MI HANNO DATO DELL’IPOCRITA

 

di Renato Costanzo Gatti Socialismo XXI Lazio |

 

A proposito dei decreti liquidità e rilancio ho fatto alcune osservazioni che, se da una parte assentivano alla necessità di aiutare le imprese, dall’altra criticavano l’assenza di una visione di sviluppo se non addirittura una subalternità non tanto all’impresa quanto al capitale.

Personalmente ritengo l’imprenditore, in particolare quello schumpeteriano, uno dei più importanti elementi appartenenti al mondo del lavoro che, sebbene spesso nel mondo familista italiano coincide con il capitale, può talora trovarsi di fronte a casi di contraddizione tra interessi dell’imprenditore e interessi del capitale. Ritengo estremamente importante individuare queste contraddizioni e infilarvisi addentro al fine di esasperarle facendo esplodere una potente dialettica fra imprenditore e capitale. Con l’avvento del capitalismo finanziario, in cui il capitale fugge dall’impiego produttivo per avventurarsi nel mondo della finanza, si produce una contraddizione tra il capitale che cerca profitti al di fuori del mondo della produzione e imprenditore che si vede negati dal capitale i mezzi per perseguire la sua ricerca migliorare la sua potenzialità produttiva.

Il decreto liquidità ed in particolare il decreto rilancio sono a mio modo di vedere, oltre a provvedimenti necessari per salvare il salvabile e di evitare ribellioni popolari nelle periferie e nelle città in conseguenza della esplosione della disoccupazione, due decreti che nell’ottica della contraddizione impresa capitale sono decisamente subalterni alla logica del capitale.

Esamino tre provvedimenti che hanno sollevato le mie perplessità.

Il decreto liquidità

La finalità di questo decreto è quello di ridare liquidità alle imprese che, a causa della pandemia e del conseguente lockdown, rischiano di fallire e hanno comunque grosse difficoltà di tesoreria. Come si sa le imprese italiane (fatte sempre salve le debite eccezioni presenti ma decisamente minoritarie) sono decisamente sottocapitalizzate. Ecco quindi una prima lampante contraddizione: il capitale che decide di intraprendere, si lancia sì in una attività che ha nella sua natura la rischiosità d’impresa, ma si lanciano generalmente con scarse dotazioni di capitali fidando sull’autofinanziamento verso i fornitori ma soprattutto puntando sul credito bancario e alla bisogna non pagando imposte e contributi anche se regolarmente (ma non sempre) dichiarati.

Il decreto prevede quindi che SACE conceda una garanzia, alle banche che finanziano le imprese, modulata in tre scaglioni in funzione del fatturato del 2019 e per importi non superiori al 25% del fatturato dello stesso anno. Tra le varie casistiche che inibiscono la concessione della garanzia alla lettera i) leggiamo “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno che essa, nonché ogni altra impresa con sede in Italia che faccia parte del medesimo gruppo cui la prima appartiene, non approvi la distribuzione di dividendi o il riacquisto di azioni nel corso del 2020”.

Quindi il legislatore ha riconosciuto la contraddizione tra chiedere liquidità (e garanzia statale su di essa) e distribuzione di dividendi o riacquisto di azioni. Il legislatore ha quindi limitato il potere del capitale nel caso eclatante che lo stato garantisca un prestito che in ultima istanza serve per pagare dividendi al capitale, ma ciò, per non offendere troppo il capitale, per soli pochi mesi, dal primo gennaio 2021 dividendi e riacquisto azioni possono legittimamente essere fatti.

Ma se una impresa italiana (una a caso la FCA Italia SpA) non distribuisce dividendi etc. nel 2020, e lo stesso fanno tutte le imprese dello stesso gruppo  (Maserati, Alfa romeo etc) con sede in Italia, essa è allora legittimata a chiedere la garanzia dello stato su un prestito di 6,3 miliardi di euro, anche se la capogruppo FCA con sede all’estero, proprio perché non ha sede in Italia, come previsto dal decreto, distribuisce 5 miliardi di dividendi e scrive questo impegno sulla pietra.

Ora, moralisti non verginelle, sostengono che è una vergogna quello che succede, se la prendono con le inadempienze della Fiat, con gli aiuti che sono sempre stati regalati alla stessa dalla prima guerra mondiale al flirt con Gheddafi, pensando che il capitale, con un senso di dignità e di sobrietà, avrebbe dovuto astenersi dall’avvalersi della legge.

Io, al contrario, ritengo che sia sbagliato il decreto, e visto che a pensar male non guasta mai, ciò non sia una dimenticanza visto che la lettera i) dell’articolo 1 ha individuato immediatamente il problema dividendi, ma, fingendo non di sapere ciò che tutti sanno e che cioè la FCA Int. ha intenzione di distribuire un megadividendo, hanno limitato la proibizione di distribuzione di dividendi alle sole imprese del gruppo che abbiano sede in Italia! Sdegno per il capitalista ingordo o sdegno per il legislatore, come minimo, incapace?

