LA PRODUTTIVITA’ E IL PIANO 4.0

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Premessa

Recentemente ha trovato molta attenzione il fatto che negli ultimi 30 anni i salari italiani siano scesi del 2.9% mentre in Europa, nei paesi più simili al nostro, i salari siano aumentati in maniera decisamente superiore. Da questa constatazione si è iniziata una bagarre politica che da una parte ha posto l’obiettivo di un salario minimo, dall’altra la riduzione del cuneo fiscale per i salari più bassi.

In pochi però hanno messo in relazione livello dei salari con la produttività, anche se una golden rule del capitalismo richiede che i salari vadano messi in correlazione con l’aumento della produttività; tenendo conto di ciò, la risposta al calo dei salari italiani e all’incremento di quelli tedeschi o francesi è semplice: in Italia la produttività sta a zero e di conseguenza lo stanno i salari, in Francia e Germania l’aumento dei salari è commisurato all’aumento della produttività.  

Il piano Calenda

Il piano Calenda è quasi totalmente fiscale. Prevede un controvalore teorico di 13 miliardi di euro di incentivi fiscali in quattro anni, che a loro volta dovrebbero mobilitare 23 miliardi di investimenti privati (10 in tecnologie più 11,3 in ricerca e sviluppo e 2,6 in venture capitale e start-up). Inoltre, è previsto un mix di finanziamenti e azioni varie per la creazione di sette competence center universitari che dovrebbero formare studenti e manager.

Tornando al nostro argomento il piano Calenda ha il merito di intervenire sul mondo produttivo con un piano che, incentivando gli investimenti con sussidi a fondo perduto e agevolazioni finanziarie sui prestiti, aumenti le dotazioni tecnologiche così scarse in un mondo di micro-imprese, al fine di aumentare la produttività del nostro sistema economico e di conseguenza permetta, seguendo la golden rule, di aumentare di pari passo con la produttività anche il livello dei salari.

Di fronte all’assoluta impotenza della politica italiana di pensare a lungo termine con un piano razionale, politica che al contrario con le tax-expenditures distribuisce regalie alle lobbies più potenti, e tra queste indicherei il super-bonus del 110%, il piano Calenda si presenta con una dignità e serietà difficilmente riscontrabili nel panorama politico italiano.

Non che non abbia difetti: ne indicherei fondamentalmente tre: la non scelta del piano, il mezzo finanziario del piano, il mancato controllo successivo.

Sul primo argomento principale difetto del Piano sta proprio nella sua filosofia: non dare indicazioni alle imprese ma lasciando che esse, aderendo al piano, scelgano il come e dove investire lasciando quindi ad esse di guidare senza visione il futuro dell’economia, senza avere una visione di quale Paese futuro si vuole costruire fra cinque, dieci, quindici anni. L’idea che la politica industriale la facciano le imprese è intrinsecamente sbagliata. La politica industriale la fanno gli Stati e le Regioni con il mettere a disposizione delle aziende know-how elaborato in sede pubblica (perché la ricerca di base, diversa da quella applicativa, ha tempi lunghi e ritorni incerti, dunque può essere sostenuta solo dai “capitali pazienti” del pubblico) da università e istituzioni apposite.

Alla base, non c’è alcuna idea del Paese che si vuole. In generale, il ruolo dello Stato che accompagna e investe nella ricerca che poi viene messa a disposizione delle imprese, è fondamentale e ineludibile. Lo ha dimostrato Mariana Mazzucato in un bellissimo libro, “Lo Stato Innovatore”, pubblicato in Italia da Laterza nel 2014.  In questo documentatissimo saggio, la Mazzucato dimostra come tutte le recenti innovazioni alla base del successo economico americano (dalle varie tecnologie che danno vita ai prodotti Apple fino allo Shale gas) siano nate in ambito pubblico.

