di Beppe Sarno |
Il governo Conte all’articolo 76 del decreto cura Italia autorizza, «la costituzione di una nuova società interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle Finanze ovvero controllata da una società a prevalente partecipazione pubblica anche indiretta». Pur non riuscendo a revocare le concessioni autostradali, per effetto congiunto della crisi della società Alitalia e della emergenza del coronavirus, il governo Conte ha avuto il coraggio di saltare il fosso e di nazionalizzare la compagnia di bandiera.
Ma la nazionalizzazione non basta. Non basta per Alitalia ed andrebbe estesa anche ad altre aziende strategiche che senza l’intervento diretto dello stato rischiano la chiusura. E’ il caso della ex ILVA, che andrebbe sottratta agli sciacalli della Alcelor MITTAL e messa sotto il controllo dello Stato. Come pure andrebbero rinazionalizzate tante aziende strategiche regalate a finanzieri senza scrupoli.
Il decreto “Cura-Italia” che è la risposta alla drammatica situazione sanitaria che stiamo vivendo, oltre al problema del funzionamento delle strutture sanitarie per far fronte all’emergenza del coronavirus si pone anche il problema del sistema produttivo dedicandogli un intero titolo. Il secondo in ordine di importanza “misure a sostegno del lavoro” -nessuno dovrà perdere il lavoro- dice Conte. Ci voleva il coronavirus per accorgersi che esistono gli operai. Ci si illudeva che con la globalizzazione questa forza fosse solo un’opzione trascurabile e di cui si poteva fare a meno. Le navi che arrivavano dalla Cina ci portavano tutto quello di cui avevamo bisogno a prezzi stracciati alla portata di tutte le tasche.
Il mondo del lavoro invece esiste e il governo ha messo in evidenza la necessità di dare ai lavoratori una protezione che fino a qualche giorno fa pareva inimmaginabile.
Esiste lo Stato, esistono i lavoratori, si comincia a nazionalizzare, il sistema di Maastricht scricchiola. L’austerità sta facendo i bagagli, la Lagarde potrebbe fare i bagagli e se non li farà è stata sicuramente ridimensionata.
Molti analisti, che non riescono a vedere la luce oltre il tunnel del coronavirus auspicano la necessità di elaborare un “piano Marshall” per la ripresa economica europea dopo i disastri che questa pandemia comporterà.
Niente sarà come prima! Dopo i morti i fantasmi.
Quante piccole e medie aziende e quanti artigiani piccoli commercianti non supereranno il momento drammatico che stiamo vivendo? Quanti lavoratori prederanno il lavoro? Quante saracinesche rimarranno abbassate? E i migranti che vagano per le strade senza alcun sostegno? Dopo questa tragica pandemia dovremo trovare gli strumenti per risollevarci.
L’Italia, Europa, avranno bisogno di un gigantesco piano economico per evitare il definitivo deterioramento delle condizioni economiche politiche e sociali che una folle politica di austerità ha generato nelle economie delle nazioni più deboli dell’Europa.
Il problema da porsi da subito è capire chi dovrà elaborare e gestire questo futuro così pieno di incognite, così difficile da affrontare e gestire. La nazionalizzazione delle industrie strategiche come Alitalia ex ILVA e tante altre è solo una risposta, certamente condivisibile, ma non è la risposta o almeno non è l’unica.
“Insieme ce la faremo” è il mantra di questi giorni.
Sta in parte funzionando, paradossalmente non sta funzionando solo nei luoghi in cui un’oligarchia di imprenditori ottusi e superficiali interpreta quell’ “insieme” per tutti, ma non per loro. Non a caso il morbo fa più vittime dove le attività si sono fermate solo per finta. Sindacati ed imprenditori seduti allo stesso tavolo insieme al governo decidono di chiudere la aziende non strategiche per la produzione.
Viene chiesta solidarietà e collaborazione. Ed giusto farlo in questo momento come è giusto che la scienza detti le regole da osservare.
L’attuale crisi ha dimostrato inconfutabilmente che le politiche economiche che l’Europa ha fino ad oggi adottate sono fallimentari ed è pertanto necessario elaborare un diverso modello di sviluppo, che ponga al centro delle scelte l’intera collettività.
Non più un sistema produttivo finalizzato esclusivamente al profitto gestito dalle multinazionali finanziarie, ma un sistema che ponga al centro le necessità e i bisogni delle collettività rappresentate dagli Stati nazionali che recuperando la loro sovranità costituzionale diventano strumento di governo autonomo e democratico delle scelte economiche e sociali.
