di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |
Il presente contributo non vuole certamente essere un compendio dell’opera di Keynes, ma vuol cercare di indicare alcune vie di approccio alle problematiche presenti nella situazione economica attuale, figlia della crisi del 2007, che rappresenta il culmine della crisi del sistema del capitalismo nella sua fase finanziaria.
Premessa
La Teoria generale di Keynes venne pubblicata nel 1936, quando ancora erano pienamente in atto le conseguenze del “Giovedì nero” e della Grande depressione. Il reddito nazionale degli Stati Uniti crollò e la disoccupazione raggiunse livelli estremamente alti.
In questa situazione la validità della legge di Say, in base alla quale è sempre verificata l’equivalenza tra produzione e domanda e, di conseguenza, è impossibile che il sistema economico funzioni al di sotto della piena occupazione, fu messa decisamente in dubbio.
In questo contesto trovava terreno fertile, in opposizione alla teoria ortodossa, come sostenuto, tra gli altri, dall’economista e storico del pensiero economico John Kenneth Galbraith, l’opera di Keynes, il quale imputò la crisi al livello estremamente basso degli investimenti, e all’incapacità degli economisti classici di affrontare con successo quell’evento intimamente sconvolgente.
Keynes socialista?
La critica all’incapacità degli economisti classici non fa di Keynes un socialista; lo scrive esplicitamente nel libro VI al capitolo 24 “Filosofia sociale” capo III:
“Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione al consumo, in parte mediante il suo sistema di imposizione fiscale, in parte fissando il tasso di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul tasso di interesse sarà sufficiente da sola a determinare un livello ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l’iniziativa privata.
Ma oltre a questo non si vede nessun’altra necessità di un sistema di socialismo di stato che abbracci la maggior parte della vita economica della collettività. Non è importante che lo Stato si assuma la proprietà dei mezzi di produzione. (…) Ma se le nostre autorità centrali di controllo riuscissero a stabilire un volume complessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occupazione, la teoria classica si affermerà di nuovo da quel punto in avanti”.
Il non-socialismo di Keynes non sta tanto nel rifiuto del “socialismo di stato” (cioè di un regime burocratico, elefantiaco, da gosplan, tarpatore della creatività) nel contesto di una frase in cui la rilevante indicazione è quella di una “certa socializzazione”, quanto nella frase finale in cui afferma il riaffermarsi della teoria classica “da quel punto in avanti”.
E quel punto è la consapevolezza della cronica incapacità dei mercati di garantire la piena occupazione dei fattori della produzione, consapevolezza questa che permea tutto il pensiero di Keynes. Ma la precondizione al riaffermarsi della teoria classica è che “le nostre autorità centrali di controllo riescano a stabilire un volume complessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occupazione”.
Non sarà socialismo, nel senso che non contempla la contraddizione insita nel capitalismo tra le classi antagoniste, ma è sicuramente una critica profonda ai due massimi assiomi liberisti secondo i quali:
a) ogni uomo perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuisce a realizzare quella di tutti;
b) il mercato è il sistema che meglio di ogni altro contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione.
Keynes vuole salvare il capitalismo? Credo piuttosto che Keynes persegua nella sua opera obiettivi pragmaticamente perseguibili, condivisibili e finalizzati alla efficienza del sistema.
Esaminerò in questo contributo i temi della:
● Piena occupazione
● Capitalismo finanziario
● Bilance commerciali
● Tecnologia
La piena occupazione
La “piena occupazione” mi sembra un obiettivo condivisibile per chi si ritiene socialista, anche se tale obiettivo non significa l’emancipazione del lavoro dipendente, tema quest’ultimo oggetto di un punto successivo. Come noto in presenza di un’economia che fatica a crescere, con una disoccupazione dei fattori della produzione che deprime la domanda aggregata e quindi la crescita Keynes propone che lo Stato vari un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una politica di deficit spending che, tramite il famoso moltiplicatore, faccia ripartire la domanda aggregata, la conseguente attività produttiva, l’occupazione creando ulteriore domanda fino al raggiungimento della piena occupazione.
Quattro elementi vanno però considerati per applicare la ricetta del deficit spending.
Il primo elemento consiste nel presupposto che esista una disoccupazione dei fattori della produzione, perché solo in tal caso l’investimento pubblico non genererebbe inflazione cosa che invece succederebbe con un deficit spending in presenza di piena occupazione dei fattori della produzione. E’ importante sottolineare ciò perché nella vulgata il keynesismo passa per una politica di deficit spending comunque, magari, e questo è il caso del nostro Paese, per finanziare la spesa corrente o, come vedremo al secondo punto, per finanziare investimenti non produttivi.
