di Bruno Lo Duca

Coordinatore Socialismo XXI Piemonte |

Sono un comune cittadino, come voi; una persona con qualche esperienza e con qualche interesse, che si guarda intorno per cercare di capire come gira il mondo, che prova ad informarsi, che si fa qualche opinione personale su quel che è successo, su quel che succede o su quel che potrebbe succedere; ed è quello che oggi cercherò di proporvi. Innanzitutto voglio dire che questa non deve essere una festa a sé stante. Ad essa se ne collegano altre: il 7 gennaio Festa del tricolore, adottato dalla Repubblica Cispadana a Reggio Emilia nel 1797; il 17 marzo Anniversario dell’Unità d’Italia del 1861; il 25 aprile Festa della Liberazione del 1945; il 2 giugno, data del Referendum istituzionale del 1946.

La Costituzione repubblicana e tutte queste ricorrenze insieme – non disgiunte – connotano il nostro Paese e le sue istituzioni ed è giusto considerarle un tutt’uno. Infatti dobbiamo: al 7 gennaio se abbiamo una bandiera nazionale da 220 anni; al 17 marzo se siamo diventati una nazione e non più un insieme scomposto di stati; al 25 aprile se abbiamo chiuso i conti con la 2° guerra mondiale, l’occupazione tedesca e la dittatura; al 2 giugno se siamo passati da uno stato monarchico a una repubblica democratica; al 4 novembre se abbiamo chiuso il capitolo della dominazione asburgica. Così vanno considerate, rispettate e partecipate da tutti/e, al di là di legittime e diverse aspirazioni personali. Oggi festeggiamo anche le nostre Forze armate, che malgrado pesanti vicissitudini ed enormi perdite umane, sono riuscite nel 1918 a farci riconquistare l’indipendenza e la dignità di essere italiani.

La gratitudine per chi ha combattuto allora e il rispetto per chi opera adesso per la nostra sicurezza, però, non significano e non devono significare adesione all’idea di guerra. Berthold Brecht ha scritto “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”. E, infatti, che cosa è successo dopo la fine della Prima guerra mondiale? La fame, la povertà, le precarie condizioni di vita e di lavoro hanno spinto grandi masse alla lotta e al tentativo di affermare una società più civile; a loro si è opposta la violenza e il richiamo imperioso all’ordine; i risultati sono stati la nascita del fascismo e un’epoca durata oltre 20anni, costellata da guerre di conquista, da persecuzioni razziali e da un folle secondo conflitto mondiale.

Anche per questi motivi nella nostra Costituzione è scritto testualmente all’art. 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

Non è un caso se il servizio militare non è più obbligatorio; se abbiamo forze armate volontarie e specializzate, che svolgono sempre più compiti di protezione civile in Italia e all’estero; se intervengono in collaborazione e sotto il comando di organismi internazionali; se si amplia il servizio civile (che auspico obbligatorio per i/le nostri/e giovani); se tante organizzazioni non governative operano per la pace e la ricostruzione in tante aree disastrate del nostro pianeta. 

Si dice sempre che l’uomo è un animale sociale; è sicuramente vero, l’uomo ha il bisogno istintivo di vivere con gli altri. Ma la storia ci insegna che l’uomo è anche un animale antisociale; in lui esistono propensione a utilizzare la forza, sete di potere, necessità o desiderio di avere sempre un nemico da combattere o qualcuno da sottomettere. Eppure l’uomo è anche l’unico animale dotato di cervello pensante e di parola per esprimere quel che pensa e queste qualità gli consentirebbero di agire per evitare accuratamente le tragedie alle quali, invece, siamo abituati.

Consideriamo anche solo il mondo civile occidentale; non mi pare che l’uso della violenza sia una pratica in via di estinzione. Atti di violenza fisica e di uso delle armi, soprattutto verso i più deboli, costituiscono il pane quotidiano dei nostri telegiornali, che sono ormai diventati strumenti di informazione di pura cronaca nera; pare che abbiano quale unici scopi quelli di spaventare la gente comune e di istigare a un’emulazione molto pericolosa. 

Parecchi anni fa consigliavo a dei ragazzi molto giovani di informarsi anche vedendo i telegiornali, perché li ritenevo ancora uno strumento utile. Vi giuro che da tempo ormai non riesco più a guardarne uno per intero e che provo una buona dose di compassione per quei giornalisti il cui lavoro viene così svilito.

Che l’uso sconsiderato delle armi porti solo a una spirale senza fine è un fatto inventato; annotiamo quanto avviene negli Stati Uniti e quanto sempre più spesso si segnalino episodi assurdi nella nostra civile Europa. Se ci si abitua così tanto facilmente a maneggiare le armi, la tentazione di farne un uso del tutto improprio, come uccidere-ferire-terrorizzare, si finisce fatalmente per giustificare la guerra come un mezzo privo di alternative.

L’Europa occidentale può giustamente vantarsi di vivere in pace da 72 anni, ma non è sempre e ovunque stato esattamente così; soprattutto non è così ai suoi confini orientali, dove si sono riproposte guerre e orrori, che speravamo superati e dimenticati. E la guerra fratricida tra le ex repubbliche jugoslave ha richiamato in molti il ricordo della miccia della Prima guerra mondiale.