Il secondo argomento riguarda la natura del sussidio, rappresentato in un primo tempo da benefici fiscali ottenuti mediante la possibilità di ammortizzare il cespite tecnologico acquistato per un valore molto più alto del prezzo di acquisto (in pratica riducendo le imposte sul reddito d’impresa), e successivamente concedendo direttamente crediti di imposta immediatamente utilizzabili. In pratica si conferiscono finanziamenti a fondo perduto, ovvero non si tratta di prestiti da restituire ma di apporti finanziari gratuiti. Ebbene questi conferimenti finanziari vanno ad aumentare l’utile aziendale e quindi la possibilità di distribuirli, tramite dividendo, ai soci azionisti. In poche parole un regalo al capitale.

Ma questi apporti finanziari, fossero fatti da un investitore normale, si trasformerebbero in aumento del capitale sociale dell’impresa beneficiata con corrispondente emissione di azioni intestate al finanziatore. Con tali azioni l’investitore parteciperebbe alle assemblee societarie e, avendone i numeri, potrebbe entrare nella gestione dell’azienda stessa. Inoltre l’apporto finanziario, essendo capitale sociale, non potrebbe essere distribuito con i dividendi, garantendo che l’impresa finanziata non si privi di risorse.

Se poi pensiamo che le elargizioni a fondo perduto provengono dalle imposte che i contribuenti pagano, imposte che provengono per la più gran parte da lavoratori e pensionati, assistiamo ad un incredibile fatto: i lavoratori dipendenti e i pensionati regalano soldi alle imprese (rectius al capitale) senza nessun corrispettivo che spetterebbe invece ad un investitore normale. Altro sarebbe se gli incentivi fossero erogati sotto forma di partecipazione azionaria di un fondo di investimento costituito dai contribuenti. Non approfondisco qui il funzionamento del fondo, preferendo solo indicarne la necessità di costituzione.

Il terzo punto di critica è relativo al fatto che i sussidi erogati non sono monitorati nel misurare da una parte il quantum di fondi erogati anno per anno e dall’altra nel verificare l’incremento di produttività che quegli incentivi abbiano generato e di conseguenza di quanto siano aumentati i salari come conseguenza dell’incrementata produttività.

I dati ISTAT

L’ISTAT pubblica annualmente un report denominato MISURE DI PRODUTTIVITA’ è attingendo a questi report che cercheremo di avere un’idea di come negli anni si siano mossi i “numeri chiave” della nostra economia.

Purtroppo due anni dopo l’inizio del piano (2017) è scoppiata la crisi Covid che ha stravolto tutti gli indici in esame, rendendo difficile la lettura dei dati. Dopo la pandemia l’Italia sta beneficiando di un afflusso di capitali in base al PNRR che prevedono di incrementare i sussidi 4.0, ma che ad oggi non sono ancora disponibili nelle rilevazioni ISTAT.

Il primo prospetto mostra “i numeri chiave” ovvero: il valore aggiunto; gli inputs produttivi suddivisi in ore lavorate, input di capitale e indice composito lavoro capitale; le misure di produttività suddivise in produttività del lavoro, produttività del capitale e produttività totale dei fattori.

Vediamo comunque di descrivere nel dettaglio il contenuto di ogni voce:

·       Valore aggiunto: è la differenza tra il valore della produzione di beni e servizi ed il valore dei costi intermedi sostenuti a fronte di tale produzione. I valori sono espressi ai prezzi di base.
·       Ore lavorate: rappresenta il monte ore effettivamente lavorate finalizzate alla produzione di reddito.
·       Input di capitale: misura il flusso di servizi produttivi forniti dallo stock esistente di beni capitali.
·       Produttività del lavoro: è il rapporto tra l’indice di volume del valore aggiunto e l’indice di volume dell’input di lavoro, ossia il valore aggiunto per ora lavorata.
·       Produttività del capitale: è il rapporto tra l’indice di volume del valore aggiunto e l’indice di volume del flusso dei servizi resi dallo stock esistente di capitale, ossia valore aggiunto per unità di input di capitale.
·       Produttività totale dei fattori: è il rapporto tra la misura di volume del valore aggiunto e una misura di volume dell’impiego complessivo dei servizi del capitale e del lavoro.
Periodo ValoreInput produttivi Misure di produttività
  aggiuntoOreInput diIndiceLavoroCapitaleTotale
Daa lavorateCapitalecomposto  fattori
20032009-0,20,11,50,5-0,3-1,7-0,8
20092014-0,4-1,3-0,4-1,00,90,00,6
201420161,71,40,41,10,31,30,6
17 2,71,40,71,21,32,01,6
18 1,01,30,91,2-0,30,1-0,2
19 0,5-0,10,70,20,50,20,3
20 -11,0-14,2-0,3-9,83,2-10,7-1,2
21 8,50,20,86,5-0,77,72,0
Riscontriamo quindi nel 2017 (anno di avvio del piano Calenda) un aumento dell’input di capitale così come nei successivi 2018 e 2019, cui non corrisponde tuttavia, negli anni successivi, come invece si dovrebbe registrare, un incremento della produttività del lavoro (ovvero un maggior valore aggiunto rispetto alle ore lavorate).