La domanda è questa: da dove bisognerà ripartire quando l’emergenza sanitaria sarà finita?
La risposta è semplice e ce la offrono gli avvenimenti di questi giorni: la nostra Carta Costituzionale!
Attuare la Costituzione significa però in primo luogo ridiscutere le regole per un’Europa più democratica individuando nella nostra carta costituzionale quegli strumenti, quelle leve che facciano diventare la collettività protagonista della rinascita economica e sociale. Bisogna rimanere in Europa, ma non più nell’Europa di Maastricht, dove gli stati nazionali sono spettatori assenti di decisioni prese da un gruppo di burocrati irresponsabili, ma in un Europa dove gli Stati nazionali si pongono il problema del bene comune secondo le regole che la carta costituzionale ha scritto con il sangue della Resistenza.
Uno stato sovrano che affronti il problema dell’equilibrio fra sistema produttivo e l’ambiente, la gestione produttiva, la salute delle aree industriali, modifica dei metodi di produzione, limiti del concetto di PIL, l’uso collettivo e democratico della tecnologia e degli strumenti di comunicazione di massa.
“Insieme ce la faremo!” Ma dopo? Niente sarà come prima. Dovremo ricostruire il tessuto sociale ed economico dalle macerie che questa guerra senza nemico avrà prodotto.
Dopo dovremo essere di nuovo insieme. Solidarietà, però, non è collaborazione. Infatti nella nostra Carta Costituzionale tra i diritti e i doveri dei cittadini nei rapporti economici si trovano in ordine i diritti del lavoro, dell’iniziativa economica, e della proprietà.
Vi sono disposizioni che indicano i fini dell’azione dello Stato che potremmo definire una costituzione economica che prende lo spunto da quello che fu definito il Codice di Camaldoli ispirato dall’allora cardinal Montini nel 1943, che aveva appunto lo scopo di creare la piena occupazione, riequilibrare il sud con il nord del Paese e, contemporaneamente, risanare il bilancio dello Stato. Fra questi l’opzione delle nazionalizzazioni, e socializzazioni (art.43), la protezione della proprietà terriera, la protezione dell’artigianato e della cooperazione e infine “la tutela del risparmio in tutte le sue forme” (art.46)
Per ripartire ecco la risposta che Carta Costituzionale ci suggerisce: “ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro, in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei limiti e nei modi stabiliti dalle leggi,alla gestione delle aziende.”
I lavoratori non più come variabile di cui si può far a meno, ma come elemento essenziale e fondamentale del sistema produttivo per garantire la ” effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del paese”. (art.2)
Questa e la solidarietà che serve oggi ma che dovrà essere regola fondante del domani.
Togliatti che io non amo, parlò in seno alla Costituente di garantire “organi per l’esercizio di un controllo sulla produzione, da parte dei lavoratori di tutte le categorie e nell’interesse della collettività.” Ma Togliatti, si sa, era un opportunista e non si curò di dare gambe a questa dichiarazione di principio.
La cogestione nasce in Italia per opera di Mussolini, il quale con decreto legislativo della R.S.I. del 12 febbraio 1943 intitolato “Socializzazione delle Imprese”, creò una serie di regole che servivano a rendere le istituzioni funzionali. Ovviamente non vi era alcun diritto riconosciuto ai lavoratori. Più pregnante risulta il riferimento ai consigli di fabbrica istituiti a Torino nel 1919 esaltati da Gramsci sull'”Ordine Nuovo” secondo il quale i delegati potevano decidere “il controllo del personale tecnico, il licenziamento dei dipendenti che si dimostrano nemici della classe operaia, la lotta con la direzione per la conquista dei diritti di libertà il controllo della produzione dell”azienda e delle operazioni finanziarie”.
Vi furono precedenti in Russia, in Austria, in Germania. L’art. 165 della Costituzione di Weimar così recita: “per la tutela dei loro interessi sociali ed economici, operai e impiegati ottengono rappresentanze legali nei consigli operai d’azienda e in consigli operai distrettuali, articolati per settori economici, e in un consiglio operaio dell’impero.” Sappiamo come reagì la borghesia tedesca, ma il principio della cogestione sopravvisse fino a diventare legge nella Germania postbellica, grazie ad un socialista.
