UNA RIFLESSIONE SULLA NOSTRA GENERAZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Premessa

In una recente riunione anniversaria di “reduci”, una mia considerazione sul “fallimento della nostra generazione” ha sollevato molto interesse, tanto da spingermi a chiedere, a tutti quanti mi leggono, di offrire le loro considerazioni e valutazioni in merito, per pervenire ad una partecipata riflessione e valutazione sul comportamento della nostra generazione in questo periodo storico.

Nelle mie considerazioni, che vedo di esporre in modo sintetico nei punti seguenti, vorrò ragionare sul “cosa ci aspettavamo di realizzare” e ciò che invece “si è realizzato”; sugli orizzonti e le prospettive che ci eravamo posti al nostro affacciarci alla vita politica e ciò che constatiamo oggi si sia effettivamente costruito; sulle conclusioni che dobbiamo trarre, rivedendo le nostre posizioni o integrarle con nuove considerazioni. Non voglio prendere in esame le indicazioni, i progetti, i sogni dei programmi dei partiti politici, che abbiamo condiviso e contribuito a elaborare, ma voglio limitare il mio ragionamento con un esame critico della nostra Costituzione, mettendo a confronto ciò che essa, pur frutto di alternative visioni politiche, poneva come condiviso percorso ricco di potenzialità, con ciò che nella realtà, nel 75mo anniversario della sua nascita, essa si è concretizzata.

Nei punti seguenti prenderò in esame alcuni articoli della nostra Costituzione per esaminarle con lo spirito critico sopra descritto. Inizierò con

Articolo 1

di cui farò considerazioni sulle parole “fondata sul lavoro”. Tale formulazione, sintesi tra la proposta socialcomunista e quella democristiana, trova una precisa descrizione nell’intervento fatto da Fanfani nel suo intervento alla costituente, che riporto di seguito:

Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune.

Guardando alla società di oggi, considerando come essa si è costruita, non si può non constatare come la negazione dell’eguaglianza dei cittadini misurata dall’indice Gini, dalla crescente polarizzazione dei redditi e delle ricchezze, dal non funzionamento dell’ascensore sociale fermo da anni al piano terra, dimostrino che “privilegio, nobiltà ereditaria e sfruttamento” ancora dominanti nella nostra società, testimonino il mancato raggiungimento degli obiettivi insiti nelle parole “fondata sul lavoro”.

L’indice Gini misura la concentrazione dei redditi e della ricchezza nelle diverse classi sociali, tale indice testimonia che la Repubblica non è fondata sul lavoro ma, associando il dato alla paralisi della produttività del nostro sistema produttivo ed all’andamento del target 2 che trasforma il dato positivo delle nostre esportazioni in un dato negativo dovuto all’acquisto di titoli tedeschi (una volta descritti come fuga dei capitali), ma sul capitalismo finanziario che assorbe fondi al sistema produttivo per riversarli su investimenti che non generano ricchezza ma solo la spostano a favore degli insiders ed a danno degli outsiders. L’auspicata finalità delle argomentazioni fanfaniane ovvero “il massimo contributo alla prosperità comune” si è realizzata in una appropriazione basata sulla fatica altrui a favore di pochi speculatori improduttivi.

Sul fronte fiscale, poi, sovvertendo le impostazioni dell’art. 2 e 53 della Costituzione, il primo che oltre a riconoscere e garantire i diritti inviolabili richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, il secondo prevedendo la progressività delle imposte, rileviamo che l’introduzione della flat tax per i rediti di capitale, dei fabbricati, dei minimi scaricano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati il maggior onere fiscale. La timidezza delle attuali opposizioni su questo fronte pare dare per acquisita la trasformazione della Repubblica fondata sul lavoro in Repubblica fondata sulle imposte pagate dal mondo del lavoro. La caratterizzazione non classista rivendicata dalla formulazione dell’articolo 1 si è concretizzata in una politica fiscale genuinamente classista. Con, in aggiunta, una vergognosa legge di delega fiscale approvata, che estende la flat tax a tutti con una contradditoria assicurazione che ciò verrà fatto nel rispetto della progressività prevista dalla Costituzione.

Le tax expenditures, che ammontano a più di 100 miliardi ogni anno, sono una foresta di “privilegi” regalati a fini elettoralistici che offendono in modo spudorato lo spirito costruttivo dei costituenti. E che dire dei sussidi 4.0 Calenda che regala al capitale i soldi per innovare il sistema produttivo quando questo compito è insito nella delega data al privato. Ricordo che la scelta di delegare al privato l’iniziativa produttiva ha sacrificato l’iniziativa pubblica con le privatizzazioni degli scorsi anni-

E che dire di una legge fiscale sulle successioni che dà un gettito di 800 milioni di euro, contro i 19 miliardi registrati in Francia, che favoriscono in modo spudorato una “nobiltà ereditaria” estranea al mondo del lavoro, e ciò in netta opposizione all’idea einaudiana di colpire in modo significativo ogni provento economico non frutto di lavoro. Che dire, ad esempio, dell’esenzione dall’imposta di successione per le quote ereditate da soggetti che mantengano il possesso delle quote per almeno un quinquennio (è il caso degli eredi di Berlusconi che non pagheranno un euro sulle quote Mediaset e altre società ereditate)?

