di Renato Costanzo Gatti

Socialismo XXI – Lazio |

Pochi conoscono il lavoro di Piero Sraffa, lavoro elaborato negli anni ’30, ma uscito come libro nel 1960 con il titolo PRODUZIONE DI MERCI A MEZZO DI MERCI.

Questo lavoro contesta l’egemonica teoria economica neo-classica basata sul marginalismo Marshalliano e di Walras. In tale  teoria l’equazione che partendo dalla produzione arriva al prodotto finale sul mercato del consumo, in regime di libero scambio, senza cioè presenza di monopoli né di interventi da parte dello stato, ritrova sempre un suo equilibrio rappresentato dall’incontro tra domanda e offerta nella corrispondenza del valore marginale dei soggetti economici interessati.

Tale equazione si può sintetizzare come:

(1) contributo della terra + contributo del capitale + contributo del lavoro = prodotto finale

Per ogni accadimento esogeno, e lo sviluppo tecnologico è considerato tale, i vari operatori economici rideterminano il loro valore marginale che, prima o poi, ritrova il suo equilibrio grazie ai meccanismi del libero mercato. In tale visione non può esistere contrasto tra gli operatori, non esiste sfruttamento di un operatore sull’altro, entrambi operando sulla base di concorde incontro tra i valori marginali. Non sono concepibili situazioni di prevaricazioni del capitale sul lavoro, non esiste sfruttamento, non esistono classi sociali, non servono interventi dei sindacati che altro non farebbero che intralciare il meccanismo di mercato, così come lo intralcia ogni intervento dello stato.

Un lavoratore, ad esempio, confronta il decrescente valor marginale del salario offerto sul mercato con la fatica crescente del lavoro prestato; finché il valor marginale della paga è superiore alla fatica marginale dell’ora lavorata, il lavoratore presta lavoro; quando la fatica eccede il valore del salario il lavoratore cessa di prestare lavoro; nel punto di incontro si determina sia il salario che il tempo di lavoro, il tutto nella libera volontà del lavoratore.

Il fondamento di questa teoria si basa su elementi psicologici, quali il valore marginale che ignorando le reali condizioni dei rapporti tra i soggetti sociali, viaggiano in una atmosfera ideologica poco compatibile con la dura realtà dell’economia.

Sraffa nel suo lavoro, oppone alla teoria neo-classica un “ritorno ai classici”, Smith, Marx ma soprattutto Ricardo. Questo ritorno ai classici evidenzia punti fondamentali che contestano il marginalismo:

● L’equazione della produzione (1) è lineare, ma nella realtà occorre studiare l’economia come un processo circolare, nel senso che l’output di una industria diventa input di una industria successiva. Studiare il processo economico utilizzando una equazione lineare è quindi contestabile a livello di principio, parrebbe molto più adatto utilizzare le tabelle di input-output di Wassili Leontief;

● Il non considerare la circolarità del processo porta ad una pesante contraddizione. Infatti, quando nella formula dell’equazione lineare (1)  leggiamo “contributo del capitale” dobbiamo renderci conto che il capitale apporta macchinari, merci, prodotti di altre industrie. Apporta cioè prodotti di cui dovremmo aver determinato con una appropriata equazione lineare i relativi valori. Quindi la formula inserisce come dato un valore che deve essere determinato dalla formula stessa; è una evidente pecca logica che inficia tutto il sistema teorico neo-classico.

● L’equazione (1) ignora lo sviluppo tecnologico che viene considerato come elemento esogeno, estraneo al processo produttivo. Un altro economista, l’austriaco Joseph Schumpeter, contesta la pace perfetta del mondo marginalista opponendogli una lotta tra operatori sul mercato basata sull’innovazione tecnologica sia nella produzione che nella ricerca dei mercati, innovazioni che sconvolgono il mercato dando un temporaneo vantaggio all’operatore innovatore che i concorrenti tentano di azzerare introducendo nuove innovazioni, sapendo di rischiare l’emarginazione, il fallimento in caso di inerzia.

Nel modello di Sraffa si parte da un modello di produzione circolare in cui i quantitativi prodotti sono esattamente uguali a quelli utilizzati nel processo produttivo; se consideriamo ad esempio un modello con tre componenti: grano, ferro, carbone, avremo:

(2) 240 q grano + 12 t ferro + 18 porci = 450 q grano

       90 q grano +   6 t ferro +  12 porci =   21 t ferro

       120 q grano +   3 t ferro +  30 porci =  60 porci

Riscontriamo che l’output di ogni prodotto è uguale alla somma degli inputs delle imprese che utilizzano quel prodotto; ad esempio i 450 quintali di grano prodotto entrano nella produzione di grano, ferro e porci esattamente per 450 quintali. Lo stesso per ferro e porci.

In tale modello abbiamo tre equazioni e tre incognite (i prezzi dei vari beni) rendendo insolubile il sistema. Ma se adottiamo un prodotto come prodotto misura dei valori e poniamo il suo prezzo uguale ad 1 riduciamo le incognite a 2 rendendo possibile la soluzione matematica della determinazione delle ragioni di scambio e dei prezzi (relativi al prodotto misura).