Il secondo punto è che gli investimenti fatti indebitandosi siano produttivi in termini di PIL, ovvero essi possono anche essere improduttivi in termini ragionieristici di economia aziendale ma devono invece essere in grado di innescare quel moltiplicatore che porta effetti concreti sul PIL. La creazione della domanda aggregata deve cioè scaturire da un piano di investimenti che crei posti di lavoro, metta in moto l’attività produttiva, che si espanda in una spirale virtuosa sull’azienda nazionale, espandendo così la domanda che crea nuova attività indotta. Insomma per essere sintetici, Keynes non avrebbe mai cercato l’aumento della domanda erogando 10 miliardi l’anno sotto forma di bonus da 80 € al mese (helicopter money)..
Il terzo elemento è che l’indebitamento crei una equa ripartizione dei sacrifici/benefici tra le generazioni. Se si facessero gli investimenti sulla base di una politica di risparmi ed una conseguente accumulazione per gli anni necessari ad accantonare la somma necessaria (quello che può essere uno degli aspetti dell’austerità europea), se tale politica avesse successo avremmo due risultati: primo che l’investimento parte dopo 10 anni di accumulazione e che la generazione che risparmia si fa carico di tutti i sacrifici mentre la generazione che gode dei frutti dell’investimento ha solo benefici senza alcun sacrificio. Una politica di deficit spending, con tutti i crismi visti ai primi due punti anticiperebbe di 10 anni i benefici che sarebbero equamento compensati dai sacrifici del ripagamento del debito.
L’ultimo elemento che ritengo estremamente importante è quello di stimare con accuratezza la situazione in cui si fa il piano di investimenti. Se infatti a causa dell’arretratezza del livello tecnologico e produttivo delle aziende nazionali, la maggior domanda aggregata creata dai nuovi investimenti finanziati in deficit si rivolgesse, in modo particolare in un mercato aperto come quello della comunità europea, alle imprese più competitive estere, l’investimento strategico vedrebbe vanificati i suoi sforzi.
La domanda aggregata farebbe aumentare le importazioni e non la produzione interna. Occorre cioè, ma questo in Keynes non c’è, una politica di programmazione che consideri sia il supply che il demand side, che sappia cioè coinvolgere in un’unica operazione l’incremento della produttività con l’incremento della domanda aggregata. Pensare oggi, in Italia, ad un grosso piano di investimenti pubblici senza tener conto che la nostra produttività è ferma da 20 anni, potrebbe esere un grave errore di politica economica .
Il capitalismo finanziario
Ma il nostro autore, oltre a fornire, come abbiamo visto indicazioni per sopperire alle carenze della “mano invisibile” del mercato, va alla ricerca della causa di questi squilibri onde poter intervenire su dette cause e salvare così il capitalismo dai suoi errori.
Keynes recupera da Marx la triplice valenza del denaro come: misura del valore e dei prezzi; mezzo di circolazione e mezzo di “tesaurizzazione”. Marx identificò nel malfunzionamento del processo M-D-M’ una fonte della crisi del capitalismo. Nel baratto il soggetto A che possiede il bene X in eccesso e necessita del bene Y sarà in grado di barattare Y con X solo se trova un soggetto con B con Y in eccesso ed alla ricerca del bene X. L’intervento del denaro sblocca tutti questi reciproci condizionamenti e apre una libertà enorme agli scambi di beni. Ma se D, per qualsiasi ragione, una volta incassato invece di essere subito rimesso in circolo per acquistare un altro bene, rimane inoperoso nelle casse di un soggetto, ecco che l’equilibrio tra domanda e offerta viene a rompersi.
Similmente Keynes sa che, quando il denaro tende ad abbandonare la sfera della circolazione o per essere tesaurizzato in attesa di migliori tempi di impiego oppure per imboccare la sfera della speculazione finanziaria, gli equilibri del mercato vengono interrotti e la crisi si presenta in tutta la sua capacità recessiva.
Le pagine di Keynes contro la speculazione sono vivaci e avvincenti, in particolare quando parla della Borsa che da presunto e preteso miglior allocatore dei capitali è diventata una specie di casinò (o anche senza accento), dove sembra si giochi “alle sedie musicali, un passatempo nel quale vince chi riesce a conquistarsi una sedia quando la musica smette di suonare”.
