ANOMALIE A SINISTRA – DISCUTERE E UNIRE

di Gino Giugni |

In questo numero del 1996 de “Le ragioni del Socialismo”, mensile diretto allora da Emanuele Macaluso, fu pubblicato un articolo di Gino Giugni , il quale intervenne nel dibattito aperto dalla rivista sulle prospettive della sinistra e sulla diaspora socialista. A distanza di 23 anni la situazione della sinistra italiana nel suo complesso è divenuta a dir poco ancora più paradossale e avvilente. Con un Pd partito liberal e con la Questione Socialista tutt’ora irrisolta.

La natura non fa salti, e meno che mai accetta fughe in avanti. E in questa trappola rischia davvero di cadere l’alternativa tra partito democratico o dell’Ulivo e ipotetico partito socialdemocratico, punto di arrivo del grande travaglio del socialismo italiano: un travaglio che dura, a dir poco, dal lontanissimo giorno della scissione di Livorno.

E’ risultato evidente che l’area dell’Ulivo, come ha dimostrato lo scarto positivo di quest’ultima rispetto all’esito proporzionale, gode di un vantaggio. Ma non è affatto detto che il modulo della coalizione, quello che ha presieduto alle positive sorti dell’Ulivo stesso, conduca ad una coincidenza necessaria tra quest’ultimo e l’area del partito che occupi, nell’ambito della coalizione stessa, la posizione di sinistra. Quest’ultima corrisponde oggi, la si chiami come si vuole, al modulo della socialdemocrazia. Ed essa poggia su consistenti basi.

In primo luogo, vien da considerare l’organizzazione compatta e capillare che si è formata intorno al Pci, e che già dopo la Liberazione era divenuta patrimonio proprio, contestato debolmente, ed un po’ anche irresponsabilmente, dal Psi di allora. E’ una constatazione che va messa in primo piano: le solide e profonde radici di quello che fu all’origine un partito della Terza Internazionale hanno potuto attraversare un’autentica mutazione genetica (mai tale espressione fu impiegata così a proposito) grazie alla scelta di darsi un’organizzazione di massa, capace di resistere e, in larga misura, di manifestarsi poco sensibile al mutamento ideologico che veniva a svolgersi per lo meno dagli anni Sessanta in avanti.

In secondo luogo, l’appello europeo dovrebbe operare come una spinta alla “normalizzazione” rispetto alla anomalia italiana, costituita dal venir meno di una rappresentanza socialista nelle istituzioni europee e determinata dal collasso del partito socialista, ormai scomparso anche dalla scena parlamentare.
Le anomalie, da questo punto di vista, alla fine dei conti sono due, simmetriche tra loro: ossia, la scomparsa dell’entità socialista o socialdemocratica e il consolidamento egemonico, nell’ambito della sinistra, di quella anomala creatura che è il Pds, partito di fisionomia ben radicata nella realtà politica italiana, ma tuttora non assimilabile a nessuno dei modelli europei, o almeno a quelli dell’Europa occidentale, e forse unico nel suo genere: ed infatti l’accostamento a partiti postcomunisti, all’Est ma anche all’Ovest, sarebbe approssimativo e ingannevole.

L’anomalia italiana occulta una realtà non decifrabile a prima vista. Quanti pensano ad una tabula rasa, o alla Storia che viene riscritta ex novo, si pongono fuori da ogni realistica interpretazione di vicende umane. Il Pds custodisce una sua memoria collettiva, di cui è anzi tutore molto geloso. Ma il passaggio che si tende a rimuovere è quella parte di quella storia che appartiene al “passato di un’illusione“, per usare qui la fortunata espressione di Furet. E questo passato è quello del Pci, che ad esso non può contrapporre l’artificio di un nuovismo ideologico, impiantato sul tronco di qualche pianta esotica, oppure sulla ricerca di una filosofia indigena che potrebbe nutrirsi anch’essa di una generosa e nuova illusione.

Il tentativo più rigoroso compiuto negli anni Sessanta e Settanta fu quello che venne banalizzato nella definizione di cattocomunismo, e che in termini volgarizzati si espresse nell’idea di una “diversità” e di una separatezza in gran parte costruita sull’impervio impianto di una etica esclusiva di partito. A questa ipotesi “autoctona” o “indigena” è possibile invece opporne un’altra, quella che ci dovrebbe far entrare pienamente nell’area politica ma, prima ancora, in quella culturale della socialdemocrazia europea. Beninteso: la stessa terminologia “socialdemocrazia” allude ad una realtà tutt’altro che semplice e semplificabile.

La socialdemocrazia in versione europea, oltre ad assumere identità diverse in ragione di percorsi storici propri, è in realtà un crogiolo, un crocevia in cui si ritrovano culture diverse; è, se vogliamo, una spugna la cui efficacia è stata dimostrata dalla capacità di assimilare esperienze diverse, dal pensiero sociale di varie appartenenze confessionali, fino alle grandi realizzazioni del liberalismo, da Roosevelt a Beveridge.

La via orientabile a superare l’anomalia italiana è costituita, pertanto, invece dall’innesto della corposa realtà del postcomunismo italiano sulle antiche radici del socialismo e principalmente sulla memoria collettiva e storica segnata dalla appartenenza comune dei due partiti storici. Non è qui in gioco il tema, pur non trascurabile, del recupero di energie, quadri, appartenenze che si chiamarono un tempo socialiste senza ulteriori qualificazioni. Né è in questione in questa sede il tema delle varie diaspore da cui il socialismo italiano è uscito letteralmente distrutto.

La diaspora socialista presenta vari aspetti, tra loro difficilmente ricomponibili, alcune delle quali che vanno dalle appartenenze nuove, visibilmente incompatibili con l’identità socialista, e interpretabili soltanto attraverso il modulo della mutazione genetica, fino al transito verso la destinazione finale in cui si comprendano le due sponde postcomuniste.
E’ un aspetto che merita attenzione. Ma quello che interessa in questa sede, per rispondere alla domanda posta all’inizio, è se il percorso innovativo dovrà essere scelto nella ricerca della via tutta nuova di una identità diversa che riesca a procedere innanzi rispetto alla tradizione postcomunista e a quella non meno profondamente solcata nella nostra storia, del cattolicesimo democratico, o se riterrà di appoggiarsi al dato di una continuità interrotta, ma visibile nella nostra storia come nella nostra appartenenza geografica.

Sono due strade legittime e rispettabili. Ma, forse, la prima di esse, l’Ulivo che tutto copre e comprende, potrebbe assomigliare un pò al sogno dei grandi navigatori, che partirono per buscar el poniente por el levante. E infatti, approdarono in terre nuove. Ci scoprirono l’America, ma la popolazione indigena ne pagò un caro prezzo.