VIOLENZA RIVOLUZIONARIA 4.0?

di Andrea ErmanoDirettore de L’Avvenire dei Lavoratori* |

*Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894

Le ragioni di un fermo No che la socialdemocrazia europea ha pronunciato un secolo fa, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e che oggi restano più che mai valide.

«Il problema non sono le minacce all’Occidente, bensì l’Occidente stesso. Il sistema capitalistico in crisi sta mostrando il suo vero volto negativo – come può esserlo solo un sistema basato in linea di principio sulla disuguaglianza, lo sfruttamento e la distruzione ecologica», ci ha scritto la scorsa settimana Norma Mattarei, sociologa che vive e lavora a Monaco di Baviera dove dirige la “Akademie der Nationen” ed è un’esponente storica della Caritas diocesana.

Nella sua lettera mi ha colpito la citazione tratta da Marx a commento del nuovo libro di Maurizio Molinari (Assedio all’Occidente, 2019). La “dialettica” di liberismo, protezionismo, nazionalismo e imperialismo di cui la “struttura” economica capitalistica ha dato prova regolare a ogni tornante della sua storia non solo nell’Occidente stesso, ma sull’intero pianeta, è cosa ben nota. Norma Mattarei denuncia soprattutto un fatto: che questa replica “post-moderna” ad alto tasso di distruttività conferma in pieno la regola. Salvo che stavolta il sistema occidentale non pare più in grado di produrre alternative «perché ha raggiunto tutti i suoi limiti sociali, economici ed ecologici», osserva la nostra interlocutrice da Monaco. La quale a questo punto del ragionamento mette in campo una celeberrima citazione, tratta dal Capitale di Karl Marx: «La violenza (…) è la levatrice di ogni società vecchia che sia gravida di una nuova» (MEW 23, 779).

Nella logica interpretativa prevalente (che però non è l’unica possibile) si può senz’altro dedurre da Marx la conclusione che Norma Mattarei espone così: «Ogni trasformazione della società, come quella alla quale stiamo assistendo al momento, implica processi di erosione, disgregazione e distruzione. E l’Occidente ne è il centro».

Sono personalmente convinto che questo monito, per altro non isolato nel contesto attuale, vada preso molto sul serio. Ma, anzitutto, lasciatemi dire che la cosa è un po’ paradossale, perché la tradizione politico-organizzativa dell’Avvenire dei Lavoratori, giunta al suo 125.mo anno di attività, ha avuto sia stretti rapporti “germinali” (negli anni Settanta dell’Ottocento) con il primo movimento operaio capeggiato da Carlo Marx, sia poi nel 1914-1918 con il movimento antimilitarista di “guerra alla guerra” capeggiato dalla nostra Angelica Balabanoff insieme al duo Trotzki-Lenin fino alla Rivoluzione d’Ottobre.

Dallo sciopero dei minatori nel Tunnel del San Gottardo, soffocato nel sangue dall’ingegner Favre (1875), fino alla presa del Palazzo d’Inverno (1917) un filo rosso si snoda non solo sul piano della vicenda storica, ma anche su quello delle esperienze e dei rapporti personali. Marx e Lenin se non altro per cause anagrafiche non si sono mai incontrati, ma sono collegati da persone, persone in carne ed ossa che li hanno conosciuti da vicino e che insieme hanno partecipato alla nostra piccola, grande storia di socialisti e di emigrati italiani.

Quindi, saremmo noi, semmai, a dover citare il Capitale di Marx, e non a dovercelo far rammemorare da una autorevole esponente del volontariato cattolico impegnata in una grande città europea.

Senonché, proprio noi socialdemocratici, a partire quanto meno da due memorabili discorsi tenuti da Filippo Turati nel 1921 a Livorno contro la violenza rivoluzionaria (cioè contro la “linea leninista” della scissione), professiamo una posizione radicalmente critica verso la tesi marxiana sulla levatrice di una società nuova.

In sostanza Turati, richiamandosi alla propria amicizia personale con Friedrich Engels, diceva che siamo tutti d’accordo sulle finalità esposte nel Manifesto del 1848 circa lo scopo ultimo del nostro agire politico. Tutti vogliamo costruire una “libera associazione” umana nella quale ciascuna/o contribuisce nella misura dei propri meriti e dalla quale ciascuna/o riceve nella misura dei propri bisogni. Quel che ci divide è appunto il “metodo” della violenza, nel senso che questa ci ricaccia indietro e ci condanna alla sconfitta, sosteneva Turati nel 1921. E così fu.