Ma la condanna della speculazione non è una condanna moralistica; essa è indicata come la causa della rottura degli equilibri nel mercato, causa della recessione e della disoccupazione. Peraltro il valore creato dalla speculazione non ha un corrispondente aumento di valore della ricchezza, si tratta di un income by appropriation, non di un aumento della ricchezza nel processo D-M-D’ ma di un processo D-D’, processo nel quale alcuni giocatori “quando la musica smette di suonare si troveranno senza sedia”.
Bilance commerciali
Keynes fu protagonista, nel 1944, a Bretton Woods di una epica battaglia (Steil La battaglia di Bretton Woods – Donzelli editore) per regolamentare il commercio mondiale dopo la fine della guerra. Suo avversario era Harry Dexter White portatore della proposta risultata poi vincente sulla proposta di Keynes, proposta che era impostata sul “bancor” e su un “clearing mondiale”. Mi piace riportare un suo pezzo che è rimasto come un baluardo nella mia cultura:
“Un paese che si trovi in posizione di creditore netto rispetto al resto del mondo, dovrebbe assumersi l’obbligo di disfarsi di questo credito, e non dovrebbe permettere che esso eserciti nel frattempo una pressione contrattiva sull’economia mondiale e, di rimando, sull’economia dello stesso paese creditore. Questi sono i grandi benefici che esso riceverebbe, insieme a tutti gli altri, da un sistema di clearing multilaterale. (…) Non si tratta di uno schema umanitario, filantropico e crocerossino, attraverso il quale i paesi ricchi vengono in soccorso ai poveri. Si tratta, piuttosto, di un meccanismo economico altamente necessario, che è utile al creditore tanto quanto al debitore”.
Par di leggere la situazione attuale dell’unione europea, dove il mercantilismo sembra travolgere una impostazione “intelligente” dei rapporti tra gli stati comunitari; insomma servirebbe una Breton Woods europea (sperando che non prevalga ancora l’ Harry Dexter White – in veste nordeuropea) che tenda a far convergere i fondamentali dei vari paesi, con correzioni e automatismi necessari alla sopravvivenza della comunità.
La tecnologia
Per concludere, affrontiamo l’ultimo punto, quello che riguarda la rivoluzione 4.0 che con l’IOT, i big data, la stampa 3D l’intelligenza artificiale, sta modificando profondamente il modo di produrre e conseguentemente sta modificando i rapporti tra le forze sociali, in particolare il lavoro salariato.
Non mi addentrerò nella tematica specifica, ma su un aspetto che metta a fronte la contraddizione tra “liberazione dal lavoro” e “liberazione del lavoro”.
Indubbiamente la rivoluzione 4.0 ci libererà dal lavoro, riducendo il lavoro vivo necessario alla produzione, una evoluzione obiettivamente positiva e verso la quale vanno respinti tutti gli atteggiamenti luddistici. Diverso è il discorso della liberazione del lavoro che, al limite, immaginando una produzione fatta in toto dai robots, ci pone di fronte a due scenari estremi:
a) i robots sono di proprietà privata ed allora si va verso un neo-schiavismo dove il detentore dei mezzi di produzione deciderà l’assetto di una società di servi come quelli di Metropolis;
b) i robots ed i mezzi di produzione sono socializzati ed allora si conoscerà un nuovo rinascimento.
Sono temi (quelli del macchinismo) affrontati da Marx nei Grundrisse, da James Meade, da Paolo Sylos Labini e molti altri autori.
A Madrid, nel giugno 1930, Keynes pronunciò un breve discorso nel quale si trovò a descrivere il clima depresso dell’epoca (che somiglia molto al nostro) al quale oppose subito una visione diversa: “Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera”. Ci troviamo in una “fase di squilibrio transitoria”, causata da una “nuova malattia, .. la disoccupazione tecnologica.” Cioè quella “disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera [che] procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”.
D’altra parte per chi vorrà lavorare, anche per trovare senso nella vita, dovranno essere distribuite le ore socialmente necessarie per produrre i beni necessari a soddisfare i bisogni “assoluti”, in modo da soddisfare “il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi”. Diciamo, con “tre ore di lavoro al giorno”.
Conclusioni
Keynes ci può aiutare oggi ad impostare una politica di ispirazione socialista tesa a combattere il capitalismo finanziario unendo tutte le forze del lavoro, compresi gli imprenditori schumpeteriani ed i capitalisti produttivi, modificando i rapporti sociali tra le classi, progettando un nuovo modello di distribuzione conseguente alla rivoluzione 4.0, all’interno di una comunità europea che esca dalle logiche dell’austerità per imboccare quelle dello sviluppo programmato.
Insomma, un percorso nuovo per il socialismo del XXI secolo.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.