SETTANT’ANNI FA: LA STRAGE DI MODENA

Funerali delle vittime dell’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena. Fonte: marcoamendola.it

di Franco Astengo |

Per non dimenticare mai quei quindici anni di repressione governativa e poliziesca verso le lotte operaie in un momento molto difficile per la storia d’Italia: un paese uscito da una guerra perduta praticamente distrutto e alla faticosa ricerca del consolidamento della democrazia.

Nel luglio del 1960, in una situazione sociale e politica molto diversa, si verificò uno scontro politico che sulle piazze costò morti e feriti: il tentativo di spostare a destra l’asse politico del Paese fu sventato e si aprì una diversa stagione.

Torniamo però in quel giorno a Modena.

Modena: 9 gennaio 1950. Verso le dieci del mattino del 9 gennaio una decina di operai giunse ai cancelli delle Fonderie Riunite, le quali erano circondate di carabinieri armati. All’improvviso un carabiniere sparò un colpo di pistola in pieno petto al trentenne Angelo Appiani, che morì sul colpo. Subito dopo, dal tetto della fabbrica i carabinieri aprirono il fuoco con le mitragliatrici verso via Ciro Menotti contro un altro gruppo di lavoratori, che si trovavano al di là del passaggio a livello sbarrato in attesa dell’arrivo di un treno, uccidendo Arturo Chiappelli e Arturo Malagoli e ferendo molte altre persone, alcune in maniera molto grave.

Dopo circa trenta minuti, in via Santa Caterina l’operaio Roberto Rovatti, che portava al collo una sciarpa rossa, venne circondato da una squadra di carabinieri, buttato dentro ad un fossato e linciato a morte con i calci dei fucili.

Infine, giunse in via Ciro Menotti un blindato T17 che iniziò a sparare sulla folla, uccidendo Ennio Garagnani.

Appena appresa la notizia della strage, i sindacalisti della Cgil iniziarono ad avvisare, con gli altoparlanti montati su un’automobile, i manifestanti di spostarsi verso piazza Roma. Tuttavia, verso mezzogiorno, un carabiniere uccise con il fucile Renzo Bersani, il quale stava attraversando a piedi l’incrocio posto alla fine di via Menotti, posto a oltre 100 metri dalla fabbrica.

Il bilancio della giornata fu di 6 morti tutti iscritti al Partito Comunista, 200 feriti e 34 arrestati con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa e attentato alle libere istituzioni.

I funerali delle vittime, nel corso di quali parlarono Togliatti e Di Vittorio furono una grande occasione di dimostrazione di forza e di compattezza della classe operaia: un momento di forte presa di coscienza collettiva.

Il bilancio di quegli anni, tra il 1947 e il 1950, segnati dalle lotte operaie e contadine e dalla feroce repressione governativa e poliziesca è il seguente: furono condannati 15.249 operai in gran parte iscritti al partito comunista, per un totale di 7.598 anni di carcere.

Si è ormai persa la memoria dei lutti, dei sacrifici, dell’impegno posto dalla classe operaia, dai contadini e dalle loro famiglie che vivevano in condizioni oggi inimmaginabili nel periodo della riconversione dell’industria bellica, dell’attuazione della debole riforma agraria, della ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra.

Lutti, sacrifici, privazioni affrontati sempre con grande dignità “di classe” con il PCI, il PSI, la CGIL che seppero rappresentarli sul piano politico e sindacale, dar loro voce e presenza fino a far fallire, nelle elezioni del 1953, un tentativo di torsione anti democratica attraverso la modifica della legge elettorale in senso maggioritario (comunque maggioritario, diverso dai tentativi in tempi più recenti che intendevano premiare minoranze).

Quei lutti, quei sacrifici, quelle indescrivibili privazioni materiali si verificavano in una Italia povera, senza strade e ferrovie, con le case bombardate e distrutte.

Sarebbero occorsi ancora molti anni, come ricordato in epigrafe, perché si determinasse una situazione parzialmente diversa con il riconoscimento di alcuni tratti di dignità del lavoro e di altro tipo di condizione sociale.