Venendo all’oggi. Che il nostro “sistema” si basi sulla disuguaglianza, lo sfruttamento e la distruzione ecologica è cosa più che assodata. Nell’ultimo trentennio lo stato del mondo è notevolmente peggiorato: l’ambiente viene distrutto sempre di più e il trasferimento di ricchezza dal basso in alto ha assunto proporzioni inaudite.

Dunque, l’Occidente ha raggiunto tutti i suoi limiti sociali, economici ed ecologici? Difficile dubitarne. Sul piano ecologico la cosa è evidente. Su quello economico c’è stata la finanziarizzazione. E su quello sociale c’è stata la liquefazione.

Per comprendere che cosa sia la liquefazione sociale non serve più nemmeno rinviare alle analisi di Zygmunt Bauman, perché a dirsene preoccupato è stato di recente lo stesso fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, il quale due anni fa ha solennemente annunciato di volersi impegnare sul piano globale a sostegno di una ricostruzione dei tessuti associativi. Sì, perché l’associazionismo reale tra persone in carne ed ossa (ben diversamente dalle spesso inconsistenti “amicizie” in rete) sta crollando verticalmente.

«Per decenni, l’appartenenza a gruppi di ogni genere ha conosciuto un declino pari alla perdita di un quarto dei suoi membri. Il che significa che esistono molte persone che ora hanno bisogno di trovare un senso di scopo da qualche altra parte», constatava con rammarico il leader di Facebook nel giugno 2017.

Ben venga allora Zuckerberg con i suoi due miliardi di “amici” in soccorso alla socialità off-line.

Se crolla l’associazionismo, crolla la solidarietà, crolla l’eguale libertà e, dunque, cresce un vasto disagio globale, cioè quella grande, grandissima prateria nella quale oggi potrebbero effettivamente innescarsi fenomeni di violenza rivoluzionaria 4.0. Perché alle volte, come disse Mao, anche una piccola scintilla può dare fuoco a una grande prateria.

Merita, dunque, una lode il risveglio di coscienza sociale da parte del leader del gigante “social” Facebook. È ben vero che Facebook gestisce un sacco di nostri dati, ma noi occidentali preferiamo, e di molto, dare i dati a Mark Zuckerberg piuttosto che a Vladimir Putin.

Ma c’è un “ma”. Lo scandalo di Cambridge Analytica ha rivelato «che forse non esiste una effettiva possibilità di scelta, se ogni dato affidato a Zuckerberg può comunque finire nelle mani di Putin», ha notato lo storico Harari, il quale nel dubbio tra socialità “social” e socialità off-line auspica che, per cominciare, Zuckerberg paghi anche lui le tasse nei vari paesi in cui rastrella i suoi profitti (e i nostri dati).

Sul fronte dei dati si svolge una parte della “seconda guerra fredda” (fredda fino a un certo punto) nella quale il mondo liberaldemocratico rischia di finire sotto assedio.

Giunti sin qui, diciamo subito che la natura reazionaria del putinismo in Russia e del nazional-sovranismo in generale non devono far velo all’opacità? Di tutte, o quasi, le grandi formule altisonanti dietro cui si cela l’esaustione tatticistica dell’Occidente.

La ragione dell’attuale miseria politica risiede in un’evidente incapacità di governare la globalizzazione. Ma la globalizzazione è irreversibile e quindi nessuna restaurazione di sovranità nazionali potrebbe servire alla bisogna.

Che fare, dunque?

Non direi che ci si debba o possa rintanare nel mero compito teorico pre-marxiano di variamente interpretare il mondo. Ma nemmeno ci si potrà limitare a “trasformarlo”.

Il punto è importante.

Quel che potrebbe dire Karl Marx dell’età atomica, del surriscaldamento climatico o dell’accelerazione “disruptiva” di scienza e tecnica, non è dato sapere. Ma di fronte a questo “stato di cose presenti” il nostro interesse come umanità sarebbe, ben oltre al compito di trasformare il mondo, riuscire a governarlo.

Enorme difficoltà!

Nessuna violenza rivoluzionaria potrà qui soccorrerci.

Non illudiamoci!

L’impresa di riuscire a governare la globalizzazione apparirebbe (almeno a chi scrive queste righe) una missione impossibile se si collocasse fuori o contro una teoria e una pratica della Persuasione. Solo con la Persuasione si può governare il mondo. Perché – su questo punto Filippo Turati aveva ragione – la violenza ci fa arretrare. Il che per noi oggi significa che “violenza” equivale a dissipazione. Dissipazione del tempo che resta (e non ne resta moltissimo).