Ma quando grazie alle innovazioni tecnologiche, alla formazione dei lavoratori, a nuovi metodi di produzione si crea produttività, allora i quantitativi prodotti eccedono quelli necessari al processo produttivo generando un surplus. Adottando il precedente esempio vediamo come mutano le equazioni:

(3) 240 q grano + 12 t ferro + 18 porci = 570 q grano meno  450 = sovrappiù  120

        90 q grano +   6 t ferro +  12 porci =   31 t ferro    meno   21 =  sovrappiù    10 

        120 q grano +   3 t ferro +  30 porci =  60 porci         meno  60 = sovrappiù       0

Ci si pone ora la domanda di come si posa ripartire tra i fattori della produzione (ovvero tra capitale e lavoro) quel sovrappiù generato. Secondo la teoria neo-classica il sovrappiù viene redistribuito secondo gli equilibri marginali, tema questo ideologico stante i difetti intrinseci dell’equazione lineare (1); secondo Sraffa la ripartizione del sovrappiù non conosce una legge se non quella dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Le equazioni di una produzione con sovrappiù sono tutte risolvibili matematicamente qualunque sia la ripartizione del sovrappiù tra capitale e lavoro. Di certo sappiamo che saggio di salario più saggio di profitto danno come risultato 1. Possiamo quindi ipotizzare un saggio (o di lavoro o di profitto)  ricavando l’altro saggio per differenza. Infatti nulla vieta di considerale tutte le possibili combinazioni adottando, per esempio in un primo caso un saggio di salario che assorbe il 100% lasciando 0% al profitto; proseguendo poi adottando il saggio di salario al 90% che lascia il 10% al profitto; e così via fino al saggio di salario uguale a 0% cui corrisponde un saggio di profitto al 100%.

Questa conquista teorica ha sconvolto tutta la visione  sindacale e politica degli anni 60: non esistevano limiti economici che proibissero un aumento del saggio del salario, e per tale obiettivo si sono mossi i sindacati ed il movimento operaio.

In verità dobbiamo considerare che dei limiti esistono, fondamentalmente due: il saggio del salario non può scendere al di sotto della sopravvivenza, per ovvie ragioni, ed includendo nel concetto di sopravvivenza anche le necessità per la riproduzione al fine di avere sempre nuovi lavoratori; ed il tasso di profitto non può scendere al di sotto del tasso di interesse altrimenti i capitali si rivolgono alla finanza abbandonando l’industria.  All’interno di questi due limiti è il rapporto di forza tra capitale e lavoro a determinare i relativi saggi di salario e di profitto.

Sarebbe tuttavia molto limitato interpretare il tema della ripartizione del sovrappiù come un tema di ricchi e poveri, molto più sostanziale è il considerare il “come” verrebbe utilizzato il sovrappiù, cioè quale società risulterebbe dal diverso utilizzo del sovrappiù gestito dal lavoro ovvero dal capitale.

Il capitale (oltre ad arricchire i consumi privati) investirà il sovrappiù in attività che generano profitto; tra il produrre un servizio come la sanità o la produzione di beni di lusso, il capitale non esiterebbe ad investire nel prodotto che dà più profitto (magari armi). Il criterio discriminante è quindi il profitto ma non è assolutamente conseguente che le scelte fatte con questo criterio siano quelle più adatte a migliorare la situazione economica della comunità, obiettivo questo estraneo alla logica del profitto. La storia di Torino, regno del più famoso capitalista italiano (i cui eredi sono indagati per evasione fiscale) ma ridotta oggi ad essere la citta più cassaintegrata d’Italia, può essere significativa al proposito.

Il lavoro tenderà (anche per necessità esistenziali) a trasformare il sovrappiù in consumi; si tenderebbe probabilmente ad una società di esasperati consumi ignorando il reinvestimento in attività produttive. Pensiamo ad esempio al super-bonus come fenomeno da esaminare secondo questa visione. Val la pena ricordare che Marx condannò pesantemente il “Programma di Gotha”, redatto dal partito socialista tedesco, in cui si ipotizzava (tra altri obiettivi) la “giusta ripartizione del frutto del lavoro”. Marx obietta che prima di ripartire il frutto del lavoro tra i lavoratori, fosse necessario detrarre:

“Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati. Secondo: una parte supplementare  per l’estensione della produzione. Terzo: un fondo di riserva o di assicurazione contro gli infortuni, danni naturali etc.”.

Rimane così come residuo ciò che va ai consumi ma, anche in tal caso detraendo:

“Primo: le spese generali non rientranti fra quelle di produzione. Secondo: ciò che è destinato ai bisogni sociali (scuole, sanità etc.). Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro”.

Ecco che allora la propensione al consumo viene incanalata in una razionale creazione di un futuro, creando una classe dirigente che programma il suo futuro.

Va infine ricordato che tutto il lavoro di Gramsci è rivolto nel trasformare i subordinati in dirigenti, nel creare cioè nel mondo del lavoro, che si pone come antagonista alla cultura del profitto, soggetti in grado di gestire il sovrappiù con la cultura del socialismo.   

