A ME I 9 €URO/ORA NON CONVINCONO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

La questione del salario minimo sta surriscaldando il clima politico del nostro paese costituendo un elemento importante per l’opposizione che, salvo Italia viva, sta ritrovando un fronte comune di competizione politica, ma importante anche per la maggioranza per la quale questo problema mette in discussione la sua posizione in una vasta platea di elettori.

Ma a me, onestamente, l’impostazione data ad un problema, che indubbiamente esiste, non piace. Da appassionato di economia veder risolto con un atto di imperio, un atto di legge, un problema squisitamente economico, mi fa sentire come se, non riuscendo a vincere in una gara (non riuscendo a risolvere il problema), riesco a prevalere solo grazie ad un rigore, un penalty regalatomi dall’arbitro (dalla legge).

Non mi piace la nozione di salario giusto o dignitoso, lo trovo un concetto più morale che economico e che comunque presenta problematiche di quantificazione non indifferenti.

Ritengo fondamentale l’attuazione dell’art. 39 della costituzione che individua il soggetto delegato a trattare la questione salariale con la parte datoriale con l’eventuale intervento dello stato quale soggetto terzo garante del protocollo concordato. Ritengo con Marx che la questione salariale operi all’interno di un modo di produzione, mutando il quale muta anche la conseguente meccanica salariale, ben diversa sarà trattata questa materia in un modo di produzione socialista rispetto a come va trattata nel modo di produzione capitalista.

Vivendo in un paese capitalista ritengo che a guidare la questione salariale siano due leggi: la golden rule per la quale i salari devono aumentare allo stesso tasso di crescita della produttività e la (conseguente) legge di Bowley che comporta la costanza delle quote distributive del lavoro e del capitale nel reddito.

Queste due regole permettono lo sviluppo delle imprese congiuntamente allo sviluppo dei salari, incrementando la domanda aggregata senza tensioni inflattive e fa in modo che la produttività sia uno strumento di crescita cui sono interessati sia gli imprenditori che i lavoratori essendo essa portatrice di benefici effetti per i due attori oltre che per la comunità globale.

Se in Italia i salari sono così bassi ciò dipende dal fatto che in questi trent’anni la produttività non è aumentata. I confronti con Francia e Germania sono espliciti: là i salari sono aumentati in seguito all’aumento della produttività, da noi sono fermi (anzi diminuiscono) così come ferma è la produttività, al punto che la fissazione di un salario minimo (pari alla sussistenza) più alto potrebbe avere riflessi inflazionistici. Sulle imprese che hanno salari inferiori ai 9 euro orari la proposta di legge prevede (paradossalmente) sussidi anche se temporanei. Altrimenti potremmo avere due diverse conseguenze: il fallimento o (con Sylos Labini) l’effetto frusta salariale che costringe quelle imprese a trovare quella produttività necessaria a bilanciare l’aumento del costo del lavoro.

Qui, tuttavia, serve una chiara presa di posizione: la produttività è materia delegata all’imprenditore che se è schumpeteriano ricerca sempre nuove combinazioni tecnologiche e produttive atte a sgominare la concorrenza ma se invece è un operatore, incapace di affrontare la sfida della concorrenza, perde il nome di imprenditore e viene declassato al becero ruolo di padrone. Con questa precisazione lascio a voi, che mi leggete, giudicare sull’operato dei nostri cosiddetti imprenditori nella storia recente dell’economia nazionale.

E con questa riflessione discende un giudizio negativo sui sussidi Calenda che regalano, a carico dei lavoratori e dei pensionati, ad una classe imprenditoriale inetta, decine di miliardi di € fidando sul fatto, indimostrato, che questi imprenditori non schumpeteriani siano in grado di investire con raziocinio in nuova tecnologia, siano in grado di aumentare la produttività, e siano onesti e intelligenti al punto di aumentare nella stessa misura della produttività, anche i salari.       

Ora, al rispetto delle due golden rules sopra ricordate, sono interessati non solo gli imprenditori ma anche i lavoratori e di conseguenza i sindacati chiamati a contribuire nella gestione dello sviluppo del paese; la cosa si fa poi enorme se pensiamo all’irruento arrivo della rivoluzione tecnologica legata ai computer,  all’intelligenza artificiale e ai computer quantistici. E’ indubbio che produttività e occupazione hanno rapporti complessi e talora contradditori, solo una intelligente gestione di essi da parte del sindacato è indispensabile per evitare di trovarsi domani, di fronte al fatto compiuto di una egemonia dei possessori dei mezzi di produzione, del capitale.

Se quindi la produttività cessa di essere dominio di una imprenditoria troppo spesso incapace di generarla e essa può divenire una conquista del mondo del lavoro capace di impadronirsi della bandiera “produttività” per esercitare il suo potere partecipativo, per gestirne lo sviluppo equilibrato, per porlo come elemento cardine per la determinazione del salario. Ritengo questa una prospettiva con un orizzonte ben più ampio e gramscianamente egemonico che si differenzia sostanzialmente dalla proposta di un salario minimo.

Decoupling of wages from productivity

Ma il capitalismo sta osservando la golden rule di Bowley? Nel libro di Mariana Mazzucato “Missione economia” a pagina 13 si legge “Tra il 1995 e il 2013, i salari mediani dei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sono cresciuti ad un tasso medio annuo dello 0,8 per cento contro l’1,5 per cento di crescita della produttività del lavoro.” L’incremento dei salari viaggia quindi ad una velocità pari alla metà dell’incremento della produttività del lavoro; scopriamo allora un nuovo sfruttamento del lavoro, di appropriazione del plusvalore da parte del capitale ai danni del mondo del lavoro.