Per la mia posizione critica non tanto verso il capitale, la cui natura conosco bene, quanto verso il governo, mi sono preso dell’ipocrita.

E a Orlando che solleva il caso, oltre a chiedergli dove fosse quando il decreto è stato scritto, direi che invece di limitarsi a fare interviste per le quali si prende l’insulto di “sovietista” dall’effimero Renzi, si attrezzasse per presentare un emendamento, in sede di conversione del decreto, che dia corpo alle sue indicazioni, alla richiesta che ad ogni aiuto alle imprese fatto dallo Stato, lo Stato stesso abbia il diritto di controllare come i suoi soldi o le sue garanzie vengono utilizzate, indicando magari (ma ciò è un mio suggerimento) che sussidi e garanzie siano date a quei progetti che più implementano il PIL, la produttività, la digitalizzazione, l’occupazione etc. obiettivi cioè con uno scopo utile a tutto il paese.

L’abolizione del saldo e della prima rata Irap

Il decreto Rilancio prevede espressamente che non è dovuto il versamento né del saldo 2019 né della prima rata di acconto dell’IRAP 2020, per quei soggetti che hanno realizzato un fatturato inferiore a 250 milioni di €.

Tuttavia, non viene fornita alcuna indicazione circa le sorti future di questo mancato versamento. In mancanza di ulteriori indicazioni espresse, applicando la disciplina generale, il debito da mancato versamento confluirà nel saldo finale a debito. In buona sostanza il contribuente dovrà versare un maggior saldo potendo scomputare solo il versamento relativo alla seconda rata. Il Ministero dell’Economia e delle finanze ha peraltro smentito tale ipotesi, precisando che la “cancellazione” della prima rata deve considerarsi definitiva. È tuttavia necessario procedere con una modifica normativa espressa che disponga in tal senso. Solo in tal modo si otterrà la certezza dei possibili comportamenti futuri del legislatore.

Ma a parte la scorrettezza del testo legislativo, non si può non chiedersi quale sia la ratio di questo provvedimento. Il saldo 2019 riguarda imposte su utili realizzati prima della pandemia, debitamente dichiarati e in parte (gran parte a parità di redditi con quelli del 2018) pagati. Perché abbonarli? Quale beneficio al paese? Quale strategicità? Quanto poi all’acconto va ricordato che oltre al metodo storico mediante il quale le imprese pagano l’acconto sulla base dell’imposta maturata nell’anno precedente, se ritengono che nel corso del 2020 guadagneranno meno del 2019 possono pagare l’acconto nella minor misura corrispondente all’utile che le imprese stimano di conseguire nel 2020. Se cioè prevedo di non avere utili imponibili è perfettamente legale non versare alcun acconto, e ciò con la legislazione vigente. La legislazione vigente viene però modificata nel caso in cui, stimando l’utile del 2020, ho versato un acconto minore a quanto avrei dovuto versare in base all’utile effettivamente realizzato nel 2020. Il pagato in meno a legislazione pre-decreto era punita con sanzioni ed interessi. Ebbene il decreto in esame fornisce una ampia area di possibile errore di stima entro al quale nessuna sanzione né interesse è comminato.

Ebbene la mia conclusione, naturalmente disprezzata da chi mi critica, è che la ratio di questo provvedimento risiede in una richiesta formale del presidente di Confindustria Bonomi, cui il governo si è supinamente inchinato. E a goderne non è l’impresa ma dopo il 31 dicembre 2020, potrà essere distribuito, insieme agli utili, anche questo cadeau che i contribuenti fanno al capitale.

L’incentivo al capitale

Per incentivare il capitale a patrimonializzare le proprie imprese l’art. 26 comma 4 del decreto “Rilancio” l’art. 26 comma 4 prevede che “Ai soggetti che effettuano” nella casistica prevista dall’articolo stesso” conferimenti in denaro in una o più società, in esecuzione dell’aumento del capitale sociale di cui al comma 1, lettera c, spetta un credito d’imposta pari al 20%.” Il comma 5 limita il calcolo del credito d’imposta sui soli primi 2 milioni di € di conferimento; inoltre “La partecipazione riveniente dal conferimento deve essere posseduta fino al 31 dicembre 2023”; e il comma 7 verso la fine precisa che “il credito d’imposta non concorre alla formazione del reddito ai fini delle imposte sul reddito…”.

A parte che il comma 5 poteva vincolare il possesso della partecipazione riveniente dal conferimento “almeno” fino al 31/12/2023, evitando di interpretare l’articolo nel senso che la partecipazione vada dismessa al 1 gennaio 2024, vorrei far notare che se un capitalista investe 2.000.000 di € il 30 dicembre 2020, e lo disinveste il primo gennaio 2024, egli ha diritto a un credito di imposta di 400.000€ ESENTASSE, ripeto ESENTASSE.

Sarò ipocrita, ma non vorrò moralisticamente disdegnare il capitalista che in tre anni guadagna il 20% netto ovvero il 6.66 annuo, mi limiterò da una parte a sottolineare la sottomissione servile del governo al capitale, e dall’altra a consigliare i miei critici a leggere tutto il decreto.