INTERVISTA A LEO VALIANI SUL SINDACATO E LA SINISTRA DEGLI ANNI 1946-1951

Gli anni che vanno dal 1947 al 1950, data di nascita della Uil, furono un susseguirsi convulso di avvenimenti. C’era in tutti la consapevolezza delle grandi scelte da compiere per la rinascita democratica ed economica del Paese. Si doveva voltare pagina e costruire un nuovo Stato. In quale humus politico e culturale fu fondata la Uil?

Il nucleo promotore della Uil, il motore che le diede vita, furono certo i sindacalisti socialisti usciti o espulsi dalla Cgil per avere seguito la scissione di Romita dalle file del Psi: Viglianesi, Dalla Chiesa, Bulleri e altri. Ad essi si aggiunsero i repubblicani ed i socialdemocratici che non avevano accettato la confluenza della loro Fil nella Cisl. Ma la Uil rappresentò in realtà il punto di arrivo di un movimento politico che affondava le radici in quell’area della sinistra democratica che andava da Ignazio Silone agli ex azionisti e a tutti quei dirigenti socialisti che si battevano su posizioni di autonomia dal partito comunista, anche se non erano usciti con la scissione di Palazzo Barberini.

Ignazio Silone era il capo morale e il punto di riferimento politico di questo arco di personaggi con estrazioni ed esperienze politico-culturali anche diverse, ma cementati dalla lotta antifascista. Essi avevano approvato la ribellione di Saragat allo stalinismo del Psi – allora si diceva fusionismo – ma ritenevano che il Psli fondato dallo stesso Saragat fosse troppo legato alla Democrazia Cristiana. I gruppi influenzati da Ignazio Silone nutrivano insomma nei confronti di Saragat una divergenza tattica: criticavano l’adesione in condizioni di minorità e di debolezza ad un governo egemonizzato dalla Democrazia Cristiana.

Nei confronti del Psi la divergenza era invece di principio, ideale, profonda: era infatti problema di principio il rifiuto dello stalinismo. A questi gruppi aderirono Giuseppe Romita e i sindacalisti socialisti che uscirono dal Psi nella primavera del 1949. Vi aderirono anche numerosi deputati e dirigenti dello stesso partito di Saragat. Si ritenevano infatti mature le condizioni per una iniziativa costituente che raccogliesse tutti i socialisti democratici. Ma Saragat era diffidente, non accettò l’unificazione immediata, e per questo Romita e Silone fondarono il Psu.

Esso rappresentò un po’ una anticipazione di quel che oggi sta realizzando Bettino Craxi: il Psu era una forza socialista antistaliniana, autonoma sia dal partito comunista, sia dalla Democrazia Cristiana. Silone fu dunque un anticipatore, come lo fu del resto per gli ideali europeisti: non bisogna dimenticare che quando uscì dal Psi con la scissione di Palazzo Barberini, egli non aderì al Psli di Saragat, ma fondò un piccolo gruppo che si chiamava “Europa socialista”. Una anticipazione appunto di quel movimento verso l’unità europea che nelle sinistre si sarebbe realizzato soltanto molti anni dopo.

È proprio questo il retroterra della Uil.

Ma allora gli schieramenti politici non erano ancora ben definiti, il centrismo fu infatti un punto di arrivo per i partiti che gli diedero vita. Dc, Psdi, Pri e Pli erano attraversati da spinte spesso anche contrapposte di linea politica. Come avrebbe dovuto agire la sinistra, secondo voi, secondo Silone, in presenza di un Pci stalinista?

Nel marzo del 1947, su mia proposta, il Partito d’Azione dedicò il suo congresso nazionale, e fu l’ultimo perché alla fine dello stesso anno si sciolse, al problema del rinnovamento del socialismo democratico. Al centro del dibattito c’era una mozione che a maggioranza, una stretta maggioranza però, Aldo Garosci, Tristano Codignola ed io eravamo riusciti a far approvare dalla direzione del Partito (contrari Emilio Lussu, Francesco De Martino ed anche Riccardo Lombardi) in cui si prospettava la fusione con il Partito Socialista dei Lavoratori fondato da Saragat, che ancora non era stato in alcun modo messo in condizioni di subalternità dalla collaborazione con la Democrazia Cristiana; anzi era ancora su una posizione del tutto indipendente e non faceva parte del Governo

Al congresso, tenuto a Roma, invitammo lo stesso Saragat, che ci chiese di entrare tutti in blocco nel suo partito; invitammo anche Lelio Basso, allora Segretario del Partito Socialista Italiano. Questi ci assicurò che il Psi non si sarebbe fuso con il Pci, pur mantenendo egualmente il patto di unità di azione. E invitammo anche Ignazio Silone, il quale proprio in questa occasione espresse con chiarezza il suo giudizio sulla situazione italiana. A suo avviso c’erano le condizioni per una grande riforma democratica e socialista del Paese; ma i consensi della maggioranza dei cittadini non si sarebbero mai potuti ottenere se alla base del nostro programma si fossero posti da una parte la lotta agli Stati Uniti capitalistici, dimenticando il loro aiuto economico a noi e a tutta l’Europa Occidentale; e dall’altro lato una punta di anticlericalismo, che avrebbe finito per giustificare la crociata ideologica allora bandita dal Vaticano di Pio XII. Dobbiamo convincere gli americani – sosteneva Silone – che il nostro proposito di riforma democratica e socialista non si prospetta come una rivoluzione socialista mondiale, che finirebbe fatalmente per essere al rimorchio dell’Unione Sovietica; ma – sono sue parole testuali – “è una risposta locale a problemi locali”.

