CALENDA, MEIDNER E MAZZUCATO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

L’economia razionale |

In chiusura del mio articolo “L’ineffabile Calenda” mi chiedevo se agli Stati Generali del socialismo avessero parlato della trasformazione dei sussidi alle imprese, 38 miliardo solo nel PNRR, in partecipazioni azionarie assegnate ad un costituendo “Fondo dei contribuenti” che desse inizio alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e, in senso più ampio, alle scelte programmatiche della politica economica nazionale. Ricordavo, in quella sede, che l’utilizzo di fondi pubblici, quali quelli del PNRR, potessero ispirarsi al piano Meidner descritto nel libro “Capitale senza padronei”.

Ebbene nella sessione degli Stati Generali il compagno socialista Gioacchino Assogna, che condivide la mia posizione, presentava, in un intervento applaudito da Maraio, la proposta di trasformare in partecipazioni azionarie di un “Fondo dei contribuenti”, tutti i sussidi a fondo perduto, i crediti fiscali, i superammortamenti etc., previsti dalle leggi italiane.

Questa proposta, non se poi recepita nelle conclusioni del congresso, affronta il futuro economico del nostro paese con una sistematicità che, pur da approfondire nei dettagli, ha una dimensione globale, rifuggendo da un riformismo inconcludente come quello proposto da Calenda.

In particolare l’intervento di Assogna faceva riferimento alla proposta Calenda di dirottare tutti i fondi del PNRR di dubbia destinazione o di cui addirittura si pensa ad una rinuncia, alla costituzione di crediti di imposta a favore di quelle imprese che si impegnino in investimenti destinati alla innovazione tecnologica. Naturalmente nessuno obbietta la necessità di investimenti finalizzati alla robotizzazione, all’intelligenza artificiale, ai computer quantistici, finalizzati a ridare livelli adeguati all’incremento della produttività stagnante da un trentennio. Quello che si contesta è che la proposta lasci assoluta libertà di scelta alle imprese che investissero senza prevedere un piano programmatico cui coordinare gli investimenti privati, e senza istituzionalizzare adeguati controlli atti a verificare l’efficacia dell’investimento, l’incremento della produttività e il conseguente aumento dei salari in misura pari all’incremento di produttività. Con questa carenza programmatica, la proposta Calenda disegna un assistenzialismo alle imprese che dimentica che i fondi erogati sono fondi dei contribuenti, trasformando il meccanismo in un trasferimento netto di fondi dal mondo del lavoro al mondo imprenditoriale, o meglio dal lavoro al capitale.

A supporto di queste mie critiche voglio riportare alcuni passi del libro di Mariana Mazzucato “IL VALORE DI TUTTO/CHI LO PRODUCE E CHI LO SOTTRAE NELL’ECONOMIA GLOBALE”.

A pagina 281 si legge “Tutto ciò significa che le politiche basate sull’ipotesi che le imprese vogliono sempre investire e hanno bisogno soltanto di un incentivo fiscale per farlo, sono semplicistiche, per non dire ingenue. Gli incentivi (spesa indiretta tramite tagli fiscali) se non accompagnati da investimenti strategici diretti dello Stato, raramente faranno accadere cose che non sarebbero accadute comunque (in termini economici, non c’è addizionalità).”         

Ecco che allora un’autrice del valore della Mazzucato considera semplicistica se non ingenua la proposta di Calenda che, guarda caso è ben accetta da parte della Confindustria di Bonomi. Quello che differenzia la mia proposta dalla posizione della Mazzucato sta nel fatto che l’autrice ragiona come se fosse già operante quello “STATO INNOVATORE” soggetto del suo primo famoso libro. Nella situazione attuale in Italia non siamo in presenza di uno stato innovatore ma di un progetto politico guidato dalla presidente Meloni che sembra accettare positivamente la proposta Calenda. Io invece parlo della costituzione di un “Fondo dei contribuenti” che sono i veri finanziatori, quelli che in conclusione pagano gli investimenti economici rimborsando con le loro tasse i fondi (a fondo perduto e quelli a prestito) anticipatici dal NGUE.

La figura dello stato innovatore la ritroviamo ancora a pagina 240, dove leggiamo: “La politica dovrebbe iniziare con il capire che l’innovazione è un processo collettivo. Dati gli enormi rischi presi dal contribuente quando il governo investe in nuovi campi visionari come internet, non potremmo trovare qualche modo affinché i compensi derivanti dall’innovazione siano sociali come i rischi? Qualche esempio potrebbe essere (…) subordinare l’aiuto pubblico al reinvestimento degli utili nella produzione anziché nel riacquisto di azioni proprie; permettere alle agenzie pubbliche di conservare la proprietà o i diritti sulle tecnologie per le quali hanno fornito finanziamenti, effettuare prestiti condizionati al reddito delle aziende (…).”

