di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |
Dopo anni di silenzio, l’emergenza salariale è diventato finalmente uno dei punti centrali dell’agenda economico-sociale del Paese ma, ci chiediamo se il nodo fondamentale di questa criticità è il valore del salario minimo (che riguarda un numero limitato di percettori) o la dinamica in larga parte stagnante di tutte le retribuzioni.
Intanto mi sembra sbagliato affrontare questi nodi ricorrendo ad affermazioni (anche da parte di ex ministri del lavoro) NON VERE, espresse o per non conoscenza delle reali situazioni o (come pensiamo) per pura demagogia o propaganda preelettorale in vista delle “europee”. Abbiamo sentito in vari talk show televisivi o letto in interviste sulla stampa dichiarazioni di autorevoli politici ed anche di sindacalisti che i “salari italiani sono i PIU’ bassi in Europa e nell’area OCSE”.
Ebbene, sia che si tratti dei 27 Paesi della U.E., sia che si tratti dei 20 Paesi dell’eurozona, sia che ci si riferisca con queste “boutades” a tutta L’Europa allargata anche ai Paesi non facenti parte della U.E. (come Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Serbia, Montenegro e via dicendo), le retribuzioni italiane non possono essere PIU’ basse in confronto a queste realtà, tenendo conto ad es. che i Paesi dell’Europa orientale ex-comunisti – a causa del loro passato – hanno tutt’ora retribuzioni mensili di circa la metà di quelle italiane ed anche meno.
La retribuzione media lorda in Russia, che non è nemmeno la piu’ bassa fra quelle analoghe di detti Paesi, si aggira (tradotta in euro) sui 450 € mensili mentre in Italia (vedi statistiche ISTAT ed Eurostat) è sui 2.500 € mensili inferiore alla retribuzione lorda media europea (U.E. a 27 Paesi) che è di 2.790 € mensili.
Certamente la retribuzione italiana “paga dazio” rispetto all’U.E. il cui piu’ alto valore medio è trainato dalle retribuzioni tedesche, francesi, del Benelux e dei Paesi scandinavi mentre non è così per i profitti italiani che sono fra i piu’ alti in Europa rispetto ai PIL nazionali.
A questo punto, pero’, serve un chiarimento “tecnico” che approfondisca i motivi anche contabili di questo sfavorevole rapporto per la massa lavoratrice italiana, di un Paese con il terzo PIL d’Europa, con la terza piu’ grande attività produttiva e con la seconda posizione nell’export europeo.
Ed il chiarimento che vogliamo fare – in parte tecnico – vale anche per l’altra annotazione statistica, quella dell’OCSE, che circola da tempo che affermando che dei 38 Paesi aderenti l’Italia si trova all’ultimo posto nella classifica degli andamenti retributivi delle singole realtà nazionali (tutte in crescita dal 1992 al 2021, tranne l’Italia che registra una riduzione) quasi che nel nostro Paese non fossero mai stati rinnovati i CCNL.
Bisogna tener conto che le statistiche e le comparazioni fra le varie situazioni salariali nazionali avvengono tra retribuzioni lorde MEDIE che sono delle retribuzioni contabili in quanto rappresentano una media ponderata tra varie e diversificate retribuzioni categoriali e, soprattutto, tra le altrettanto diverse retribuzioni delle varie qualifiche di ogni categoria.
Le criticità della variegata situazione salariale italiana e che hanno abbassato negli ultimi anni il VALORE MEDIO delle retribuzioni dipendono da vari fattori.
a) Sono cresciute le piccole e microimprese nelle quali NON si è sviluppata la contrattazione integrativa aziendale collegata quasi sempre all’indice di produttività (per tale motivo il “sistema Italia” registra un regresso anche in questo importante fattore di competitività) mentre sono fortemente diminuite le grandi e medie imprese nelle quali invece la negoziazione integrativa è prassi consolidata.
b) Le retribuzioni si sono ulteriormente “ammassate” nei livelli piu’ bassi dell’inquadramento professionale e retributivo e sono calate nei livelli superiori a causa della diffusione di lavori non stabili ed intermittenti in quanto gli addetti interessati rinunciano a rivendicare un giusto inquadramento professionale (e retributivo) per la speranza di essere confermati nell’impiego quando verrà a scadenza.
c) A differenza di altri Paesi europei il sistema produttivo e lavorativo italiano NON ha guarito un certo “appiattimento” nella classificazione retributiva frutto di vecchie pratiche “egualitarie” ereditate dal passato (aumenti uguali per tutti e non in %, una scala parametrale insufficiente che non premia la professionalità ed il merito, etc). Non è un caso che in quest’ultimo biennio di ripresa produttiva le domande di lavoro “pregiato” da parte di molte imprese industriali rimangono inevase (si tratta di quadri, tecnici, operai specializzati e qualificati, molti dei quali – in particolare giovani – vanno all’estero dove la professionalità e la competenza sono ben retribuite).
d) Vi è anche una irregolare applicazione dell’inquadramento professionale e retributivo previsto dai CCNL a sfavore delle donne e dei giovani 15-25 anni a causa per quest’ultimi dell’estensione dell’apprendistato (retribuito in misura minore) fino a 25 anni. La normativa contrattuale sull’inquadramento professionale fissa per ogni qualifica e corrispondente livello retributivo precise declaratorie ed esemplificazioni dei vari profili professionali. Spesso – malgrado ed in violazione a ciò – il personale femminile con la medesima prestazione e profilo professionale del collega maschile viene arbitrariamente inquadrato in un livello inferiore rispetto a quello assegnato per contratto al collega di sesso maschile. Una ennesima violenza contro la donna, in questo caso lavoratrice.
e) A tutto ciò si aggiunga che – in molti settori – da anni non si rinnovano i CCNL di varie categorie, malgrado che il “patto di concertazione Ciampi” del 23/7/93 obbligasse le parti sociali e i Governi (in quanto garanti) a rinnovare i contratti nazionali alle rispettive scadenze. Molti Governi – in qualità di datori di lavoro nel Pubblico Impiego – sono stati i primi a non rinnovare i CCNL alle debite scadenze, offrendo un pessimo esempio all’impresa privata.
Tutte queste negative motivazioni, malgrado i rinnovi contrattuali nella maggioranza delle categorie, hanno compresso la massa salariale globale anche in presenza di una stabilità o di un aumento della massa lavoratrice e pertanto si capisce come la retribuzione media risulti abbassata rispetto al passato o scarsamente lievitata, comunque distante dalle retribuzioni dei Paesi europei socialmente piu’ evoluti.
Non vi è dunque solamente un problema di salario minimo che tra l’altro, riguardando solo gli ultimi livelli dell’inquadramento professionale/retributivo e gli addetti di settori marginali non contrattualizzati, coinvolge un numero limitato di lavoratori, ma vi è un piu’ vasto e preoccupante problema di rivalutazione delle retribuzioni, di tutte le retribuzioni, medie e medio-alte che solo una ripresa in grande stile ed una mobilitazione generale dell’azione contrattuale sindacale puo’ risolvere, correggendo le criticità che abbiamo segnalato e che spesso sono ignorate anche dal Sindacato.
La “scorciatoia” della fissazione per legge del semplice minimo salariale non risolve queste criticità che gravano sulla situazione salariale generale, anzi essa puo’ condizionare negativamente la funzione ed il ruolo della contrattazione sindacale anche perché per molti datori di lavoro la fissazione di un obbligo di un minimo di legge (peraltro superiore nella stragrande maggioranza dei CCNL al valore dei 9 €/ora) verrà considerato non un “minimo”, ma la norma senza bisogno di integrarlo contrattualmente.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.