In Italia l’opposizione alla cogestione è stata condivisa allegramente dai rappresentanti delle imprese e dei lavoratori. Eppure una serie di direttive europee (Dir. 2001/86/CE) parla di “influenza dell’organo di rappresentanza dei lavoratori e/o dei rappresentanti dei lavoratori nelle attività di una società mediante il diritto di eleggere o designare alcuni dei membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione della società o il diritto di raccomandare la designazione di alcuni o di tutti i membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione della società e/o di opporvisi.”
La Volkswagen nella propria carta di comportamenti riconosce il diritto di cogestione nelle sue aziende in tutto il mondo.
Non a caso la Germania e la Volkswagen!
Le difficoltà finanziarie delle acciaierie Krupp furono risolte con la nazionalizzazione dell’industria e con la reazione di una società nel cui consiglio di amministrazione sedevano rappresentanti delle banche, rappresentanti dello Stato e rappresentanti dei sindacati del carbone e dell’acciaio.
Un sistema di pariteticità all’interno delle aziende strategiche per l’interesse nazionale attuerebbe quella democrazia industriale oggi assente in Italia. Grandi aziende sono gestite da funzionari che percepiscono stipendi giganteschi, ma che non tutelano l’interesse delle aziende che amministrano e che dopo aver fatto disastri fuggono con liquidazioni milionarie.
Il problema del lavoro importante oggi, sarà vitale domani. Grazie al liberismo sfrenato di questi ultimi venti anni i diritti dei lavoratori sono stati calpestati.
Oggi la televisione l’abbonamento a sky, l’autovettura a piccole rati mensili, il telefonino per tutti hanno fatto dimenticare alla colletività di dipendere da coloro che hanno avuto nelle mani le leve del potere economico e che pertanto per anni hanno potuto disporre del destino di masse di popolazione. Hitler non ebbe nè seguito, nè potere fin quando la Germania fu in espansione. Il potere venne quando in seguito alla grande depressione del 1930 entrò in crisi lo stato nazionale tedesco, fondato sul compromesso fra la grande borghesia e le masse lavoratrici.
Una nuova strategia di ripresa economica in Italia, come in Europa, può svilupparsi solo nell’ambito di un sistema economico produttivo improntato sul principio della cogestione. Ogni altro tentativo di ripresa economica è destinato alla sconfitta e al riproporsi di vecchi schemi in cui il potere economico e politico rimane nelle mani della finanza internazionale con annullamento della sovranità degli stati e con l’isolamento dei lavoratori.
La cogestione invece può diventare strumento di mutamento sociale.
Oggi il lavoratori stanno collaborando per tenere in piedi l’emergenza. Nella fabbriche, negli ospedali, nei trasporti, nelle forze dell’ordine sono i lavoratori che stanno gestendo l’emergenza, ma questo dopo non sarà più sufficiente.
“Siamo nella stessa barca!” E’ vero, ma proprio perchè coloro che possiedono i mezzi di produzione e coloro che sono obbligati a vendere la loro forza lavoro i primi non dovranno più avere il diritto di gestire i propri strumenti in maniera autoritaria. Ci sono imprenditori che non sono altro che dirigenti e ci sono lavoratori che sarebbero in grado di gestire un’azienda proprio come sta succedendo oggi negli ospedali italiani.
Stiamo vedendo in questi giorni che gli imprenditori, malgrado l’emergenza, vogliono conservare il potere di decisione e di disposizione, mentre i lavoratori di fatto pongono in discussione tale diritto alla disposizione individuale. I lavoratori difendendo i loro interessi difendono l’interesse collettivo, che in questo caso è il diritto alla salute. Alla collaborazione allora si deve sostituire la cogestione.
Questa autonomia che i lavoratori, responsabilmente, si sono data, deve diventare effettiva in maniera tale che quel sistema che ci ha portato al tracollo economico venga stravolto in nome di un nuovo paradigma nei rapporti produttivi.
Introducendo nelle aziende il sistema della cogestione così come suggerito dall’art. 46 della Costituzione significa allargare e approfondire il concetto di democrazia. Mentre la democrazia “normale” così come è concepita oggi è ristretta solo al livello politico e quindi soggetta a ridursi laddove le burocrazie nazionali ed internazionali prendono il sopravvento, la cogestione renderebbe democratici quei settori in cui le strutture autoritarie non sono mai state messe in discussione in nome di un efficientismo di maniera per cui l’azienda per come è strutturata è immodificabile nel tempo. Siamo ancora ai tempi del “padrone del vapore”.
Tragica illusione!
