LAVORO FORZATO, MILITARIZZAZIONE DEL LAVORO E STATO TOTALITARIO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA

“Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)”

RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI

Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343

ANNO ACCADEMICO 1978-1979

 

PARTE PRIMA

I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO

b) Lavoro forzato, militarizzazione del lavoro e stato totalitario

Il lavoro forzato in Unione Sovietica ha una data di nascita precisa: l’anno 1929, l’anno dell’industrializzazione del paese e della collettivizzazione forzata. Come già abbiamo visto a proposito dei sindacati, quell’anno rappresentò la pietra miliare dello sviluppo dello Stato sovietico in senso totalitario e dittatoriale. L’esistenza del lavoro forzato è per gli autori socialdemocratici uno degli argomenti più adatti alla dimostrazione dell’assoluto e totale controllo statale sulla società civile e del brutale sfruttamento operato ai danni di tutta la classe lavoratrice da parte della ristretta classe di burocrati che controlla le leve di potere dello Stato.

Lo stato, che si è già impadronito degli organi di difesa dei lavoratori (i sindacati furono in quegli anni trasformati in strumenti ed organi del dominio statale) si impadronisce ora, attraverso la coazione al lavoro, anche dal singolo lavoratore, privato di qualsiasi possibile libertà: in una parola viene reso schiavo. Ed è questo un motivo costante degli articoli socialdemocratici a questo riguardo: con l’estensione formidabile del lavoro forzato a livelli tali da fare impallidire gli imperatori egiziani ed assiro-babilonesi (58), lo stato russo mostra chiaramente il suo carattere regressivo: non ad una società socialista ha dato origine la Rivoluzione di Ottobre, ma ad una società schiavistica pura in cui lo stato non solo possiede la proprietà dei mezzi di produzione ma anche il lavoro umano.

E, per dimostrare che questo non è un giudizio valido solo per i lavoratori dei campi di lavoro forzato, ma estendibile facilmente a tutta la massa dei lavoratori, anche a quelli presunti ‘liberi’, gli autori socialdemocratici si sforzano di dimostrare come solo una leggera linea di demarcazione e non un fossato divida un tipo di lavoro (quello forzato) dall’altro (quello presunto libero), in quanto da una parte il lavoratore ‘libero’ può facilmente e per un nonnulla (semplice ritardo sul lavoro, delle minime rivolte contro i capi e regolamenti, eccetera) cambiare stato e diventare di conseguenza un ‘forzato’; dall’altra non esiste propriamente un tipo di lavoratore ‘libero’, perché questi, anche se non era recluso nei campi di lavoro, deve sottostare ad una disciplina di lavoro tale (impossibilità di cambiare posto di lavoro, rispetto della norma di produzione, eccetera) che la sua posizione non differisce di molto da quella dei ‘forzati’.

A parere, quindi, dei socialdemocratici il concetto di schiavismo non si limita ad abbracciare i rinchiusi dal filo spinato, ma aleggia con le sue tenebrose propaggini su tutta la società civile, sottomessa alla tirannia della classe burocratica statale.

Ma vediamo di analizzare e scomporre i vari elementi, prendendo in esame gli articoli dedicati all’argomento (59).

L’articolo più completo e quello apparso su Critica sociale del 16 marzo 1948 firmato R.K. (60). Per l’autore l’esistenza, l’estensione, l’importanza del lavoro forzato come uno dei “decisivi fondamenti del sistema del regime economico e politico dell’Unione Sovietica” (61) è la riprova, contro chi ancora osasse negarlo, che dalla rivoluzione del 1917 è nato uno stato dittatoriale e totalitario (62).

Seguiamo il percorso dell’articolo. Secondo lo scrittore il lavoro forzato divenne una parte sempre più importante del processo di industrializzazione del paese, a partire dal 1929. La Russia, infatti, per sollevarsi dalle misere condizioni di arretratezza economica e tecnica in cui si trovava e per creare e sviluppare un gigantesco apparato industriale, aveva bisogno, in assenza di capitale disponibile all’interno e a causa dell’impossibilità di contrarre prestiti sul mercato internazionale, di poter disporre di lavoro a buon mercato.

