“SOTTO” IL DECRETO LAVORO NIENTE!

Le politiche del governo all’insegna delle privatizzazioni e della contrazione del welfare|


di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |

Ci sono vari indici riguardanti la situazione della nostra economia in rapporto a quella dei principali Paesi della U.E. che segnano da mesi “bel tempo” e ciò riguarda – con i suoi alti e bassi – l’andamento della produzione e delle attività terziarie, l’andamento dell’export (per l’Italia, Paese di trasformazione e privo di materie prime,  valore fondamentale), l’andamento della Borsa e dello spread costantemente al di sotto dei 170 punti.

Alcune misure, decise dai precedenti Governi per combattere la crisi economica derivante da Covid-19 (agevolazioni e sostegni all’impresa per la trasformazione digitale e i vari bonus edilizia), hanno prodotto questa ripresa, anche se ora si sente molto il bisogno di consolidarla non con provvedimenti “spot ” ma  con una programmazione di rilancio e consolidamento strutturale della nostra economia che NON  ci sembra essere all’odg degli impegni e della politica  dell’attuale Governo.

Il Governo Meloni sembra interessato piu’ che altro a “ripagare” in maniera corporativa gli interessi dei ceti sociali che l’hanno votato, non senza qualche contraddizione viste le divisioni che – al pari della opposizione e della sinistra – sussistono anche all’interno della sua maggioranza pur mascherandole con  rinvii e omissioni. Restano, invece, irrisolte pesanti criticità.

Intanto l’inflazione che vede l’Italia, immediatamente dopo la Germania (6,8 %), a registrare ancora il tasso piu’ alto (6,7 %) al di sotto della media dell’Eurozona (5,5 %) con Francia al 5,3%, Belgio e Spagna all’1,6% e la Grecia al 2,7% per citare i Paesi a noi vicini. Siamo d’accordo con la critica alle reiterate decisioni della BCE ed in particolare della sua Presidente Lagarde che pensa di aggredire il flagello inflazionistico con l’aumento dei tassi bancari, ma ci aspetteremmo dal nostro Governo scelte (e non solo critiche alla BCE) alternative tenendo conto – come hanno ammesso anche il governatore di Bankitalia e del Prof. Draghi che si tratta di una inflazione da eccesso di profitti e non di salari e consumi.

E qui veniamo al punto di questa nostra nota. Siamo ancora alle prese con due grandi criticità sociali che “Socialismo XXI” ha messo in evidenza –  anche di recente –  fin dalla nostra Conferenza programmatica di Rimini del 2019: la questione salariale e le contraddizioni e le fragilità del nostro mercato del lavoro, rispetto alle quali sono state date da precedenti Governi risposte inadeguate e contradditorie. Su questa strada ha proseguito  anche l’attuale Esecutivo con la recente approvazione parlamentare del c.d. “decreto lavoro”.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, dobbiamo registrare certamente non per merito di questo Governo un risultato positivo in termini generali nel senso che abbiamo raggiunto la cifra degli occupati a maggio scorso di 27.471.000 unità (piu’ 383.000 rispetto a maggio 2022) mai raggiunto anche prima della crisi economica a conferma del dato di fine 2022 di circa + 500.000 unità rispetto all’anno precedente con un aumento dei contratti a tempo indeterminato ed una consistente riduzione dei contratti a tempo determinato.

Le statistiche vanno però interpretate:  sarebbe importante conoscere quanto lavoro autonomo si registra nel dato generale dell’occupazione e se dentro questo lavoro autonomo vi è parecchio lavoro di false “partite iva” o contratti di collaborazione continuativa, forme apparentemente meno subalterne del lavoro dipendente classico ma, in molti casi, piu’ carico di sfruttamento anche perché – data la natura del rapporto – non regolato da un CCNL.

Sul dato poi dell’incremento dell’occupazione a tempo indeterminato, data la contemporanea riduzione dei rapporto di lavoro a tempo determinato, piu’ che di nuova occupazione aggiuntiva si potrebbe intenderla per larga parte una trasformazione dei rapporti di lavoro  a scadenza in rapporti a tempo determinato, dettata anche  dal fatto che, nella aree produttive a piu’ alta densità di occupazione le imprese, come richiamato dagli appelli delle Confindustrie locali e delle sezioni territoriali  di Confcommercio e Turismo, non riescono a trovare nuove disponibilità di prestazioni lavorative.

Certamente, come abbiamo piu’ volte spiegato, esiste un gap nella formazione e nell’addestramento professionale che non prepara adeguatamente personale da adibire in nuove modalità lavorative caratterizzate dalla introduzione delle nuove tecnologie informatiche, della meccatronica, della automazione e – per quanto riguarda le attività commerciali e turistiche –  da nuovi e moderni approcci con una clientela più esigente. L’arretratezza su questo campo è grande e diffusa ed ha responsabilità sia pubbliche che dell’imprenditoria interessata.

L’altro motivo riguarda la remunerazione del lavoro, anche quando è qualificato, che rende poco attrattivo per le nuove generazioni l’impiego nella maggioranza delle occasioni loro offerte. E la statistica ci viene in soccorso.