La cogestione invece rende i produttori cioè gli operai, i dirigenti, gli impiegati, i lavoratori in genere, cioè tutti coloro che prendono parte al processo produttivo partecipi della produzione godendo nello stesso tempo di ampi poteri democratici all’interno dell’azienda.
In questo senso la cogestione diventa il fondamento di una democrazia economica che significa controlla dal basso dei sistemi produttivi.
Certo si potrà dire che i sistemi produttivi attuali richiedono competenze e professionalità che i lavoratori non hanno, ma se questo è vero per i lavoratori, è vero anche per i proprietari delle aziende.
Oggi le azienda usano stuoli di tecnici cui far riferimento per tutte le esigenze aziendali perché un’azienda cogestita non potrebbe fare lo stesso? Quante aziende si sarebbero salvate dal fallimento se invece dell’uomo solo al comando avessero ascoltato il parere di quelli che lavoravano all’interno dell’azienda senza avere alcuna voce in capitolo sulla gestione.
Nei tempi recenti molte aziende si sono salvate perchè i dipendenti le hanno acquistate e ne sono diventati i titolari e con una gestione collettiva hanno salvato i loro posti di lavoro e la produzione.
Molti soldi arriveranno dopo il coronavirus, già adesso i burocrati di Bruxelles lasciano che gli stati rompano il patto di stabilità per far fronte ad un’emergenza economica che già da adesso si profila disastrosa, ma non dovrà accadere quello che è successo nel 2008 e cioè che questi soldi vadano solo ad alcuni dei protagonisti: alle banche, ai fondi di investimento, agli speculatori internazionali.
Questa massa di soldi che sarà messa in circolo dovrà servire per ricostruire un tessuto industriale devastato da venti anni di iperliberismo.
Questa ricostruzione non si potrà fare se non ridando dignità agli stati nazionali e rendendo tutti partecipi della ricostruzione. Alitalia è stata nazionalizzata, ma non può essere messa in mano a burocrati super-pagati pronti a svenderla. Alitalia vale molto, ma chi vuole prenderla la vuole senza prendere quelli che fanno volare gli aerei, gli stewards il personale di terra. Se invece costringiamo lo Stato a mettere nella società costituenda nei consigli di amministrazione oltre ai rappresentanti del governo, delle banche che la finanzieranno, anche una rappresentanza dei lavoratori che possano decidere insieme il futuro forse salveranno un patrimonio costruito con i soldi degli italiani. Lo stesso discorso vale per la ex Ilva e per le autostrade.
Al posto del diritto individuale di diposizione sui mezzi di produzione del proprietario, sia esso pubblico che privato subentra un diritto di disposizione collettivo, nel quale i lavoratori quali organi democratici della produzione hanno pari diritti. E’ un capitalismo nuovo che coinvolge la collettività e ed impone il diritto al controllo della produzione con un unico limite che è quello del bene comune. Si chiama democrazia ed i padri costituenti lo avevano capito.
Per evitare in futuro i disastri economici che fenomeni come il coronavirus produrranno bisognerà arrivare insieme a queste emergenze.
“Insieme ce la faremo” diciamo oggi e ognuno sta facendo la sua parte: chi restando a casa, chi negli ospedali a salvare vite umane, che per le strade a presidiare il territorio, gli operai andando in fabbrica a lavorare a rischio di contaminazione, ma domani dobbiamo lottare perché ci sia un processo di democratizzazione dell’economia, non più schiavi delle borse che non chiudono in questi giorni tragici e continuano a fare affari sulle cataste di morti. Il concetto che al proprietario, all’industriale può essere tutto concesso va ridimensionato.
Naturalmente la cogestione non riguarda il contadino che con le forze sue e della sua famiglia coltiva le terra, raccoglie i prodotti e li vende; nè può riguardare il piccolo negozio di ottica che vende occhiali. Viceversa la cogestione dovrà riguardare la fabbrica o la grande catena di distribuzione o quel settore strategico per l’economia nazionale che non possono essere gestiti senza l’apporto dei lavoratori.
Abbiamo potuto tristemente constatare che il rischio d’impresa non è solo del proprietario, maanche e soprattutto dei lavoratori che dall’oggi al domani i trovano in cassa integrazione prima e in mezzo ad una strada dopo.
O si democratizza l’economia o questa massa di soldi che sta arrivando e che arriverà in futuro sarà preda del capitalismo finanziario che come dimostrano gli avvenimenti di questi giorni in cui mentre si muore da una parte dall’altra si continua a speculare tenendo le borse aperte.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.