In una situazione economica caratterizzata inoltre dall’assenza non solo di capitali ma anche di macchine e in genere di qualsiasi attrezzatura meccanica di avanzata tecnologia, il governo sovietico trovò più facile ricorrere, dice R.K., al lavoro forzato per la costruzione di quelle opere indispensabili allo sviluppo industriale (ponti, canali, ferrovie, strade, eccetera). Il materiale umano necessario ai bisogni del regime dello Stato sovietico fu ritrovato facilmente tra i contadini refrattari alla collettivizzazione che andarono ad alimentare il numero dei prigionieri destinati a diventare dei lavoratori forzati.

Il lavoro forzato ha tutte le caratteristiche del lavoro schiavistico, analogo, sostiene l’autore, “all’impiego del lavoro dei servi al tempo di Pietro il grande” per la costruzione di strade, canali o il prosciugamento di paludi. L’analogia tra i due regimi è fondata dall’autore oltre che sull’identità del fine da raggiungere anche su quella dei motivi che spinsero i due regimi a ricorrere al lavoro degli schiavi: la mancanza di macchine che, al posto dell’uomo, avrebbero risolto quei problemi; al tempo di Pietro il grande, infatti, esse non esistevano ancora e al tempo di Stalin non erano ancora a disposizione.

Il lavoro forzato è analogo al lavoro schiavistico con una differenza: l’assenza della caratteristica di bassa produttività tipica del lavoro degli schiavi nelle epoche precedenti. Afferma infatti R.K., mentre lo schiavo nei sistemi basati sulla proprietà privata rappresentava un bene patrimoniale, donde derivava la necessità per il padrone di mantenerlo in vita, nella società totalitaria, caratterizzata dalla proprietà statale della nuova classe dominante, lo schiavo reclutato senza costi alcuni non crea il problema del suo mantenimento e non è cioè in poche parole un bene patrimoniale:

“Mentre lo schiavo nella proprietà privata rappresentava un bene patrimoniale non altrettanto avviene nello stato schiavistico totalitario che può reclutarlo senza costi e farlo lavorare il più intensamente possibile sino alla morte. Come incentivo serviva la saturazione di una norma, di una prestazione minima che il lavoratore prigioniero deve raggiungere per non essere lasciato morire di fame …. Il livello di vita nei campi di concentramento venne sistematicamente tenuto al di sotto di quel livello che, secondo l’espressione di Marx, è necessario alla riproduzione della forza lavoro.” (63)

Al diritto di proprietà sul singolo si è sostituito quello sulla collettività (64). Interessante è anche l’analogia che l’autore riscontra tra la massa dei lavoratori forzati russi e l’esercito industriale di riserva dei paesi industrializzati occidentali. Questi, al pari di quelli, costituiscono un monito per i lavoratori cosiddetti liberi, frenando in loro quegli impulsi di ribellione che potrebbero immediatamente farli rientrare nel novero degli schiavi, spingendoli quindi ad assoggettarsi alla logica dello sfruttamento intensivo (stakanovismo), ai bassi salari, eccetera:

“Con ciò la massa grigia dei lavoratori prigionieri – intenzionalmente o no – esercita quella funzione che, secondo Marx, nel mondo borghese capitalistico compie l’armata di riserva industriale dei disoccupati, l’inesistenza dei quali nell’Unione Sovietica viene addotta come risultato e successo dell’economia pianificata. La sussistenza dei campi di concentramento, costituenti il pericolo sempre imminente di essere incorporati nell’esercito dei lavoratori forzati è sufficiente mezzo di pressione per persuadere i ‘liberi’ lavoratori ad assoggettarsi ai bassi salari, agli sfruttamenti intensivi, alla rigorosa eliminazione degli spostamenti e delle migrazioni interne.”

