LA SPERANZA È UN RISCHIO DA CORRERE

Prof. Giuseppe Scanni – Già Vicepresidente di Socialismo XXI |

La criminale e sanguinaria aggressione ad Israele, preparata da anni, non si concluderà in brevissimo tempo, ma vivere significa non rassegnarsi e trovare soluzioni alle tragedie

Non sempre il tempo è un Dio benigno; secondo Shakespeare è un “vorace cormorano (Re Ferdinando, atto I delle Pene d’amor perduto), cioè un uccello predatore di grande appetito. E, temo, che non sarà breve la durata del conflitto scatenato da Hamas, coordinato ed armato dall’Iran e dal Qatar, con la solita ambiguità della pericolosa e triplogiochista Turchia; la difficoltà della Russia, ostaggio dei rifornimenti in armi dell’Iran e dell’obbligo storico-culturale di dover sempre difendere i palestinesi in opposizione agli Stati Uniti ed alla UE, ma consci di non avere peso sufficiente alle Nazioni Unite e di doversi sostanzialmente affidare solo ad un appello alla iniziativa diplomatica dell’Egitto. La dimostrazione della perdita di credibilità della Russia si accompagna alle stesse difficoltà di Al-Sisi che, nella sostanza, non ha buoni rapporti né con l’Iran né con la Turchia.

Il tempo secondo Shakespeare, il vorace cormorano, vola a dorso delle acque, facendo strage di pesci e non si sazierà facilmente a causa del feroce accanimento contro la popolazione civile israeliana, che ha provato la straordinaria inciviltà di Hamas, l’organizzazione islamista, sunnita e fondamentalista che si presenta come braccio palestinese dei Fratelli Musulmani.

Come ha ricordato ieri, otto ottobre, Paolo Mieli la stampa e le televisioni hanno deciso di non mostrare le “raccapriccianti immagini dei miliziani di Hamas che sgozzano gli abitanti di Israele…così come fu giusto non pubblicare o mandare in onda quelle altrettanto crudeli delle infamie russe contro gli inermi ucraini…questa guerra è assai peggiore di quella del 1973…quei filmati sono molto più crudi ed è impossibile, come ci ha insegnato proprio l’Ucraina, immaginare che la partita si chiuda qui… è probabile che nei prossimi giorni vengano alla luce altri massacri. Persino peggiori”. Concordo con Mieli anche quando profetizza che “tutti quelli che hanno considerato eccessiva la risposta armata degli ucraini all’invasione russa definiranno sproporzionata l’azione israeliana contro gli aggressori di Hamas”.

Queste sono le ore lunghe e strazianti dei missili (a proposito quando la smetteremo di chiamarli razzi, quasi fossero aggeggi leggermente più rumorosi e dannosi di quelli prodotti a Fuorigrotta per festeggiare il Capodanno?). Queste sono le ore delle artiglierie, delle armi automatiche, delle bombe, dei coltelli.

Ci sarà il tempo per analizzare i tanti errori, compresi quelli del governo israeliano, dei servizi di intelligence e delle forze armate.

Adesso è il momento di seguire la terribile cronaca e di affidarsi ad Aristotele che, secondo Diogene Laerzio, invitò a considerare (soprattutto penso nei momenti terribili e bui che traversiamo) che la speranza è un sogno fatto da svegli. Cioè che la realtà più drammatica non deve impedirci di impegnarsi per un futuro migliore che, anche tra le macerie, i sogni possono concretizzarsi.

Adesso, per sognare da desti, è bene dimenticare le frasi fatte e rotonde che sembrano così illuminate e ristoratrici da permetterci di addormentarci quasi serenamente ripetendoci a memoria: fermiamo la guerra mondiale fatta a pezzi; l’economia delle armi stravolge il mondo di per sé pacifico e buono; sciogliamo il mondo diviso in blocchi combattendo il neocolonialismo che impoverisce chi altrimenti sarebbe autosufficiente; chi è, in ordine, africano, sud americano e asiatico è reso povero dal capitalismo globalizzante, perché le classi dirigenti autoctone ( come sanno bene, immagino, ad esempio, in Venezuela o a Cuba), sono esenti da responsabilità; e così salmodiando ancora.

È il momento di verificare come negli ultimi anni si sono formati i trombi che occludono il sistema arterioso attraverso il quale scorre il sangue buono della pace, del progresso, della democrazia e nello specifico che hanno facilitato o permesso la guerra in atto.