Egualmente – diceva Silone – noi laici non dobbiamo rifiutare una collaborazione anche stretta con i riformisti del mondo cattolico. Dobbiamo perciò evitare di irritarli con velleità anticlericali. Egli si riferiva in particolare a Dossetti.

Questa era dunque la posizione di Silone: non staccare l’Italia dal mondo occidentale, ma fare in modo che si potesse sviluppare un’iniziativa riformatrice democratica, socialista e autonoma, indipendentemente dai due blocchi che si stavano già dividendo l’universo.

A 42 anni di distanza mi sembra di poter dire che questa visione non poteva certo prevalere – ed in questo aveva momentaneamente ragione Saragat – durante la guerra fredda; ma oggi, nel nuovo clima di distensione internazionale, acquista nuova attualità. L’Italia può realizzare una grande riforma democratica e sociale, direi di un socialismo liberale nel senso di Carlo Rosselli, senza che ciò susciti le preoccupazioni degli Stati Uniti, dei quali però dobbiamo restare alleati, o incoraggi manovre dell’Unione Sovietica, vista anche l’evoluzione delle forze in campo.

Per battere questa strada di rinnovamento dobbiamo naturalmente imparare dall’esperienza di questi 42 anni: in particolare, Silone e tutti noi approvavamo allora le nazionalizzazioni effettuate dai laburisti in Inghilterra e dai socialisti in Francia. Col tempo su questa linea c’è stato un generale ripensamento in Europa e anche in Italia. I primi ad accorgersi che la loro validità era limitata nel tempo, che non dovessero assolutamente considerarsi una soluzione buona sempre e ovunque, furono i social-democratici tedeschi con il programma di Bad Godesberg. Era per loro chiaro che il pieno impiego ed il crescente benessere della classe lavoratrice sarebbe stato assicurato meglio con una programmazione molto elastica sulla base della stessa economia di mercato.

Oggi vanno dunque bene le idee di Silone, purché si mantenga la rinuncia alle nazionalizzazioni e si nutra, rispetto all’economia di mercato, una fiducia maggiore di allora, o almeno maggiore rispetto all’atteggiamento della sinistra di allora.

L’unico che già in quegli anni vedeva il problema nei suoi termini odierni – fra i capi politici italiani di sinistra – fu Ugo La Malfa. Anche La Malfa era stato fautore di nazionalizzazioni, quando nel 1942 scrisse il programma del Partito di Azione; ma sin dal 1946 si accorse che l’integrazione dell’Italia nell’economia occidentale le avrebbe rese superflue. L’ultima volta che ne sostenne una fu nel 1962, d’accordo con Riccardo Lombardi, benché militassero in due partiti diversi: si trattò della nazionalizzazione dell’industria elettrica, che peraltro non diede i risultati sperati. Non contribuì certo decisamente al pieno impiego e alla rinascita del Mezzogiorno. Mi pare che oggi nessun partito e nessun sindacato siano fautori di altre nazionalizzazioni. Ci sono dunque le condizioni per una ripresa delle idee di Silone.

Ma la sinistra italiana, prima ancora di spaccarsi sull’adesione al Patto Atlantico, si era già spaccata sulla adesione al Piano Marshall…

Eravamo interamente favorevoli al Piano Marshall, e fu veramente cecità, non dico da parte dei comunisti ma dei socialisti di Nenni, non accettarlo; i Governi comunisti dell’Europa Orientale avrebbero anch’essi voluto aderire. Il Governo cecoslovacco lo accettò persino pubblicamente, ma Stalin impose quella revoca che fu appunto il preludio della soppressione del pluripartitismo che, pur con direzione comunista, era esistito in Cecoslovacchia fino al febbraio 1948.

Altro era il problema dell’adesione al Patto Atlantico. Nel mondo intero i partiti socialisti erano sempre stato contrari alle alleanze militari.

Saragat fu il primo che si decise per l’adesione, ma anch’egli dopo lunghe esitazioni.

Silone ed anch’io avremmo voluto che si tentasse la via della neutralità sul modello che poi sarebbe stato quello dell’Austria, perché pensavamo che ciò avrebbe facilitato la costituzione di una maggioranza democratica riformatrice, mentre il Patto Atlantico favoriva inizialmente le soluzioni conservatrici. Nella Democrazia Cristiana Dossetti era dello stesso nostro parere. Però tutti dovemmo poi convenire che questa via era impraticabile. Ci convinse, nell’estate del 1950, l’aggressione della Corea del Nord comunista alla Corea del Sud, un’aggressione che aveva provocato l’intervento militare degli Stati Uniti.