La linea di demarcazione tra i forzati che rappresentano da soli, dice R.K., la metà di tutta la forza lavorativa industriale sovietica e i ‘liberi’ è quindi sottilissima, aleatoria, come lo era quella tra occupati e disoccupati ai primordi dello sviluppo industriale capitalistico. La conclusione naturale dell’articolo risponde alla domanda: che tipo di regime si è sviluppato in Urss? L’autore risponde che, se da una parte il regime fondato sulla proprietà privata, il capitalismo, è stato abbattuto, il risultato non è stato il socialismo ma una specie di totalitarismo statale con forti analogie con le società schiavistiche. (65)

Ho trattato per esteso questo articolo perché in esso sono contenuti abbondantemente tutti i temi che gli autori socialdemocratici svilupparono, soprattutto nel 1948, nei copiosi articoli pubblicati dall’Umanità.

L’assenza dei prestiti esteri e la mancanza di attrezzature meccaniche sono individuati infatti anche da G.L. Arnold (66) come le cause che motivarono l’utilizzo del lavoro forzato in quanto caratterizzato dal basso costo:

“Il fatto che non si potesse disporre di prestiti esteri fu, certamente, una delle cause principali del ricorso del governo al lavoro forzato come supplemento ad altri meno anormali mezzi di capitalizzazione. Il lavoro schiavistico, sebbene relativamente antieconomico, può servire a trarre dividendi apprezzabili se gli stessi schiavi sono forzati, pena l’inazione, a lavorare secondo la ‘norma’ stabilita dalle autorità del campo di concentramento.” (67)

La sottolineatura del fatto che il regime di lavoro forzato non è limitato ai soli campi di lavoro ma si estende a tutto il corpo della società civile è sviluppata da un articolo col titolo significativo: “In Russia ci sono 1000 Mathausen” (68). In questo articolo la società russa è definita col suggestivo (suggestivo perché implica un’idea di modernità e di diversità con le antiche società schiavistiche) titolo di ‘Società anonima dello schiavismo’. L’appellativo schiavista dato al regime russo è d’altronde comune a tutti gli articoli in questione. La constatazione della sostanziale diversità, dal punto di vista della produttività del lavoro, tra le antiche società schiavistiche e quella nuova sovietica è espressa anche da Schreider in un suo articolo (69). Le motivazioni riportate da Schreider sono del tutto simili anche letteralmente a quelle più sopra citate di R.K. per cui evito di ripeterle.

L’affermazione, infine, che la società sovietica sia una società divisa in classi, dove quella privilegiata padrona dello Stato e l’intera struttura politica sociale “poggia su una nuova base, l’immensa classe dei lavoratori forzati” (70) è esposta da Arnold nel già citato articolo. Risulta evidente a questo punto che le idee, articolate e strutturate di RK, ritornano senza sostanziali novità negli articoli successivi. Lo schema può essere facilmente riassunto nei seguenti punti: 1. – Il lavoro forzato si rese indispensabile per l’opera di industrializzazione del paese a causa dell’assenza di capitali e macchinari. 2. – Esso si estende a tutta la società civile. 3. – Il sistema risultante, né socialista né capitalista, somiglia piuttosto a una società divisa in classi di tipo schiavistico moderno, dove una minoranza che dispone di tutti i poteri statali economici e politici sfrutta l’immensa maggioranza del popolo russo.

