dalla Fondazione Anna Kuliscioff | di Matteo Pucciarelli La Repubblica|
Bronzisti, cappellai, fornaciai, fornai, fabbri, ferrovieri, marmisti, muratori, nastrai, pettinai, sarti, scalpellini, tessitori di seta, tipografi. Eccola la classe operaia milanese di oltre 160 anni fa, lavoratori “di un’epoca che seppure ci appaia oggi remotissima, conserva un suo significato proprio per l’eccezionale contingenza in cui il crescere della città s’incrocia con la trasformazione sociale e politica in atto in Italia”. Sembrano anche queste parole attuali e invece era il sindaco socialista Aldo Aniasi, nel 1970, a ricordare gli albori della working class ambrosiana.
Venticinque anni gloriosi, dal 1859 al 1882, di attivismo e primissima organizzazione tra lavoratori. Cominciano esattamente nell’autunno del 1859 quando “alcuni benemeriti cittadini” assieme ad un “gruppo di operai di provato patriottismo” decisero di formulare lo Statuto della primissima associazione generale di Mutuo soccorso degli operai di Milano e dintorni. La quale si costituì poi il 1° gennaio 1860, data simbolica che doveva segnare appunto un inizio, riunendo 2 mila iscritti. Milano ci arrivò in ritardo rispetto a Torino, l’altra capitale industriale, dove una mutua generale c’era già da dieci anni. Ma fu la scintilla della consapevolezza di esistere, prima ancora del sindacalismo, dei movimenti socialisti, anarchici e solo dopo, molto dopo, comunisti.
Il filone principale del primo associazionismo tra lavoratori fu quello patriottico perché le barricate risorgimentali del 1848 e 1849, con la famose Cinque Giornate, erano ancora un ricordo vivido. Dei 480 morti di quei giorni, ribelli contro l’invasore austriaco, ben 300 erano operai. Solo che i lavoratori erano esclusi dalla vita civica e politica. Alle prime elezioni municipali di Milano, gennaio 1860, su 184 mila abitanti ad avere diritto di voto furono solo 10 mila persone: bisognava avere un certo grado di istruzione e pagare più di 25 lire all’anno di imposte dirette. Fissato il prezzo del pane, il salario giornaliero di un lavoratore medio corrispondeva a 4 chili di pane; quello di una donna a due chili; quello di un ragazzo a un chilo. Con le giornate di lavoro che non duravano mai meno di 12 ore. I primi scioperi avverranno solo nel 1872, cominciato dai muratori e dai meccanici, poi via via si unirono gli altri.
“Noi crediamo che nessuna spica si miete se il germe non è stato deposto nella terra e innaffiato di sudore: e che ogni agitazione è sempre utile e feconda”,
si legge nell’opuscolo del “congresso delle società operaie in Milano” del 1879.
Le associazioni di mutuo soccorso “si confrontavano con un capitalismo spesso brutale e disinteressato alle condizioni dei lavoratori – spiega Walter Galbusera, presidente della fondazione Anna Kuliscioff, istituto che raccoglie materiale anche di quegli anni -e perciò ricoprivano un ruolo enorme, non solo di tutela salariale, ad esempio le assenze per malattia e gli infortuni non erano retribuiti, ma anche di sostegno all’azione sindacale nei casi in cui le casse di resistenza coprivano parte del salario perduto quando c’era uno sciopero”. Sono una settantina le officine meccaniche e le fonderie, il tessile impiega 1.500 tessitori, 2.500 guantai, 4 mila calzolai, la Pirelli ha 700 operai; la piccola media e grande industria milanese conta in totale su 60 mila lavoratori.
Intanto il 10 per cento dei bambini non va a scuola, chi invece ci va si ritrova stipato in 300 aule con 80 persone a classe. “Non abbiamo avuto abbastanza illusioni? Non ci siamo noi agitati per ottenere il diritto più naturale, quello d’essere cittadini non solo per dare i figli alla coscrizione, ma anche per prender parte, col voto, alla vita della nazionale di cui siam parte? Non ci siamo agitati per il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso? E che abbiamo ottenuto? Nulla! Sempre nulla”, viene però detto al congresso operaio.
Le rivendicazioni non sono quindi più e solo per i miglioramenti salariali e per la riduzione dell’orario di lavoro, i lavoratori cominciano a pretendere una condizione e un protagonismo civile fino ad allora sconosciuto e per questo le utopie mazzoliniane lasciano il posto al socialismo. Così le associazioni mutualistiche rimasero indietro: “L’astensione da ogni attività politica e così il disinteressamento, il fatto di considerare l’operaio organizzato un animale apolitico e solo individualmente animale politico era conveniente ai padroni e ad ogni specie di loro difensori schietti o larvati, comprese le varie demagogie sociali e compresi i cosiddetti filantropi”, scrisse Filippo Turati.
Nel 1882 nasce il Partito operaio. “È un pericolo prossimo, giacché è tutta una classe nuova e distinta che si ordina, si conta, si istruisce”, annotò in un suo rapporto il questore. Il candidato a sindaco socialista Osvaldo Gnocchi-Viani, parlando al teatro Castelli, dirà: “Mi trovo alle spalle tutto ciò che tramonta: superstizioni, privilegi, tiare e corone; dinanzi a me sorge la scienza che si libera, il lavoro che si emancipa”. Quelle elezioni saranno una cocente sconfitta: non sarà la fine della storia ma solo l’avvio di una lunga marcia di diritti e progresso sempre attuale.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.