Non solo il livello di occupazione in Italia, anche dopo i recenti incrementi suaccennati, è sotto la media europea, ma il dato più sconfortante è rappresentato dall’aumento della disoccupazione GIOVANILE (15-24 anni) che registra un + 0,9 %  salendo al 21% dell’area (uno dei dati peggiori in assoluto in Europa) ed al quale si aggiunge un piu’ 0,7 % dell’occupazione femminile, il cui dato assoluto è anch’esso fra i piu’ bassi in Europa.

Infatti, sempre le statistiche europee ci spiegano che nei tassi di attrattività dei giovani all’impiego, le Regioni italiane si trovano in coda: La Lombardia al 38° posto con un tasso del 47,76 %, il Veneto al 58° posto con un tasso del 44,69 %, il Lazio al 62° posto e subito dopo l’Emilia con il 44 % e via via le altre mentre le tre migliori in Europa registrano un tasso di oltre il 60% e sono la regione di Stoccolma, quella di Parigi e l’Alta Baviera di Monaco. Ci precedono altre 34 Regioni di vari Paesi d’Europa.

I motivi della “fuga” di giovani all’estero: la facilità di trovare lavoro ben retribuito, la richiesta di competenze intellettuali, la presenza di grandi imprese che possono offrire opportunità di carriera, la possibilità di spostarsi facilmente e rapidamente, l’elevata cultura imprenditoriale che promuove innovazioni e produzioni attrattive nei mercati mondiali.

Di tutto questo nel recente “decreto lavoro” non c’è nulla, si ignorano le condizioni negli altri Paesi anche a noi vicini e si pensa che lo sviluppo di attrattive opportunità occupazionali possa derivare dall’incrementare (come deciso dal decreto “lavoro”) la durata temporale dei rapporti a tempo determinato perché il Governo ha letto che è in forte crescita la tendenza alle dimissioni spontanee da parte dei giovani dopo un breve tempo dall’assunzione. Oppure di fare nuove agevolazioni e “regali” fiscali ad imprese, parte delle quali alimenta la piu’ alta evasione fiscale d’Europa (il 34 % del PIL).

Da tempo abbiamo messo il dito sulla piaga della “questione salariale” ed abbiamo spiegato, anche in questo caso  interpretando le statistiche, come NON  è vero che la retribuzione media italiana è la piu’ bassa dell’Europa ( 27 Paesi della U.E. piu’ Svizzera, G.B. e Norvegia). E’ certamente piu’ bassa della media delle retribuzioni della “zona euro”, ma essendo una MEDIA essa è il risultato di una media parametrata tra le retribuzioni delle varie qualifiche e tra le retribuzioni di molte categorie produttive e lavorative.

Purtroppo, in Italia – negli ultimi anni – abbiamo assistito alla contrazione di attività nelle categorie piu’ evolute in virtu’ della introduzione delle nuove tecnologie ed alla crescita di attività in lavori poco qualificati o considerati “poveri”. Calano perciò le retribuzioni delle qualifiche medie ed elevate e crescono quelle “basse”. Spesso in quest’ultima area si muovono associazioni datoriali e sindacali “farlocche” che negoziano contratti nazionali di lavoro al “ribasso” rispetto a quelli negoziati dalle organizzazione storiche confederali.

Per di piu’ la presenza in questi lavori “poveri” vi è una forte presenza di lavoratori  immigrati disposti a lavorare a qualsiasi condizione, incrementando l’area di un secondo mercato del lavoro irregolare o sottopagato, al quale spesso si assoggettano – nella zone depresse economicamente e  socialmente –  anche cittadini italiani.

Per tutti questi motivi la media retributiva italiana è bassa. Non si annullano le criticità che abbiamo riassunto con un salario minimo per legge ampiamente superato nel valore proposto dall’opposizione parlamentare dai minimi contrattuali in atto della qualifica piu’ bassa della stragrande maggioranza delle categorie dove si svolge una regolare attività contrattuale a livello nazionale e integrativo a livello aziendale o territoriale.

Chi è abituato a praticare l’evasione o il non rispetto dei CCNL non rispetterà anche la Legge. Semmai, nella  migliore delle ipotesi, in una certa  parte del padronato italiano si farà strada la tendenza ad applicare il “salario minimo per legge” (scisso dalla contrattazione) per tutte le categorie produttive e del terziario a prescindere dalla specificità  del lavoro e dalle condizioni di ogni settore. E’ presente anche il rischio che esso venga erogato non solo per retribuire i lavoratori inquadrati nell’ultimo livello o qualifica, ma anche per gli  altri professionalizzati o di qualifica superiore, aggravando una situazione di appiattimento retributivo, una vecchia “malattia” della contrattazione sindacale  italiana ereditata “dall’autunno caldo” del ’69 e solo parzialmente corretta negli anni successivi.

Quello che serve invece – come indica anche una recente delibera del Parlamento Europeo – è un rafforzamento per legge della contrattazione tra le parti sociali, definendo il valore “erga omnes” dei CCNL negoziati dalle categorie titolate a questa funzione, riconosciute  in quanto  effettivamente rappresentative su basi certe (iscritti e voti nelle elezioni delle  RSU), è l’estensione  attraverso apposite norme della contrattazione integrativa, è l’obbligo per  le parti sociali di  rinnovare i CCNL alla regolare (di solito triennale) scadenza.