Il fallimento dell’auspicato “massimo contributo alla prosperità comune” è certificato dall’evasione fiscale che, se combattuta, risolverebbe i nostri problemi di deficit e debito pubblico.

Queste considerazioni ci dimostrano che nell’attuazione pratica di un disegno costituzionale ispirato alla solidarietà sociale: l’interesse privato; la logica del profitto come guida delle scelte nella berlingueriana domanda sul “come e cosa produrre” (logica opposta a quella che tende alla prosperità comune); la scelta dei valori di scambio rispetto alla scelta dei valori d’uso ha prevalso, indirizzando il Paese verso un approdo che testimonia sul fallimento dell’orizzonte della nostra generazione.

Articolo 3

Il secondo comma di questo articolo prevede che lo Stato si impegni attivamente per eliminare tutti quegli “ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” (Faccio notare qui come parlando della “partecipazione di tutti i lavoratori” si riprenda la proposta socialcomunista di una “Repubblica dei lavoratori” posta come emendamento dell’art.1). Pare corretto affermare che l’articolo 3 affidi allo Stato il compito di creare le condizioni per le quali si realizzi una eguaglianza sostanziale tra i cittadini.

Questo comma programmatico è forse quello che più ha coinvolto la nostra generazione nella sua elaborazione politica. Ci abbiamo provato, ricordo il 68, ricordo la pratica politica della costruzione di momenti di partecipazione: nei posti di lavoro, nei quartieri, nelle scuole, nella sanità e in tante altre realtà.

 Nonostante le recenti manifestazioni di piazza dei sindacati, del PD di Elly Schlein, dell’associazione “non una di meno”, penso con un certo scetticismo ad una ripresa della richiesta di partecipazione che presuppone una gramsciana emancipazione dei subordinati tramite studio, approfondimenti, responsabilizzazione, maturazione delle masse che, non più utilizzate e strumentalizzate, costruiscano una loro egemonia. Occorre tuttavia riconoscere che il movimento delle donne sta, e non da ora, crescendo nella società con crescente intensità.

Eppure, in passato, c’è stata una diffusione di una cultura che formava un campo favorevole ad una applicazione, diciamo progressista e solidale, delle opportunità offerteci dalla Costituzione, ma tale periodo si è spento così come si è appannato lo spirito di partecipazione. La democrazia ridotta a sola espressione del voto sta dando segni di stanchezza, l’elettorato perde sempre più presenze ad ogni tornata elettorale, e ciò non solo in Italia ma in tutto il mondo occidentale. L’individualismo soffoca lo spirito comunitario; ad una condivisibile ricerca di nuovi diritti corrisponde una negazione, una cancellazione di quei diritti costruiti in passato; il lavoro a tempo indeterminato lascia spazio a quello precario; la partecipazione all’impiego del surplus è negata da una ritrovata egemonia del capitale; alcune cooperative, nate come strumento di emancipazione dei subordinati, sono diventate soggetti su cui scaricare il rischio imprenditoriale.

Articolo 11

Il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali ci indica la strada della ricerca della composizione delle alterne vicende, anteponendo allo schierarsi per l’una o l’altra parte il primato del compromesso e della ricerca di una soluzione pacifica. A mio parere, con giustificazioni che non hanno alcun fondamento nello spirito di questo articolo della Costituzione, stiamo rinunciando ad un nostro mandato inequivoco; accettando la logica dello schierarsi e cadendo quindi nella conseguente logica bellicistica, cancelliamo l’imperativo del ripudio (termine mai scelto con tanta precisione) e ci impantaniamo in pavido conformismo subalterno. Hanno fatto di più personaggi discutibili come Erdogan, o soggetti come la Cina che nella loro Costituzione ignorano il concetto di ripudio della guerra, di quanto abbiano fatto i nostri rappresentanti politici.

Per concludere

La Costituzione offriva ed offre tanti spazi per attuare ciò che la Resistenza ci chiedeva e ci indicava. Se onestamente guardiamo a ciò che la nostra generazione ha fatto fino ad ora, tra momenti esaltanti e sconfitte dolorose, non possiamo che concludere con una amara sensazione di fallimento.