Volendo approfondire, sono andato al sito, indicato in nota dalla Mazzucato, che è alla base della frase sopra ricordata che riporta come titolo “Decoupling of wages from productivity”  OECD Economic volume 2018. Ebbene traggo da quel documento elementi che supportano quanto affermato dalla Mazzucato nel suo testo:

Several OECD countries have been grappling not only with slow productivity growth
but have also experienced a slowdown in real average wage growth relative to productivity
growth, which has been reflected in a falling share of wages in GDP. At the same time,
growth in low and median wages has been lagging behind average wage growth,
contributing to rising wage inequality. Together, these developments have resulted in the
decoupling of growth in low and median wages from growth in productivity.”
           

I dati sono quindi riassunti nella seguente tabella dove sono esposti dal 1995 al 2013 gli andamenti della produttività del lavoro e dei salari:

ANNOProduttivitàSalari%
    
1995100100100,00%
1996102102100,00%
199710510398,10%
199810710699,07%
199911010797,27%
200011210694,64%
200111310794,69%
200211510893,91%
200311710993,16%
200412011091,67%
200512211190,98%
200612311291,06%
    
200712511390,40%
200812211493,44%
200912311593,50%
201012511491,20%
201112711388,98%
201212611490,48%
201313011689,23%

Il disaccoppiamento dell’incremento dei salari dall’incremento dalla produttività del lavoro è la causa della crescente appropriazione di plusvalore ai danni del salario, alla base della crescente disuguaglianza nell’indice Gini, a base di un deterioramento delle relazioni sociali nell’era del finanzcapitalismo.

 E in Italia?

Per quel che riguarda l’Italia mi rifaccio ad un articolo del prof. Leonello Tronti di cui riporto un articolo di qualche anno fa e che esamina il non rispetto della legge Bowley negli anni in esame.

“Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione di risorse dai salari ai profitti (…)

valutando la differenza tra il valore storico del monte

profitti e quello che si sarebbe verificato se i salari reali fossero cresciuti nella stessa

misura dei pur modesti aumenti della produttività, secondo la regola d’oro, ovvero

lasciando inalterata la quota del lavoro nel reddito, in ottemperanza alla regola di Bowley.

(Le cifre) mostra(no) come il contributo offerto dalla quota del lavoro ai profitti, nel quadro del

Protocollo del 1993 e della sua sistematica violazione della legge di Bowley, sia stato

davvero ingente: a prezzi del 2005, oltre 50 miliardi di euro già due anni dopo la sigla del

protocollo, fino a più di 75 miliardi l’anno nel triennio 2000-2002 e attorno ai 68 miliardi

l’anno tra il 2003 e il 2007. Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012), in dipendenza dalla

della tenuta dei salari contrattuali reali a fronte della caduta della produttività del lavoro,

il contributo si è ridotto a valori più ‘modesti’, tra i 30 e i 40 miliardi l’anno.

Ora, il valore cumulato di questi ‘trasferimenti impliciti’ operati automaticamente dal

modello contrattuale italiano nel periodo dal 1993 al 2012 ammonta a ben 1.069 miliardi

di euro. Si tratta di una cifra indubbiamente ragguardevole che, nell’opinione di chi scrive,

è sufficiente a spiegare non solo il freno della domanda interna di consumi e l’aumento

dell’indebitamento delle famiglie, ma anche (e forse soprattutto) i ritardi di innovazione, i

mancati investimenti, la sopravvivenza di imprese marginali i cui prodotti o servizi

continuano a gravare sui bilanci delle famiglie e delle imprese competitive, l’incapacità del

segmento sano del nostro apparato produttivo di crescere e rafforzarsi sino a trainare fuori

dal tunnel l’intero paese.

Il raffronto tra l’entità delle risorse trasferite e i risultati dell’economia italiana smentisce

qualunque ipotesi di neutralità della distribuzione del reddito ai fini della crescita. Il

meccanismo perverso del modello contrattuale, che ha garantito i profitti al di là dei meriti

di mercato alterando in modo cieco e automatico la distribuzione funzionale del reddito,

oltre ad esercitare effetti anticiclici di breve periodo, nel lungo periodo ha profondamente

minato, almeno per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa dalla contrattazione

decentrata e protetta dalla concorrenza internazionale, l’incentivo ad impegnarsi e ad

investire per migliorare la qualità dei processi produttivi e dei prodotti. Il disincentivo ha

influito tanto sulle scelte imprenditoriali, comunque garantite sul lato dei profitti, quanto

su quelle dei lavoratori, non premiati economicamente per l’impegno ad ottenere

performance produttive migliori”.

Conclusioni

Ritengo quindi che la lotta che PD e 5stelle stanno portando avanti sia di corto respiro mentre sarebbe il caso di impegnarsi in un percorso, guidato dai sindacati, dove l’appropriazione della bandiera della produttività, connessa con una stretta vigilanza affinchè la golden rule di Bowley sia rispettata, costituisca una strategia di ben più ampio respiro pur all’interno della fase storica oggi vissuta dal capitalismo nostrano.

Quanto contenuto in questa riflessione porta ad una critica profonda del protocollo Ciampi che, nella prassi, vede escluse dalla contrattazione di secondo livello (quella che si basa sulla produttività), la più ampia maggioranza dei lavoratori. Entra allora in evidenza la necessità di affrontare un altro tema quello del nanismo delle nostre imprese, ma per oggi mi fermo qui, anche se rimango in attesa dei vostri commenti (in particolare quelli di Silvano Veronese).