Prima di concludere l’esposizione del pensiero riformista relativo a questo argomento rimane da affrontare la serie di articoli dedicati da Schreider (71) al problema della militarizzazione del lavoro, altro argomento probante al fine della dimostrazione dell’onnipotenza e dell’onnipresenza del lavoro forzato nella società sovietica, dai campi di lavoro alle fabbriche di città. La militarizzazione del lavoro è infatti lo strumento attraverso il quale, secondo Schreider, lo stato totalitario controlla ed opprime i lavoratori togliendo loro qualsiasi tipo di libertà civile e politica. Questo fatto lo porta alla convinzione che:

“Il bolscevismo (riduca) l’uomo allo stato di cosa, di strumento dell’ipertrofico statalismo, il quale poi si identifica in Russia con un dispotico e crudele assolutismo governativo di un piccolo gruppo di oligarchi.” (72)

Il ritornello è quello che ormai ben conosciamo: il totalitarismo statalista porta alla dominazione di una classe ristretta di oligarchi, di burocrati. Schreider si sforza di dimostrare come la militarizzazione del lavoro, che al tempo di Stalin raggiunse “l’apice dell’inesorabile e spietata crudeltà totalitaria” (73), non fu un prodotto della sola fucina stalinista, ma già contenuto, affermato ed elogiato da Lenin, Trotskij e Radek. Esso costituisce, per Schreider, un punto caratteristico del pensiero comunista e non una sua deviazione o degenerazione. L’autore afferma infatti che in tutte le opere di Lenin è possibile riscontrare la tendenza a “trattare tutti i problemi di carattere politico, economico, sociale quali problemi di battaglia e guerra, adoperando la terminologia militare.” (74) conclude perciò dicendo che:

“già nella stessa dottrina di Lenin si nascondevano i germi della degenerazione dell’iniziale bolscevismo nel crudele dispotismo totalitario che impera attualmente nell’URSS.” (75)

Trotzky è forse, a parere di Schreider, il responsabile teorico maggiore di questa pratica, in quanto si è sforzato di dare una veste, una giustificazione politica a questa oppressione disumana dei lavoratori. In Trotskij, infatti, nelle sue tesi sulla “Militarizzazione del lavoro”, accettate dal Comitato Centrale del partito e approvate successivamente al nono congresso, sostiene che il socialismo esige una completa unificazione della volontà e dell’attività umana, cosa che si verifica soltanto nell’esercito. Il dirigente bolscevico conclude quindi affermando la necessità per lo stato sovietico di un apparato economico eccezionalmente autoritario, creato a somiglianza dell’apparato militare. Il risultato di tutte queste teorie fu appunto la formazione di una società burocratico statalista totalitaria, cui inevitabilmente conduce il comunismo e non certo una società socialista, democratica, fondata sul libero sviluppo della persona umana e sull’uguaglianza economica e civile.

Note:

58 – R. K. Lavoro forzato nella Russia sovietica in Critica Sociale, 16 marzo 1948

59 – Faccio notare che molti di questi articoli si rifanno allo studio dei due immigrati russi Dallin e Nicolaewskij “Forced Labour in Soviet Russia” London 1947. Di ciò tratteremo in seguito.

60 – R. K. Lavoro forzato …. art.cit

61 – ibidem

62 – ebidem

63 – ibidem

64 – Si colga la forte analogia con le tesi di Rizzi.

65 –

66 – Anche qui l’analogia con le tesi di Rizzi è sorprendente.

67 – G. l. Arnold Il lavoro forzato in Russia in l’Umanità, 1° aprile 1948.

68 – ibidem

69 – In Russia ci sono 1000 Mauthausen in l’Umanità, 22 febbraio 1948. Il titolo è significativo in quanto costituisce uno dei molti tasselli che servono ad identificare il regime bolscevico con quello nazifascista, che è poi uno dei punti cardine della teoria del ‘collettivismo burocratico’.

70 – Schreider L’esperimento …. art.cit.

71 – Schreider pubblicò sull’Umanità i seguenti articoli dedicati all’argomento: Lenin e il lavoro forzato, 19 aprile 1948; Trotzky e il lavoro forzato, 24 aprile 1948; Lavoro e lavoratori nella Russia stalinista, 5 agosto 1948; Radek e il lavoro forzato, 6 maggio 1948.

72 – Schreider Trotzky …. art.cit.

73 – Schreider Radek …. art.cit.

74 – Schreider Lenin …. art.cit.

75 – ibidem