TRE PUNTI DI VISTA SUL CORONAVIRUS

Nell’immagine di copertina il filosofo Giorgio Agamben

di Andrea Ermano – Direttore de L’Avvenire dei Lavoratori |

L’indice DJ alla borsa di Wall Street aveva raggiunto prima del coronavirus i suoi massimi storici. Oggi non è più così e non per colpa della pandemia. In politica l’emergenza tende sempre a diven­tare la norma: un rischio democratico su cui vigilare. Ma è neces­sario rallentare la diffusione, guadagnare tempo. Questa la strategia di crono-resistenza sul piano nazionale, europeo e globale, ufficializzata all’ONU dal­l’Organiz­zazio­ne Mondiale della Sanità (OMS).

ECONOMIA – Al coronavirus abbiamo accennato per la prima volta il 30 gennaio scorso e l’abbiamo fatto di striscio, nella rubrica “Economia” di Lettieri e Raimondi, i quali mettevano in guardia dall’ennesima bolla finanziaria americana.

Sotto un eloquente titolo (“Successo o trappola?”) campeggiavano queste ancor più eloquenti parole: «Prima delle frenate per l’emergenza Virus Corona, il Dow Jones alla borsa di Wall Street ha raggiunto i massimi storici con 29’400 punti».

Sono passati quaranta giorni o poco più e, mentre scriviamo, la discesa a perdifiato del maggiore tra gli indici azionari della borsa di New York segna quota 21’400: più di un quarto in meno rispetto a gennaio.

Un mese fa i due economisti Lettieri e Raimondi si chiedevano se “per davvero” il traguardo del Dow Jones ai suoi massimi di sempre rappresentasse “un sintomo positivo, di salute del sistema finanziario ed economico americano”, o se non fosse invece il segno premonitore di un “possibile devastante futuro sconquasso?” (ADL 30.1.2020).

Oggi sappiamo com’è andata a finire, anche se in realtà non è ancora finita.

Per ora abbiamo assistito a un ribaltone, provvisorio ma non del tutto, dei rapporti di forza tra politica, tecnica ed economia. I tempi in cui dettavano la linea i masters of the universe della finanza americana, di cui Trump è il più notevole rappresentante, tendono al crepuscolo.

CULTURA – Viviamo in un’epoca di ascesa della “tecnoscienza”. Il filosofo Emanuele Severino, scomparso nel gennaio scorso, amava ripetere che il matrimonio tra capitalismo e tecnoscienza è destinato al divorzio. Mentre il capitalismo non può rinunciare al divario tra abbondanza e scarsità, la tecnoscienza ha il suo fine nell’onnipotenza, sosteneva Severino. Insomma, il capitale e la techne, parafrasando un antico detto cinese, dormono nello stesso letto, ma sognano sogni diversi.

E la politica?

Anche la politica è una techne, più nel senso di un’arte o mestiere, un po’ come l’arte medica, e anch’essa ama richiamarsi alle scienze naturali “forti”, quelle a impianto matematico, come la biologia, la chimica e la fisica.

Ma anche la politica tende all’onnipotenza, in una sua specifica variante, che si chiama “sovranità”. E la sovranità – secondo una celebre formula di Carl Schmitt – appartiene a chi decide sullo stato d’eccezione. E però, se il potere di decidere sull’eccezione equivale al potere di stabilire la norma, allora la politica è l’arte della norma e della normalità, ma anche dell’eccezione e cioè della sospensione di ogni norma e normalità.

Questo paradosso sottende all’illusione sovranista. Ma qui si cela anche la sua grande e catastrofica insidia, sulla quale – come esorta il costituzionalista Felice Besostri – ogni sincero democratico ha oggi il dovere di vigilare attentamente.

Lunedì scorso la giornalista Lily Kuo, corrispondente di The Guardian da Hong Kong, riportava una presa di posizione di Alex Zhang, un giovane di ventotto anni che vive nella città di Chengdu, capoluogo del Sichuan.

Ora, questo giovane intellettuale cinese – richiamandosi a Giorgio Agamben e alla sua teoria, ormai celebre in tutto il mondo, circa la tendenza globale allo stato d’eccezione – notava appunto che: «Questo modo di governare e di pensare in rapporto all’accadimento di epidemie può essere impiegato anche in vista di altre faccende: quali i mass media, i giornalisti o i conflitti etnici. E, dopo che questo metodo è stato impiegato, i cittadini lo accetteranno. Esso diventa normale».

Come volevasi dimostrare?

Donatella Di Cesare se ne mostra solo parzialmente convinta. Per l’influente filosofa romana stiamo entrando in una sorta di “democrazia immunitaria” in cui «la politica, ridotta ad amministrazione, per un verso si rimette al dettato dell’economia planetaria, per l’altro si autosospende abdicando alla scienza – “facciamo parlare gli esperti!” – che s’immagina oggettiva, vera, risolutiva». Di Cesare, in un recente articolo apparso su il manifesto, afferma che lo “stato securitario” dei nazional-sovranisti va progressivamente mutando in un’agenzia che «garantisce l’immunizzazione al cittadino-paziente, pronto, dal canto suo, a seguire ogni regola igienico-sanitaria che lo protegga dal contagio, cioè dal contatto con l’altro». Insomma, conclude: «non si sa dove finisce il diritto e dove comincia la sanità», ed ecco dunque lo «Stato medico-pastorale… tra diritto all’amuchina e divieto di ammucchiata». Impagabile calembour! Ma…

Ma alla base di tutto c’è una presa di posizione dello stesso Giorgio Agamben che, apparsa su il manifesto del 25 febbraio scorso, ha fatto il giro del mondo essendo stata ripresa, oltre che nella stessa Cina, anche dalla stampa di lingua inglese, portoghese, spagnola eccetera.

