di Ilario Ammendolia |

Martedì il Ministro Bonafede s’è dovuto difendere in Senato dell’accusa di “complicità” con i giudici di sorveglianza che, applicando una legge dello Stato, hanno fatto uscire dal carcere circa 400 detenuti. Per una strana legge del contrappasso il Ministro della Giustizia più forcaiolo della storia della Repubblica è stato accusato di essere stato condizionato dai mafiosi al 41bis, e di aver fatto uscire i boss di prigione.

In verità circa la metà dei detenuti mandati ai domiciliari era composta da persone in attesa di giudizio, e l’altra metà avevano meno di 18 mesi da scontare. A volte s’è trattato di ottantenni ammalati di cancro.
Può uno Stato autorevole, forte e giusto avere paura di costoro?
No!
E per dimostrarlo vado con la memoria indietro nel tempo, quando il 4 giugno del 1966 veniva promulgata una legge di amnistia e indulto grazie alla quale uscivano dal carcere 11.982 detenuti su una popolazione carceraria di 60mila persone.
Ero giovane militante della Sinistra, e ricordo bene quella battaglia di civiltà.
Il governo era presieduto da Aldo Moro, e aveva come Vicepresidente del Consiglio dei Ministri il socialista Pietro Nenni, il Ministero dell’Interno era retto dal cattolico Paolo Emilio Taviani, già comandante partigiano.
L’amnistia proposta dal governo fu votata da parlamentari come Tina Anselmi, Sandro Pertini, Benigno Zaccagnini, Ugo La Malfa, Vittorio Foa, Emilio Lussu e Lelio Basso, Luigi Longo, Nilde Iotti, Luigi Preti e Umberto Terracini (giurista di valore, già Presidente dell’Assemblea Costituente  dopo aver subito dai tribunali di regime una condanna a 23 di carcere di cui ben 11 scontati in cella e altri 6 al confino a Ponza).

Uomini e donne che avevano scritta nelle proprie carni la lotta per la libertà.
La Calabria era rappresentata in Parlamento da Luigi Gullo, Giacomo Mancini, Eugenio Musolino e tanti altri ancora. Oggi ci rappresenta Nicola Morra.
Ripeto, Nicola Morra. Sul piano politico, di uno spessore a dir poco differente, lanciato dalla Calabria nella scena politica nazionale.
Gli anni in cui veniva promulgata l’amnistia non erano facili.
Il numero dei reati commessi in Italia era decisamente più alto di oggi, le mafie erano in forte espansione, mentre in Alto Adige si combatteva contro il terrorismo.

Eppure Uomini che le galere avevano conosciuto per amore della Libertà, e che con il popolo delle carceri erano vissuti fianco a fianco perché ristretti dal regime fascista, non avrebbero provato alcun imbarazzo a rivendicare la paternità di un provvedimento di clemenza.
Il diverso e opposto atteggiamento rispetto ai Bonafede e compagnia è scritto nelle rispettive storie.
Chi aveva combattuto e scontato anni di carcere per la libertà di tutti sapeva bene che le galere non hanno mai sconfitto la criminalità.

Qualche volta possono essere necessarie, ma sempre con la consapevolezza che le carceri rappresentano dei moltiplicatori di criminali, perché abbrutiscono e mai recuperano. Sapeva bene che una politica fondata sul sentimento di umanità, per come previsto dalla Costituzione, non è un favore che si fa ai “delinquenti”, né un insulto alle vittime dei delitti, ma rappresenta una difficile scelta per creare una società più umana.

L’Italia è diventato un paese migliore (ed in cui si commettono meno delitti al mondo) grazie a uomini come coloro che abbiamo citato, che certo non erano indenni da difetti (come tutti), ma che hanno legiferato senza farsi influenzare da titoli dei giornali o dalle dichiarazioni di giudici che, in uno Stato normale, sarebbero stati considerati nulla più che vincitori di pubblico concorso. Semplici impiegati dello Stato da mettere democraticamente a loro posto non appena si fossero messi a parlare d’una loro presunta missione di “rivoltare l’Italia come un calzino” o di “smontare la Calabria come un Lego”.