FAME, CONSUMISMO, DOMANDA AGGREGATA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

FAME

Appena nato mi sono fatto 5 anni di guerra, di fascismo e di monarchia. Conosco il significato della parola “fame”; nelle foto mie di bambino ho un pancione dovuto alla sottoalimentazione, e alle rinsecchite mammelle di mia madre. Ricordo il gusto del pane nero, quello fatto con tutto tranne che con la farina di grano, e ricordo la prima volta che mangiai il pane bianco, appena sfornato da mia madre, che mi parve un dolce. C’era la borsa nera, si andava in campagna cercando di trovare qualcosa da mangiare presso i contadini che avevano più possibilità di procurarne. Mio padre, che faceva le stime dei danni agricoli, per grandine o altro, per le assicurazioni, era conosciuto in campagna e non tornavamo mai a mani vuote.

Sulle pagine della Domenica del Corriere c’erano le “ricette di guerra” che insegnavano a usare tutto l’usabile per preparare piatti decenti. Il pane raffermo tagliato a fette, era messo a bagno nel latte cui era aggiunto quel caffè che si faceva con la miscela “Leone” e con la cicoria caramellata. Dopo che il pane avesse assorbito il caffè latte, si disponevano le fette su una padella, si ricoprivano di marmellata (quella fatta in casa con prugne e mele) e si metteva al forno nella “cucina economica”. La cucina economica bruciava legna e/o carbone, ed aveva tre fori sul piano cottura che si chiudevano con cerchi concentrici sempre più piccoli fino al tondino di chiusura, in tal modo si poteva adeguare l’apertura del foro alla grandezza della pentola che si intendeva utilizzare mettendola a contatto diretto con il fuoco; sulla sinistra in alto c’era lo sportello per infilare legna o carbone, sotto c’era lo sportello per la raccolta della cenere; sulla destra c’era in alto il forno e sotto il deposito per la legna o il carbone. Ancora più a destra c’era il contenitore per scaldare l’acqua. Sulla canna fumaria c’era una corona cui incastrando delle bacchette si poteva ottenere uno stenditoio per mettere ad asciugare i panni lavati.

Mio nonno era ricco, aveva il riscaldamento in tutta casa perché aveva quelle monumentali stufe di ceramica che distribuivano, attraverso condotti, il calore in tutte le camere. Per noi a casa nostra, l’unica fonte di riscaldamento era la cucina economica, davanti alla quale, d’inverno, ci spogliavamo e mettevamo il pigiama per poi correre nelle camere da letto gelide. Ma sotto le coperte avevamo “il prete” una specie di impalcatura di legno che si infilava tra le lenzuola per ospitare lo “scaldino” di terracotta e pieno di brace, il caldo di un letto riscaldato dal prete è una sensazione irripetibile e ormai rimossa dal senso comune.

A scuola, dopo la liberazione, i bambini poveri ricevevano i pacchi UNNRA; cosa ci fosse dentro non l’ho mai saputo, ma certamente c’era la cioccolata che ci rendeva invidiosi della povertà dei fortunati destinatari di quei pacchi.

Ricordo il gusto delle carrube, quello del “sairas” una specie di ricotta che i pastori vendevano girando in bicicletta per la città. La merenda era pane burro e zucchero, quando si trovava il burro e quando si disponeva dello zucchero. Al ristorante penso di non essere mai andato se non quando andai militare. Si andava invece, le sere d’estate nel cortile posteriore della latteria, a mangiare il gelato nei bicchieri di vetro. Era quello stesso lattaio presso il quale compravamo il latte; il lattaio immergeva il mestolo nella tanica e versava il latte nel pentolino di alluminio che ci portavamo da casa.

Facevamo la spesa alla cooperativa di consumo, con le tessere annonarie, custodite nel cassetto della madia di fianco alla forbice usata per ritagliare i bollini.

Non si buttava nulla, tutto era riciclato, riutilizzato e c’era sempre una seconda opportunità per ogni cosa: al cesso ci pulivamo con le strisce del giornale del giorno precedente. L’immondizia che buttavamo era l’ultima fase di vita di qualsivoglia oggetto o merce assolutamente inutilizzabile avendo spremuto da esso ogni possibile succo utilizzabile.

Insomma culturalmente il consumo era un concetto negativo, uno spreco, l’opposto del risparmio, l’espressione della favola della formica e della cicala.

(Il mio racconto cerca di delineare il concetto di fame che, anche se era dura per noi nei tempi di guerra, nulla ha a che compararsi con la fame odierna nei paesi africani che merita tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà.)

CONSUMISMO

Per me il miracolo economico cominciò con il mio primo paio di pantaloni lunghi, lenti senza piega un po’ sdruciti ma lunghi, quasi una iniziazione alla maggiore età. Certo i tempi erano ancora duri. Ricordo un cappotto che i miei mi fecero fare rivoltando il cappotto di mio nonno carabiniere. Terribilmente nero e triste, anche se i miei cercarono di schiarirlo con un’improbabile sciarpa rossa. L’inverno resistevo ai freddi più rigidi pur di no andare a scuola con quel pezzo di abbigliamento funerario.

Poi venne la Vespa, poi la seicento quindi casa nuova, cominciammo a comperare la carta igienica, improvvisamente si bevve l’acqua minerale invece dell’ottima acqua del rubinetto.

Cominciò la marcia trionfale del consumismo, accompagnato dalla campagna culturale pasoliniana anticonsumistica; la prima destinata a trionfare attraverso gli schermi televisivi, la seconda destinata a soccombere nella nostalgia di un tempo irreversibile.