Per restare sul concreto vediamo cosa è accaduto negli ultimi dieci anni e passa, ovviamente in parte riservandomi di approfondire ulteriormente altri argomenti,

Alla fine di novembre del 2019 una fonte anonima fece giungere al New York Times un testo che fu tradotto dal persiano e proveniente da una fonte interna al governo iraniano. Il documento del ministero per l’Intelligence e la sicurezza dell’Iran fu pubblicato dalla rivista The Intercept, il giornale fondato da un ex giornalista del Guardian nel 2013, sostenuto economicamente dal fondatore di eBay Pierre Omidyar.

Nelle settecento pagine del documento erano dettagliatamente descritti i rapporti del movimento fondamentalista sunnita, i Fratelli Musulmani con il sistema “rivoluzionario” sciita (cioè l’Iran). Il braccio militare del Corpo della Guardia rivoluzionaria islamica dell’Iran, “al-Quds”, che è il nome arabo di Gerusalemme “la città santa”, sin dal 2014 organizzò in un albergo turco una riunione operativa con i Fratelli musulmani, localmente rappresentati dall’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo fondato da Recep Tayyp Erdogan.

I due movimenti avrebbero dovuto, e così è apparso, mostrarsi acerrimi nemici, specialmente alla luce della rimozione dal potere in Egitto di Morsi, Fratello Musulmano e primo presidente eletto dopo lo spodestamento di Mubarak, provocato dalla primavera araba, tanto sollecitata da Washington. Il colpo di stato del 3 luglio 2013, guidato dall’attuale presidente Al Sisi a seguito di una rivolta popolare spalleggiata dall’esercito, fu invocato dai cristiani copti e dagli Stati Uniti, specialmente dopo il massacro dei cristiani a Rabia al- Hawiyya e dopo altre capillari repressioni dei non islamisti. L’indebolimento in Egitto dei fratelli Musulmani, l’isolamento del Qatar- principale sponsor dell’estremismo sunnita-, lo scombussolamento iraniano generato dalla politica di “massima pressione” di Trump nei confronti della Repubblica teocratica iraniana, la confusione che la presidenza trumpiana generò tra le differenti istituzioni politiche ed amministrative degli Stati Uniti, possono forse rendere l’idea dell’ambiente nel quale iniziò ad operare l’aggressiva politica della super spia iraniana, il generale Qasem Suleimani, capo della Niruye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile della diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica islamica, ucciso in Iraq , a Baghdad, da un drone statunitense nel gennaio del 2020.

Fu deciso nel summit in Turchia del 2014 che il terreno di incontro tra sciiti e sunniti avrebbe dovuto essere l’Iraq; perché l’Iran poteva contare su una storica importante rappresentanza di fedeli sciiti, poteva sovvenzionare l’apertura di sedi religiose nelle città sante, aiutare economicamente i raggruppamenti politici del sud , sostenere la costruzione di alberghi, uffici e santuari, selezionare i giovani da inviare nell’università di Teheran, dove avrebbero trovato anche docenti europei e genericamente definibili occidentali, reclutati per amor della cultura o del sempr’eterno snobismo radical chic anti occidentale o dal vil denaro.

L’altro argomento sul quale le delegazioni stabilirono un accordo fu, come sostenne il New York Times, che esisteva una alleanza “di fatto” fondata sul comune riconoscimento in qualità di nemico di Israele e dell’Arabia Saudita. Infatti, le parti concordarono sulla necessità della fine delle ostilità nello Yemen tra gli Houthi filoiraniani e le tribù sunnite perché assieme combattessero l’odiata Arabia Saudita.

A ben vedere la posizione dei Fratelli musulmani non era in fin dei conti una novità assoluta; già ai tempi della rivoluzione islamica contro il filooccidentale scià i fondamentalisti sunniti, in nome della shari’a e della opposizione alla occidentalizzazione, avevano superato il settarismo ed offerto ai khomeinisti la loro solidarietà. Il nemico più nemico degli altri, Israele, è stato un comune obiettivo palese, trasparente: distruggere Israele, impedire la normalizzazione dei suoi rapporti con i paesi arabi fu definito, in occasione della conferenza sull’intifada palestinese di Teheran del 2017, come un “bisogno” del jihad globale necessario per unire tutti i fedeli musulmani sotto le bandiere dell’Islam. Da qui l’intensificazione degli aiuti ad Hamas e la mano libera lasciata alla “jihad islamica Palestinese” di operare a Gaza, dove il popolo è controllato con la povertà imposta da una classe dirigente palestinese non aliena alla corruzione e da una scelta ideologica per istruire all’odio, appresa nella pratica dei campi profughi in Libano.

Il 15 giugno del 2017, in Egitto, a Bahrein, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi uniti annunciarono l’interruzione dei rapporti diplomatici con il Qatar. È questa una data molto importante perché in quel giorno iniziò un movimento assieme disgregativo ed aggregante che ha contribuito in modo essenziale a peggiorare gli sbilanciamenti provocati dalle primavere arabe.