Commenta l’elaborato ISTAT:

L’aumento della produttività del capitale nel 2021 (+7.7) non permette tuttavia di tornare alla situazione precedente alla pandemia. Una situazione che, guardando al lungo periodo, è stata caratterizzata da dinamiche negative o di sostanziale stallo.

La produttività del capitale nel nostro Paese ha infatti segnato valori negativi dal 1995 al 2009 per poi attestarsi allo zero dal 2009 al 2014. Ed è proprio a partire dal 2014 che si riesce a smuoversi da questa immobilità: tra il 2014 e il 2021, infatti, la produttività del capitale è aumentata dello 0.2%.

In questi anni, nello specifico, si osserva una crescita moderata dell’input di capitale (+0.4% in media d’anno) con un incremento molto più sostenuto del capitale ICT (+3.3%) e di quello immateriale non-ICT (2,8%).

Una crescita che, in un Paese caratterizzato per decenni dall’immobilità negli investimenti delle imprese, testimonia l’impatto positivo degli strumenti a supporto degli imprenditori, come il Piano Transizione 4.0.

·       Capitale ICT (Information and Communication Technologies): sono beni capitali che incorporano la tecnologia dell’informazione e della comunicazione, ossia hardware, software e database.
·       Capitale immateriale non ICT: prodotti della proprietà intellettuale diversi dal software ossia ricerca e sviluppo, prospezioni minerarie e originali di opere artistiche, letterarie o di intrattenimento.

A proposito della produttività del lavoro l’ISTAT commenta come segue:

Nell’intero periodo 1995-2021 la produttività del lavoro ha registrato una crescita media annua dello 0.4% derivante da un incremento medio del valore aggiunto pari allo 0.6% e delle ore lavorate pari a 0.1% mentre nel periodo tra il 2009 e il 2014 la produttività del lavoro è cresciuta dello 0.9% per effetto di una riduzione delle ore lavorate (-1.3%) più ampia di quella del valore aggiunto (-0.4%).

Nel periodo più recente 2014-2021 la dinamica positiva del valore aggiunto e la stazionarietà delle ore lavorate sono state accompagnate da una dinamica positiva dell’input di capitale: l’incremento medio del valore aggiunto (+0.7%) unitamente alla stazionarietà media delle ore lavorate, hanno determinato una crescita della produttività del lavoro media dello 0.6%.

La generosità dell’ISTAT nei riguardi del piano di transizione 4.0 non può tuttavia far dimenticare che l’Italia è afflitta dal problema della scarsa produttività del lavoro, che si spiega soprattutto con i bassissimi investimenti in ricerca e sviluppo. Questo dato di fatto è ancora più grave nel momento in cui si fronteggia la sfida dell’Industry 4.0, che richiede politiche industriali basate soprattutto sulla conoscenza, che rappresenta il vantaggio competitivo più importante. Il vero scatto in avanti sarebbe stato un deciso aumento degli investimenti in R&S, che da noi sono ridicoli rispetto ai Paesi concorrenti. Una rapida carrellata delle cifre rende benissimo l’idea. La Germania, non caso Paese leader in Europa, investe il 2,92% del PIL. E gli Usa la seguono di poco, con il 2,76%. Cifre ancora inferiori rispetto al 3,93 di Israele. La Francia investe il 2,26%. La Gran Bretagna l’1,76%. E l’Italia? L’1,27% del PIL. Meno perfino della Spagna, che investe l’1,3%.