Ecco quel che diceva Agamben nelle sue testuali parole:

«Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona, occorre partire dalle dichiarazioni del Cnr, secondo le quali “non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia”. / Non solo. Comunque “l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva”. / Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni?» Già: perché?

POLITICA – Per rispondere alla domanda agambiana occorre calcolare le conseguenze delle premesse esposte qui sopra. Io nutro una grande ammirazione per Giorgio Agamben, ma i numeri e le percentuali da lui citati non mi tranquillizzano minimamente: se “solo il 4% dei pazienti” richiede “un ricovero in terapia intensiva”, bisogna poi vedere bene quanti sono.

Vediamolo.

In effetti, il coronavirus si è via via diffuso nella popolazione con tempi di raddoppiamento che all’inizio potevano apparire poco importanti.

In Italia (ricordate?) c’erano parecchi esponenti politici (di estrema destra) intenti a buttare addosso la croce ai “musi gialli”.

Poi s’è scoperto che l’epidemia “de noantri” (innescatasi in Italia forse da un ceppo indipendente da quello cinese) produceva effetti mediamente meno drammatici rispetto a quelli registrati nel Wuhan. E forse ci si è un po’ troppo rilassati. Una variante influenzale, dicevano. Bastava non collezionare troppe overdosi di prosecco e, soprattutto, non mangiare troppi topi vivi.

Oggi i tempi in cui alcuni governatori (soprattutto leghisti) e alcuni intellettuali (soprattutto parigini) consigliavano di lasciare che la natura seguisse il suo corso, come pure si usa fare con le epidemie di raffreddore, sembrano ormai lontanissimi.

La cancelliera Merkel, che ha alle spalle una dissertazione dottorale in chimica quantistica e di numeri ne capisce, ha comunicato all’opinione pubblica del suo Paese che il 60-70% della popolazione potrebbe infettarsi: «Ciò che possiamo fare, e di cui possiamo rispondere, noi lo faremo», ha detto, alludendo all’emergenza in arrivo anche per la Germania.

Nessuno sa ancora in modo univoco quale risposta dare alla questione delle conseguenze sull’economia, sottolinea Katharina Schuler del settimanale socialdemocratico Die Zeit, se queste conseguenze «potranno essere neutralizzate o quanto meno mitigate. E ciò vale a maggior ragione per le conseguenze sanitarie, circa il numero delle persone che potrebbero morire. Potrebbe infettarsi il 60-70 per cento della popolazione, è la quantificazione della cancelliera Merkel. E tutte le misure da assumersi vanno finalizzate “a rallentare la diffusione”». Fin qui il reportage su Die Zeit.

Rallentare la diffusione. Guadagnare tempo. Evitare che il contagio si propaghi troppo rapidamente. Questa la strategia di crono-resistenza sul piano nazionale, europeo e globale.

Se non ci fosse alcuna possibilità di dosare e di dilazionare, la maggior parte dei casi acuti verrebbe fatalmente abbandonata a se stessa. E si applicherebbero allora i terribili criteri della “medicina di guerra”.

A questo punto si capisce che l’Oms abbia concluso che «Covid-19 può essere caratterizzata come una pandemia», secondo quanto ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione, Tedros Adhanom Ghebreyesus, in conferenza stampa ieri a Ginevra.

Il problema non sta tanto o soltanto nel 60-70 per cento dei contagi di cui ha parlato Angela Merkel. Beninteso, si tratta di un numero molto, molto grande: in Italia corrisponderebbe a 35-40 milioni di potenziali pazienti, in Europa a 300-350 milioni, sul piano globale a 5 miliardi e più.

Ma quasi tutti questi configurerebbero casi a decorso blando, quando non sostanzialmente asintomatico.

Il punto veramente cruciale sta nei casi acuti. Anche perché – se si calcola che “il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva” – questa percentuale, apparentemente bassa, richiederebbe sul piano mondiale 200 milioni di trattamenti intensivi. In Europa avremmo 12 milioni di casi acuti e in Italia potrebbe salire a 1,5 milioni il numero di persone in stato di criticità vitale.

Se così stanno le cose, e a quanto pare stanno all’incirca così, bisogna davvero guadagnare tempo. Il che non significa addormentare ogni vigilanza democratica sulle fantasie di onnipotenza della tecnoscienza o sulle pulsioni emergenziali della politica.

Guadagnare tempo significa distribuire la percentuale dei casi acuti sul maggior numero di giorni e di settimane possibile. Di qui le misure restrittive, ieri in Cina, oggi in Italia, domani in tutt’Europa e poi nel resto del mondo.

Si scrive “misure restrittive”, si legge “doccia gelata”: per la libertà e per l’economia. Ma con questa duplice speranza:

a) che il virus affievolisca progressivamente i propri effetti, come spesso accade,

b) che presto “arrivino i nostri”, e cioè siano sviluppati rimedi e cure adeguati.

Per intanto, si può dire che in Italia nel momento dell’emergenza non si è scatenato lo “stato di natura”, la guerra di tutti contro tutti, ma una gara di compostezza e di coesione. Auguriamoci che si vada avanti così sia nel nostro sia negli altri paesi.