Cominciammo a masticare i chewing gums, ci sentivamo culturalmente inferiori agli americani che gettavano gli spazzolini da denti solo dopo dieci volte che li avevano usati; andavamo a comperare, era il venerdì sera, la pizza dal napoletano emigrato al nord, regalavamo i vestiti ai “rascon” reduci dalle alluvioni della valpadana veneta.

Anno dopo anno, l’indecenza televisiva rompeva il mito veltroniano del “non si può interrompere una emozione” e ci riversava, ci sommergeva e ci sommerge di merci, di prodotti, di roba da consumare, si esalta la signora che va a fare la spesa perché aiuta l’economia nazionale. Non più il mito dell’oro alla Patria, ma il consumo per far girare l’economia.

Ed il corpo umano, la persona umana diventa strumento di conquista del prodotto commerciale, violato nella sua religiosa meraviglia. Il corpo delle donne soprattutto, sognato nelle polluzioni notturne, scadeva da visione botticelliana dell’eden in un ammasso fetido di cellule mal assortite.

La donna che ha paura di salire in ascensore perché puzza di piscio; che come solleva le braccia, nonostante abbia rasato a zero quegli erotici peli subascellari, emana un puzzo tremendo di sudore; che in quei giorni diventa un mostro di eruzioni maleodoranti e caratterialmente insopportabile; che ha una pelle che diventa un pustoloso campo di rughe e vesciche non appena passati i quattordici anni; che produce gas sulfurei che ne ammorbano l’alito; i cui piedi puzzano inesorabilmente ammorbando le sale da pranzo e di ricevimento; la cui flatulenza gonfia la pancia e esplode all’esterno in un dantesco cul che fa trombetta; i capelli, dio santo i capelli: grassi, unti, aggrovigliati, secchi, pieni di forfora, ribelli; le perdite vaginali che grondano umori mocciolosi.

Insomma il consumismo come valore, come mezzo di sopravvivenza nell’umana società, una mutazione della vita in flusso di merci da produrre, da vendere, da consumare, in un turbinio, un vento inarrestabile che ci trascina in un gorgo infernale noi, le merci, i produttori di merce, i consumatori di merce, gli sfruttatori di merce; viene mercificata la politica, la poesia, la scienza, la cultura, la religione, la fede, la Patria, l’anima, il cervello, il cuore.

DOMANDA AGGREGATA

In fondo la crisi economica è crisi dei consumi; scendono i consumi, scende la produzione, scende il Pil, aumenta lo spread, incalza la recessione. Insomma i consumi come componente della domanda aggregata sono indispensabili al funzionamento di un’economia moderna, dove il risparmio che non si trasforma in consumi di beni da investimento, ha una valenza negativa.

La considerazione filosofica che dobbiamo trarne, oscillante tra un consumo necessario per sopravvivere e un consumismo che snatura la natura umana facendole perdere quel tanto di umano che esiste in noi, non è di facile sintesi.

Da una parte una filosofia contadina e puritana del risparmio, della parsimonia, della formica opposta alla cicala; dall’altra la filosofia consumistica che ordina di consumare per produrre in modo da dare soldi ai produttori perché possano a loro volta consumare e reiterare il ciclo del “mangia e caga”.

DUE ERRORI E UNA SINTESI

E’ indubbia la necessità di un equilibrio tra il consumare quel che si produce e il produrre quel che si consuma. Il livello della produzione e del consumo conosce dei limiti fisici, presenti e prospettici, che, essendo a lungo termine sono generalmente sottovalutati dagli economisti.

Ciò premesso ci sono due elementi distorsivi che minano il raggiungimento di quell’auspicabile equilibrio:

prima distorsione: se nel ciclo M-D-M’-D’-M’’-D’’ etc. la redistribuzione non è compatibile con un organico flusso tra produzione di beni di consumo e salari (ivi inclusi le retribuzioni di imprenditori e professionisti) e beni di investimento e profitti; se la distribuzione diventa una mala distribuzione che arricchisce i ricchi e penalizza i meno abbienti l’equilibrio si perde e, testimone l’indice Gini, accumula ricchezza in certi ceti che consumano meno e penalizza le masse che consumerebbero di più (differenziale nella propensione al consumo).

seconda distorsione: la mala distribuzione del punto precedente prelude due fenomeni non alternativi: il surplus appropriato:

a)non viene rimesso in circolo nel ciclo produttivo ma viene accantonato sotto il materasso (tesaurizzazione) oppure

b)viene incanalato in un altro ciclo, quello ad esempio della speculazione finanziaria – che non genera né ricchezza né prodotti;

in entrambi i casi l’equilibrio si rompe. Si consuma di meno, si produce di meno, si abbassano i salari si tagliano posti di lavoro e ci si infila in una spirale negativa simile a quella che l’Italia sta vivendo.

Solo una politica socialista che governa la distribuzione, programma la produzione, scoraggia gli investimenti speculativi, incoraggia la cooperazione tra produttori, limita i poteri devastanti del capitale e rimedia ai danni di un trentennio di mala distribuzione (leggasi imposta patrimoniale) può essere in grado di ricercare e ritrovare quell’equilibrio che il capitalismo finanziario è incapace strutturalmente e geneticamente di realizzare. Certo non basta essere o dichiararsi di sinistra, occorre quell’onestà che non può essere un dono divino, ma il risultato di controlli e procedure che costringono ad essere onesti. Occorre poi anche essere capaci, non serve essere dei geni, e neppure degli alieni, basta essere normali esseri raziocinanti.