Gli Stati Uniti capirono, a danno fatto, che non si promuovono rivoluzioni sociali se le buone motivazioni dei ceti medi locali non sono accompagnate da organizzazioni sociali e politiche capaci di esprimere gruppi dirigenti in grado di governare. L’espulsione del Qatar dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), intesa da Doha come tentativo di rendere lo Stato vassallo di Riad, comportò l’entrata in scena della Turchia.

Sembra di assistere ad uno di quei terribili film western degli anni 60 e 70 che sulla base di grandi capolavori replicavano imitazioni girate nei campetti delle periferie.

Così come la Russia non perde occasione di ricordare i passati imperi che dovrebbero aver generato fratellanze improbabili, così la Turchia governata da Erdogan, in nome dell’impero ottomano che controllò il Qatar a partire del quarto decennio del 1500, si prodigò per sostenere Doha.

Erdogan non deve aver studiato attentamente la storia del Qatar sotto la dominazione ottomana perché altrimenti avrebbe conosciuto la particolare abilità dei suoi governanti a controbilanciare i poteri dell’impero ottomano con quelli di altri imperi, segnatamente quello britannico, sfruttando le tensioni delle potenze e soddisfacendo i propri interessi economici e politici.

Se nei primi ottant’anni di Repubblica la Turchia fondata da Mustafa Kemal Atatürk non considerò il Qatar prioritario nella sua politica estera, perché lo sguardo di Ankara era rivolto ad ovest, all’Europa, con Erdogan si è realizzata una ridefinizione dello status turco regionalmente e globalmente, trasformandosi, secondo Samuel Huntington, in uno Stato pivotale, cioè – facendo riferimento ad un termine tipico della pallacanestro- in uno stato pivot cioè in uno stato che dal centro dello schieramento promuove l’attacco della sua squadra.

Vero è che ci vogliono un po’ di soldi ma il Qatar per definizione li ha e il triplogiochismo turco aveva permesso nel 2004, nel vertice del 2005 di siglare accordi con i sei paesi della Consiglio di Cooperazione del Golfo che avevano prodotto un lucroso intercambio passato dai 2,1 miliardi $ del 2002 ai 16,6 del 2008. Nel frattempo, il rovesciamento del regime iracheno e le esibizioni muscolari dell’Iran consigliarono i sei paesi del Ccg di firmare un memorandum d’intesa col quale veniva creato il Turkey-Ccg High-Level Strategic Dialogue Mechanism che supplì alle preoccupazioni securitarie delle petromonarchie, alimentate più che dal crescente multilateralismo del sistema internazionale dall’indebolimento della presenza statunitense nella regione, che è stato il prezzo dell’invasione dell’Iraq.

L’isolamento di Doha ha esaltato quella sorta di soft power turco basato sulla partecipazione alla NATO, l’occhio di favore tradizionalmente riservato da Berlino alla Turchia, la capacità di enfatizzare retoricamente la diplomazia come risoluzione delle dispute regionali ed il cinico pragmatismo di eludere appena possibile le decisioni della NATO per favorire la Russia e di contendere, grazie alle stesse petromonarchie che circuisce a favore dell’Iran e del Qatar, la centralità diplomatica dell’Egitto nella costa sud del Mediterraneo, specialmente nei confronti della Libia e della Tunisia.

In questo complesso meccanismo non poteva che finire anche la annosa crisi che con tanta obbligata lentezza coinvolge israeliani e palestinesi, ebrei e musulmani.

Il passaggio dal patto di Abramo ad un ancora più sicuro rapporto basato su un trattato coinvolgente l’Arabia Saudita e Israele è stato il detonatore di un piano lungamente studiato probabilmente dai servizi segreti iraniani. Un piano che preoccupa a diverso titolo la Cina e la Russia ma che, se realizzato, bloccherebbe la spregiudicata politica estera turca.

Se la sicurezza delle petromonarchie tornasse nel naturale alveo dell’euro-petro-dollaro che fine farebbe la fantasiosa idea di trasformare con proclami politici i BRICS in una sorta di polo mondiale politicamente in grado di trattare con USA e UE la revisione del sistema di Bretton Wood?

Come impedire una riforma delle Nazioni Unite che modificando il sistema del diritto di veto e di partecipazione certifichi la fine dei sogni egemonici e neoimperialisti della Russia? Che fine farebbe il triplogiochismo turco già traballante per la pesante inflazione, svalutazione e crisi delle riserve?

Ed ancora come fermare il rischio di una adeguata e necessaria risposta difensiva di Israele?