Sul tema della ripartizione del sovrappiù emerge quindi l’esigenza di pensare ad una ripartizione che sia ispirata alla “razionalità” dell’utilizzo del sovrappiù stesso, esigenza che l’attuale situazione politico-sociale dell’Europa non è in grado di perseguire.

IL DOCUMENTO SULLA COMPETITIVITA’ DI DRAGHI

Non voglio entrare nei dettagli del rapporto Draghi, vorrei inquadrare la sua posizione riferendomi ai modelli di ripartizione dei sovrappiù più sopra esaminato.

I punti di analisi di Draghi, di critica della attuale situazione dell’Europa, possono essere riassunti nei seguenti:

● A livello tecnologico siamo decisamente in affannoso ritardo, fermi alla tecnologia dell’auto mentre USA e Cina stanno innovando tecnologicamente con la digitalizzazione, con i computer quantistici, con l’intelligenza artificiale. Tecnologia dell’auto che, tra l’altro,  sta vivendo una rivoluzione in cui si vede il produttore cinese invadere i nostri mercati creando terribili crisi alle imprese automobilistiche europee. (Vedi Volkswagen e Stellantis)

“Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate rispetto a Stati Uniti e Cina(…). Manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali.” Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie.”

● Anche a livello normativo i nostri concorrenti rompono i concetti del libero scambio; gli USA reintroducono con l’IRA di Biden i dazi doganali, la Cina con i sussidi vanifica la nostra politica degli aiuti di stato. Come risultato rileviamo che nei paesi concorrenti le “industrie non solo devono far fronte a costi energetici più bassi, (paghiamo l’elettricità da due a tre volte di quanto pagato negli USA ed il gas ci costa quattro volte tanto) ma devono anche far fronte a un minore onere normativo e, in alcuni casi, ricevono massicci sussidi che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere.(…) La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze.”

Esaminando questi punti che ho tratto dal rapporto di Draghi ne deriverei la seguente riflessione: mi pare che la base del discorso di Draghi possa rimandarsi al concetto della “Innovazione distruttrice” di Schumpeter, ovvero il mondo non vive negli irenici equilibri dei neo-classici, vive piuttosto in un ambiente in cui l’innovazione (che Draghi definisce rivoluzionaria), non solo della tecnologia ma anche delle dimensioni d’impresa (l’Italia ha il record delle mini-imprese), delle regole amministrative (la gestione degli aiuti di stato in Europa è suicida),  richiede immediate riforme competitive o il rischio è quello di essere emarginati e riassorbiti nell’orbita gravitazionale deli USA o della Cina.

Il grido di Draghi è disperante perché intravvede l’incapacità dell’Europa di raccogliere questa richiesta di immediate e profonde riforme. Le riforme non le fa il modello “capitalista” guidato dal solo principio di un profitto immediato, non le fa il modello consumistico non guidato da una nuova classe dirigente; negli USA (Mariana Mazzucato insegna) le riforme rivoluzionarie tecnologiche sono guidate da una programmazione guidata (semplificando) dal potere militare, in Cina le stesse riforme sono fatte da un partito comunista che sta costruendo una egemonia che investe metà dell’orbe terracqueo e che progetta il futuro per stimolare la crescita ponendosi un obiettivo di crescita impensabile nel nostro continente.

Ne consegue la ovvia conseguenza della necessità di una programmazione che neghi la richiesta neo-classica del “non intervento dello stato”; anzi solo un approccio razionale alla situazione, l’adozione dei modelli di input-output che aiutino nel garantire la disponibilità delle materie prime oggi strategiche, nuovi modi di produzione che superino la retorica esaltazione dei micro-produttori, possono riportarci a competere ad armi pari con i nostri concorrenti. 

E’ quindi chiara l’indicazione di Draghi per riforme che superano i concetti dei neo-classici e che richiedono un autorità programmatoria che oggi in Europa è difficile intravvedere e per la pochezza dei dirigenti politici e per l’indubbia crisi della democrazia. Le difficoltà delle regole europee ostano ad una seria impostazione delle riforme indicate. Basterebbe al proposito vedere le reazioni della Germania in relazione all’acquisto di azioni della Commerzbank da parte di Unicredit.

Servirebbe forse la Repubblica dei Filosofi di Platone che opponeva questa formula alla sterile democrazia di Pericle. Oggi una repubblica dei filosofi sarebbe rappresentata da una repubblica degli esperti, lasciando però  nel vago su chi li seleziona e come. Nel nostro paese, quando siamo in difficoltà ed i partiti politici sono incapaci di portare avanti riforme che “fanno perdere voti”, abbiamo inventato i governi tecnici (quelli che la riforma Meloni vorrebbe eliminare) che, fregandosene della ricerca di consenso popolare, fanno quello che ritengono necessario fare per il paese. Ma una soluzione come questa in Europa è impensabile.

Sono quindi pessimista che il rapporto Draghi possa avere un riscontro concreto in Europa.