Come sostiene Franco Astengo: si rischia di agevolare la minoranza che ha già deciso di investire in innovazione e nuove tecnologie, senza fare niente per gli altri. I corposi incentivi fiscali del Piano rischiano di andare a favore di chi ha già deciso di investire in tecnologie innovative. Cioé di una minoranza ristretta di imprese. Le altre, nonostante i vantaggi fiscali, potrebbero decidere di non investire comunque, perché prive dei fondi (sembrerà banale ricordarlo, ma prima che un investimento venga defiscalizzato, deve essere effettuato, e ci vogliono soldi veri) o della consapevolezza della loro importanza. Da questo punto di vista, il panorama delle imprese italiane è stato radiografato dalla nota 16.5 del Centro Studi di Confindustria, pubblicata lo scorso 23 dicembre. La nota esamina le aziende italiane con più di 10 addetti, rielaborando dati Istat del 2010-2012. Emerge che solo il 7,4% delle imprese ha fatto investimenti sia in R&S e sia, contemporaneamente, in nuovi macchinari. Un ulteriore 38% ha compiuto investimenti solo in nuovi macchinari.

E il restante 54,6% che ha fatto? Qui viene il bello: niente o poco più di niente. Questa maggioranza di non innovatori, secondo i dati Istat, sarebbe addirittura cresciuta nel 2012-2014. Eppure, i nuovi prodotti messi sul mercato dai pochi che investono sia in R&S e sia in macchinari hanno generato nuovo fatturato per una percentuale attorno al 14%. Ora, la grande domanda è: gli incentivi fiscali avranno il potere di spingere la grande maggioranza di imprese italiane non-innovative a decollare? Gli imprenditori privi di soldi e di consapevolezza, potranno cambiare orientamento grazie a questo?

Le misure del Piano sono orientate ai singoli beni, ma una trasformazione aziendale verso l’Industry 4.0 richiede una progettualità complessa. Trasformare significa mettere mano alle funzioni, ai processi, significa accedere alle consulenze strategiche, tutte elementi che non sono affatto beni materiali. E che nel Piano non sono previste.

I dati degli altri paesi europei

L’andamento della nostra produttività, come già accennato in apertura di questo articolo, nei confronti degli altri i paesi europei sono sintetizzati dal prospetto che segue:

PeriodoProduttività del lavoro
  ItaliaUe 28FranciaGermania
Daa    
199520180,41,61,51,3
201420200,51,20,71,0
2020 3.2-0,1-1,10,4
      

Sia nel periodo 1995/2018 precedente al piano Calenda, sia nel periodo 2014/2020 periodo nel quale sono iniziati i sussidi 4.0 la produttività italiana rimane sempre attestata ad un livello inferiore (mediamente attestato alla metà) di quello realizzato in Francia e Germania ovvero nella media Europa 28.

Si riscontra un dato anomalo nel 2020 dove l’incremento della produttività del lavoro italiano aumenta del 3,2 come risultato di un calo nelle ore lavorate più intenso di quello del valore aggiunto (rispettivamente -14.2 e -11.0).

Conclusioni

Il pur meritevole piano 4.0 non pare in grado di apportare alla nostra economia quello scatto di produttività necessario ad un sostenibile incremento dei deludenti risultati degli ultimi decenni.

Il piano Calenda assume il nome di “Piano” ma non ha alcuna caratteristica che è invece richiesta in una pianificazione o programmazione guidata dalla razionalità che si opponga ad un modello dove il principio determinante è ancora l’obsoleto “profitto”. Lasciare ogni scelta alle singole imprese, in un Paese in cui prevale il nanismo e lo shortismo imprenditoriale (ben diverso dal modello schumpeteriano), si dimostra una scelta politica inadeguata agli obiettivi indicati che presentano, al contrario, aspetti positivi.