In parole povere un importo di x euro, qualunque sia la sua provenienza, deve pagare lo stesso importo di imposte.

Questo principio era osservato dalla riforma fiscale alla sua origine, ma nel tempo si è corporativizzato facendo di ogni reddito un regime a sé, in modo da trattare in modo separato le varie fonti di reddito, privilegiandone alcune e penalizzandone altre, e in ciò non è estranea la ricerca di consenso elettorale.

Ricordo l’esempio di come è tassato, oggi in Italia, un reddito di 36.000€ a seconda della fonte del reddito:

RenditaLavoro
TipologiaTitoli statoCapitaleFabbricati 1Fabbricati 2Forfettari 1Forfettari 2Lavoro
Aliquota12,50%26,00%21,00%10,00%15,00%5,00%26,39%
Imposta4.3209.3607.5603.6005.4001.8009.500
Addiz. Regione000000586
Addiz.comune000000229
Totale4.3209.3607.5603.6005.4001.80010.315
        
        
                    
        

decisamente inaccettabile una differenziazione che vede il lavoro dipendente e dei pensionati essere tassato in modo spropositatamente maggior delle altre fonti di reddito, ecco perché l’Italia è una repubblica “fondata sul lavoro”.

Ma a parte questo argomento che ho già trattato altrove, vorrei fare un approfondimento sulla voce “reddito di capitale” che va affrontata tenendo in considerazione anche il “reddito d’impresa” i cui regimi si incrociano anche in funzione del tipo di impresa personale o societaria con cui il reddito è prodotto.

In origine il reddito di impresa era tassato al momento del suo incasso con l’imposta progressiva applicata a tutti i redditi (ecco come funziona l’equità orizzontale),  con un gap temporale tra il momento della produzione del reddito e il momento della sua tassazione, momento che corrisponde alla distribuzione dei dividendi. Con tale sistema era possibile che un’impresa che producesse utili ma che mai li distribuisse se non alla fine della sua vita, non pagasse un euro di imposta se non allo scioglimento della società quando si fosse liquidato il conto con i soci. Per sopperire a questo sfasamento temporale si istituì l’IRPEG, l’imposta sulle società, concepita come un “acconto di imposta” da pagare nell’anno di produzione del reddito ma da dedurre al momento della distribuzione del dividendo. Al momento della distribuzione del dividendo si calcolava l’IRPEF sul reddito imponibile, senza tener conto dell’IRPEG pagata, assoggettando l’imponibile alle varie aliquote progressive uguali per tutti, quindi determinata l’imposta lorda si detraeva l’acconto già pagato mediante l’IRPEG.

Il carico d’imposta era uguale a quello pagato sui redditi d’impresa personale che scontava l’IRPEF con la comune scala progressiva sull’utile dichiarato ma, a differenza delle società, pagava interamente come se l’utile fosse distribuito immediatamente.

Per equiparare le due situazioni fu inventata l’IRI, ovvero una imposta per le imprese personali con un meccanismo simile a quello applicato alle imprese di capitale, tale legge non entrò mai in vigore e fu alfine abrogata.

La situazione cambiò (credo con Tremonti) quando l’IRPEG ora denominata IRES cessò di essere un acconto ma diventò una imposta a sé stante. In tal modo l’imponibile per il percipiente, il dividendo non era calcolato sul reddito totale ma su una quota di esso, come da seguente prospetto:

Anno     Aliquota IRES       Credito d’imposta          Imponibile

2000           37.0%                       58.73                            41.27

2001           36.0%                       56.25                            43.75

2003           34.0%                       51.51                            48.49

2004           33.0%                       60.00                            40.00

2008           27.5%                       50.28                             49.72

2017            24.0%                      41.86                             58.14

In tal modo si stabiliva una connessione tra aliquota del reddito d’impresa IRES e aliquota sul reddito da capitale, di modo che la somma delle due imposte fosse sempre costante. Se cioè l’aliquota IRES era del 37% l’imponibile per il dividendo diveniva 41.27, ma al diminuire dell’aliquota IRES (oggi al 24%) aumenta corrispondentemente l’imponibile per il dividendo al 58.14%.

Oggi poi, la tassazione è ulteriormente mutata, ovvero si paga l’Ires al 24% e sul dividendo (dopo un periodo in cui si distingueva tra soci qualificati e non) si paga la tassa piatta del 26%

Quindi fatto 100 l’utile pre-imposte tolta l’Ires di 24 e l’irap di 3, abbiamo un dividendo pari a 73 su cui applichiamo la flat tax del 26% determinando un imposta di 19. Il totale imposte è quindi di 27+19= 46%.

Ovvio che con questa logica ad ogni mutamento dell’aliquota IRES deve corrispondere un mutamento inverso della flat tax; se l’IRES fosse eliminata allora la flat tax salirebbe al 46%.

Ma come può il piccolo azionista investire in azioni quando il dividendo è tassato al 46% imposta che neppure con l’originario sistema progressivo si sarebbe mai raggiunto, neppure da parte dei paperon dei paperoni che guadagnano miliardi di € che con la progressività applicherebbero al massimo scaglione il 43%.

Aiuta questa tassazione l’investimento in iniziative produttive?  

E perché la speculazione, la rendita, il capital gain che non producono ricchezza sono tassati al 26% di flat tax mentre l’investimento in attività produttiva è tassata al  27+19=46%

Ma la riflessione non è finita qui.

Il gettito IRES annuale e di circa 32 miliardi di € (nei prossimi anni calerà perché quell’imposta sarà pagata non con soldi ma utilizzando i crediti d’imposta del superbonus 110%) ma a fianco di questi fondi incassati dallo stato dobbiamo considerare i sussidi, gli aiuti che lo stato riversa alle imprese. Un datato lavoro di Giavazzi sommarizzava lo status come segue:

“I trasferimenti a imprese riportati nel Conto consolidato di cassa del settore pubblico ammontavano, nel 2011, a 36,322 miliardi di euro. Amministrazioni centrali e locali erogano una quantità di contributi più o meno simile. Queste cifre comprendono voci molto eterogenee. I dati pubblicati nella relazione del Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE) riguardano invece un sottoinsieme più ristretto, inquadrabile nella disciplina degli aiuti di Stato: circa 6 miliardi nel 2010. Nessuna di queste cifre comprende l’erosione fiscale dovuta a varie agevolazioni concesse alle imprese. La Commissione Ceriani ha stimato che nel 2011 l’erosione ammontasse a oltre 30 miliardi di euro”

Se ne deduce che le imposte pagate dalle imprese vengono più che compensate dagli aiuti a fondo perduto e/o in conto capitale che lo stato ritorna alle imprese. E’ allora la fiscalità generale (rectius le tasse pagate da lavoratori e pensionati) a finanziare le imprese che non contribuiscono a versar fondi all’erario anzi attingono a vari titoli alle casse dello stato.

Rimane sempre la proposta di trasformare questi regali in fondi investiti sotto forma azionaria o societaria da parte della collettività, un fondo simile alla CDP che tende ad attuare l’art.46 della Costituzione, a dare alle imprese un criterio di scelta del “cosa produrre” basata sul raziocinio e non su quel criterio barbaro che è il profitto, pensando più al valore d’uso che non al valore di scambio, attuando cioè la razionalità illuminista rappresentata dal socialismo.