Al di là dei singoli provvedimenti esemplificati, tra i quali ricordiamo la conservazione da parte del pubblico della proprietà (si affaccia la socializzazione dei mezzi di produzione) delle tecnologie finanziate, si delinea la presenza di una socializzazione, che coinvolga il sociale negli investimenti e nelle scelte programmatorie, che tolga l’intervento pubblico dal solo compito di ultimo intervento nei casi dei fallimenti del mercato (e penso al crollo catastrofico del 2007/2008) e di custode delle libertà del mercato.   

Si ripropone la distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio; posto che i beni che hanno un valore di scambio hanno anche un valore d’uso, rimane il fatto che la scelta per i beni in base al loro valore di scambio predilige la realizzazione di un profitto che non è necessariamente guadagnato se si scegliessero i beni in base al loro valore d’uso. Ad esempio, tra la produzione di beni di consumo e la prestazione di servizi sanitari la scelta in base al valore di scambio predilige la produzione di beni di consumo piuttosto che la prestazione di servizi sanitari a meno che questi, smantellando il sistema sanitario nazionale, cosa che peraltro si rischia che l’attuale governo faccia, non diventino a loro volta valori di scambio.

Ecco che la proposta di Calenda di erogare oltre ai 38 miliardi di fondi del PNRR già stanziati altri fondi con impegno dubbio o non produttivo, pecca nel delegare ai ricercatori di profitto tramite la produzione di valori di scambio la scelta del berlingueriano “cosa produrre” rifiutando l’idea di una programmazione guidata da chi invece con raziocinio e lunga prospettiva sceglierebbe valori di uso.

A pagina 249 del libro della Mazzucato si legge la base filosofica del liberalismo delle scelte del valore di scambio; viene delineato quale deve essere il ruolo dello stato in una economia liberale: ”Ma c’è un’area del pensiero dominante che riconosce, anzi enfatizza, dove lo stato può avere un ruolo positivo: riparare ai fallimenti di mercato. Come abbiamo visto i fallimenti di mercato sorgono quando il settore privato non investe abbastanza in un’area considerata favorevole al bene pubblico (la ricerca di base poiché è difficile fare utili da questa fonte) o investe troppo in aree considerate dannose per il bene pubblico (per esempio, industrie inquinanti, che creano una esternalità negativa non incorporata nei costi aziendali).(…) Ma il messaggio allo stato è: intervieni solo se c’è un problema, altrimenti stai lontano, concentrati sul trovare le condizioni giuste per le imprese e lascia che questo settore faccia quello che deve fare, ossia creare valore”.

Il pensiero liberale che egemonizza questo momento storico, il marginalismo, ha rovesciato il rapporto lavoro/prezzo; i classici, da Smith a Ricardo e infine a Marx riconoscevano il valore di un bene dal lavoro che era stato applicato a quel bene per trasformarlo in un valore d’uso, dal valore lavoro discendeva, con qualche difficoltà, il prezzo del bene in questione. Il marginalismo, al contrario, dall’incontro delle curve delle scelte individuali, che trovano sempre un punto di equilibrio individuale e quindi globale, dall’incontro della domanda e l’offerta deriva il prezzo che determina quindi il valore del bene. Così, come si legge a pagina 290: “invece di una teoria del valore che determina il prezzo, abbiamo una teoria del prezzo che determina il valore”.

Ma anche a livello di impresa la Mazzucato pensa ad una diversa filosofia rispetto a quella dominante del “shareholders value”; infatti a pagina 288 si legge: “Il settore privato può essere trasformato grazie al semplice ma profondo accorgimento di rimpiazzare il valore per gli azionisti (shareholders value) con il valore per i portatori di interesse (stakeholders value).Questa idea è circolata per decenni, gran parte dei paesi continua ad avere società guidate dal valore per gli azionisti, concentrate sulla massimizzazione degli utili trimestrali. Il valore per i portatori di interessi riconosce che le società non sono realmente l’esclusiva proprietà privata di un gruppo di capitalisti. Come enti sociali, le società devono tener conto del bene degli impiegati, dei clienti e dei fornitori. Esse traggono beneficio dalla comune eredità culturale e intellettuale della società in cui esse sono inserite e dagli ordinamenti dello stato di diritto, per non parlare della formazione, pagata dallo stato, di manodopera qualificata e di ricerca preziosa; in cambio, esse dovrebbero fornire benefici a tutti questi gruppi”

Ma il semplice “accorgimento” cui fa cenno la Mazzucato, sarebbe più appropriato chiamarlo “rivoluzione” culturale, economica.