La riunione a porte chiuse del Consiglio di sicurezza si concluderà quando questo articolo sarà già in rete per ovvie necessità imposta dai tanti fusi orari che ci separano da New York, ma mi sembra pressocché impossibile che l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan non dichiari che il suo governo considera venuto il momento di cancellare completamente le infrastrutture terroristiche di Hamas. Il 7 e l’8 ottobre rappresentano per Israele quello che ha rappresentato l’11 settembre, specialmente per gli Stati Uniti, ma anche per tutto quel sistema democratico e liberale che si definisce Occidente. Già da ieri la pezzenteria etica di chi si rifiuta di dare valore alla vita umana chiedeva di stemperare la crisi con altri soldi da dare a Gaza. Israele è stata chiara, e con lei gli USA, l’Unione Europea. Altro che soldi! secondo la Germania occorre anche rivedere in diminuzione gli attuali stanziamenti.

L’ambasciatore israeliano, pensando agli ostaggi, alle donne ed agli uomini sgozzati, ai percossi e violentati ha ricordato che: “I soldi dati a Gaza vengono usati non per mangiare o per costruire scuole, ma solo per i terrorismo – ha aggiunto – Gli incentivi economici non possono cambiare un’ideologia genocida. Non avrebbe funzionato con l’Isis e con Al Qaeda, non funziona contro Hamas”. 

I funamboli di Ankara conoscono bene i legami che loro stessi intrecciano con Hamas, con Doha e con l’Iran e si accingono per il tramite del loro Presidente, Recep Tayyip Erdogan, a sottolineare l’importanza della fondazione di uno stato palestinese e a chiedere “equità’” nella ricerca di una soluzione che ponga fine al conflitto tra Israele e Hamas. “Si tratta di un problema che affonda le radici nella storia della nostra regione- ha sostenuto Erdogan in una dichiarazione pubblicata dall’AGI- piu’ si ritarda nella ricerca di una soluzione piu’ la pace rimarrà un miraggio per questa terra. È importante tornare a lavorare alla soluzione dei due stati. Per risolvere la situazione serve equità … Una pace non ha perdenti” (AGI)Mar/Ant 081713 OTT 23 NNNN

Se si cadrà nella trappola turca, copiata direttamente da Mosca per giustificare la guerra in Ucraina, diventerà Gerusalemme la responsabile dell’aggressione della quale è stata vittima.

Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha invece espresso la sua preoccupazione per la popolazione civile di fronte all’escalation del conflitto tra Israele e i Territori palestinesi; ha condannato “con la massima fermezza l’attacco di Hamas” e ha chiesto “tutti gli sforzi diplomatici per evitare una deflagrazione piu’ ampia”. “Gli attacchi hanno finora causato numerose vittime civili israeliane e ferite molte centinaia”, ha aggiunto Stephane Dujarric, portavoce di Antonio Guterres. “Il segretario generale è sconvolto dalle notizie secondo cui i civili sono stati attaccati e rapiti dalle loro case”. “Il segretario generale è profondamente preoccupato per la popolazione civile e sollecita la massima moderazione”, ha aggiunto Dujarric. Guterres ha esortato “tutti gli sforzi diplomatici per evitare una deflagrazione piu’ ampia” e ha aggiunto che “la violenza non può’ fornire una soluzione al conflitto e che solo attraverso negoziati che portino a una soluzione a due Stati si può’ raggiungere la pace “.

Mentre al momento la Cina tace, il presidente del Brasile fa appello perché “si pratichi la moderazione” per evitare l’escalation del conflitto tra Israele e Hamas, e difende la ripresa degli accordi di Oslo nella riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu che il Paese sudamericano presiederà oggi a New York. Lo ha reso noto la Cnn Brasil. Lula ha ricordato che gli accordi di Oslo – firmati a Washington nel 1993 e che hanno portato all’istituzione dell’Autorità nazionale palestinese – riguardavano aspetti quali l’apertura dei negoziati sui territori occupati e il ritiro di Israele da alcune aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Esattamente quello che Biden aveva, secondo il New York Times, consigliato nell’incontro bilaterale con Netanyahu e che era oggetto di discussioni nel governo israeliano prima del criminale attacco.

Il filo del sogno che anima la speranza sono le parole degli ambasciatori sauditi ed israeliani presso l’ONU che, entrambi, reputano non cancellata la trattativa di pace e partenariato tra i due stati.

Una piccola confidenza personale ho telefonato e scritto alle amiche ed amici ebrei che si trovano in Israele o che hanno parenti in quella grande nazione. Ho ricevuto, nel limite della disgrazia, buone notizie. Se per caso qualcuno, per mia disattenzione, non è stato chiamato mi scusi, per favore, ed accetti il mio affettuoso abbraccio e le mie preghiere.