Se poi osserviamo quello che avviene nel resto del mondo, c’è proprio poco da stare allegri: innumerevoli i focolai di guerra e tantissime situazioni non risolte, o addirittura mai risolte, non fanno altro che alimentare nuovi focolai di guerra e, magari anche, costituire per alcuni un comodo alibi per non smettere di uccidere. E, se alle condizioni da fame presenti in tanta parte del mondo, aggiungiamo le condizioni di paura che i conflitti armati generano (non disgiunti da un fanatismo religioso totalmente assurdo), come si può pensare che chi vive in quei luoghi non sogni il momento giusto per scappare, per venire dove si dice che si vive bene, che si lavora, che si sta in pace, che si può godere di veri diritti e di livelli di vita inaspettati?

Eppure i conflitti armati si fanno con armi potenti e sofisticate; alcune potrebbero sfuggire al controllo umano e distruggere il pianeta o una buona parte di esso. E allora? Allora qualcuno le produce, qualcuno le vende, qualcuno le acquista, qualcuno le baratta, qualcuno le usa o ne minaccia l’uso e questa è un’altra spirale che non si ferma mai. Non solo; la fine di alcuni regimi nel mondo ha “liberato” tante armi molto pericolose e persone senza molti scrupoli, che le vendono o le usano al servizio del miglior offerente, e così, come in un famoso film con Alberto Sordi, “Finchè c’è guerra, c’è speranza”.

Non c’è alcuna necessità di essere additati quali adepti di Pax Christi, se si dice che bisogna assolutamente invertire la tendenza e interrompere la spirale di violenza, nella quale tutti sono convinti di avere ragione e spesso non è più nemmeno possibile distinguere la ragione dal torto. E’ solo una questione di buon senso popolare; ma esiste davvero? Come mai l’amico di ieri, che hai aiutato a usare le armi e a sostenere un conflitto considerato giusto, diventa il nemico acerrimo di oggi, che ti vuole estinguere dalla faccia della terra? E’ davvero così impossibile capire che qualcosa non funziona, che si è superato il limite, che è ora di tornare indietro? Non insegnano proprio nulla le esperienze e le cosiddette guerre lampo, mai finite, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria?

E’ possibile che i tanti strateghi, che paghiamo profumatamente, non abbiano nemmeno immaginato come poteva finire, che il disfacimento di alcuni regimi – per quanto non digeribili – avrebbe potuto comportare la nascita e la crescita di schegge impazzite, in assenza di una visione del futuro davvero possibile dopo un conflitto? Non hanno mai imparato che si sa sempre come una guerra inizia, mentre non si sa mai né quando né come né se finisce. E’ solo un destino cinico e baro che ci impedisce negli anni 2000 di fare crescere interventi umanitari e di sviluppo in tante aree del mondo e che ci espone invece al rischio continuo e crescente di nuovi conflitti, di nuove guerre, di nuovi lutti?

Oggi non abbiamo bisogno di guerre; abbiamo invece bisogno di un serio e coordinato controllo del territorio, che ci faccia evitare una spirale di violenza terroristica, che ormai trova spazio nei nostri Paesi. E questo è un compito difficile, complicato, ma è l’unico possibile; si tratta di lavoro di intelligence, di prevenzione, ma anche di creazione convinta di una società che sappia integrare persone e culture diverse. E’ un compito che ci riguarda tutti, nessuno escluso; questo è “il nostro fronte”.

Credo nel futuro di un Paese unito, nell’esigenza di una coesistenza pacifica non solo qui, in Forze armate sempre più impegnate per la crescita umana, nella possibilità di un livello culturale più alto, indispensabile per riuscire a rispondere a queste nuove sfide.

Vorrei chiudere con un piccolo aneddoto personale.

Da qualche tempo sto tentando di ricostruire un po’ di storia del ramo materno della mia famiglia; qualche buon risultato l’ho portato a casa, ma non ancora tutto. Mio nonno mi aveva sempre detto di avere partecipato alla Prima guerra mondiale e di essersi salvato miracolosamente; mi era sempre stato detto che i miei nonni si erano sposati nel 1918, che vivevano a Udine e 10 anni dopo a Pallanza; non uno straccio di informazione in più.          Ma, il ruolino militare di mio nonno (Distretto di Udine) mi ha detto che la guerra se l’è fatta tutta. E il Comune di Gaeta, attraverso l’atto di nascita originale di mia nonna, mi ha fatto scoprire che i miei nonni si erano sposati ad agosto del 1918 a Marcianise, in provincia di Caserta. Come caspita avranno fatto a sposarsi a Marcianise due persone con provenienze così distanti che non avrebbero dovuto conoscersi prima, mentre ai nostri confini nordorientali infuriava più che mai la guerra, nella quale il novello sposo doveva essere impegnato a non far passare lo straniero? So che non risolverò mai questo mistero familiare; ma chissà, sogno che potrebbe aiutarmi Generale, la canzone di Francesco De Gregori “…. e torneremo ancora a cantare e a farci fare l’amore, l’amore dalle infermiere…”. Vuoi vedere che il 30enne sergente Achille Marinato, della 62.a Sezione Lanciafiamme del 24° Reggimento Fanteria, ferito in battaglia, è stato ricoverato nell’ospedale militare di Marcianise (ce ne erano ovunque in Italia) e lì ha conosciuto la 24enne Elisa, che doveva fungere da crocessina o qualcosa di simile e si sono “infiammati”? Un pensiero assurdo (in assenza di documenti probanti), ma mi fa venire in mente Addio alle armi di Hemingway e il relativo film girato anche a Pallanza nel 1957 (a pochi passi dal Mausoleo dedicato al gen. Luigi Cadorna, sì proprio quello di Caporetto).