Non sarebbe stato possibile nascondersi: nell’interesse della libertà occorreva il successo militare degli Stati Uniti e delle nazioni atlantiche, pur nell’auspicio di una soluzione negoziata del conflitto, quale poi si ebbe nel 1953.

In questo dunque Saragat aveva visto giusto, anche se Silone aveva interpretato più a lungo la tradizione socialista. Del resto i socialisti inglesi e francesi avevano aderito, ancora prima di Saragat, alla realtà atlantica; si opposero invece più a lungo i socialdemocratici tedeschi. Non a caso. L’Italia e la Germania erano i paesi che avevano sofferto più profondamente delle passate alleanze militari.

In conclusione voi prospettavate un’alternativa politica di alleanza tra la sinistra dossettiana della Dc e le forze socialiste e laiche, per un programma di riforme fondato in un primo tempo sul neutralismo in politica estera. Ma Silone aveva anche un ideale europeista che si ritrova nei documenti della Uil. Questo ideale rappresentava che cosa, forse una nuova frontiera possibile dopo il crollo del mito dell’internazionalismo socialista?

Sicuramente: Silone aderì all’idea dell’Europa federale e unita penso subito dopo la sua uscita dal partito comunista. Quell’idea era sostenuta da Brion in Francia, e per l’Italia da Carlo Sforza e da Carlo Rosselli. Certo, se l’Europa occidentale – visto che quella orientale era comunista – avesse avuto governi tutti socialisti, si sarebbe potuto parlare di Stati Uniti socialisti d’Europa. Ma Silone, come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni (poi assassinato dai nazisti nel 1944) aveva percepito che un’Europa unita era possibile solo con l’aiuto degli Stati Uniti, altrimenti sarebbe stata alla mercè dell’Unione Sovietica. Questo implicava un’Europa Unita non socialista, ma democratica, indipendentemente dalla soluzione del problema sociale. Spinelli, del resto, pur di provenienza comunista, fu uno dei primi, con La Malfa, a mettere in dubbio l’attualità delle nazionalizzazioni in un’economia internazionale aperta, qual è quella inaugurata dal Piano Marshall.

Nel sindacato c’erano già stati i primi contraccolpi della situazione politica del Paese. Quale era l’atteggiamento dei gruppi di cui Silone era il principale punto di riferimento?

Silone fu l’uomo che spinse di più per dare una casa politica a tutti i socialisti democratici. Ma l’unificazione con il Psli avvenne soltanto qualche anno dopo, una volta superate le diffidenze di Saragat il quale però ammise poi che le sue prevenzioni, in particolare nei confronti di Romita, erano ingiustificate… Quanto al sindacato, già al momento della scissione della Cgil ad opera dei sindacalisti cattolici, sia Silone, sia Saragat erano convinti che non si potesse far finta che non era avvenuto nulla. Essi davano ragione a Pastore, visto che la Cgil aveva dimostrato di essere scaduta a strumento del Pci. Si criticava anche in questo campo la subalternità del Psi, tanto è vero che poi i socialdemocratici fondarono la Fil, insieme ai repubblicani. Inoltre tra di noi, nella sinistra democratica e anche nel gruppo che come Silone era uscito dal Psi ma non era confluito nel Psli, erano ancor vivi i ricordi delle discussioni e delle idee di Bruno Pierleoni in tema di sindacalismo democratico.

Bruno Pierleoni era un sindacalista che nel 1920, con il fratello Renato, aveva partecipato all’occupazione delle fabbriche. L’inconcludenza sia della direzione massimalista, sia di quella riformista del movimento, li aveva spinti ad aderire al partito comunista, d’accordo con le idee di Gramsci. Ma quando si resero conto che lo stalinismo aveva sopraffatto lo stesso Gramsci – e se ne resero conto ancor prima di questi – furono tra i fondatori di Giustizia e Libertà. Già nel 1926 erano riparati in Francia per sfuggire ai fascisti. Io li conobbi a Parigi; poi fuggimmo insieme in Messico, per sottrarci, nel 1940, alla invasione nazista, e tornammo in Italia nel 1943 per partecipare alla Resistenza.

Bruno Pierleoni rimase a Napoli, dove tentò di costituire una confederazione del lavoro aperta a tutti e non egemonizzata dai comunisti. Aveva al fianco un ex bordighiano, Enrico Russo, e due ex azionisti, Armino e Dino Gentili. Naturalmente il tentativo fu fatto naufragare dai comunisti… Bruno era uno di quei militanti operai autodidatti di cui è ricca la storia del movimento operaio internazionale, dalle origini fino al 1945. Bruno Buozzi e Di Vittorio lo erano anch’essi; e così avveniva in Germania, in Francia, in Inghilterra, Stati Uniti…

Quale modello di sindacato e di azione sindacale si discutevano nel vostro gruppo?

Fu in Messico che con Bruno Pierleoni leggemmo le opere di Keynes e avemmo modo di studiare e discutere del New Deal, che fu la politica economica di Roosevelt negli Stati Uniti. Per noi fu una scoperta rivelatrice, fu lì che maturammo le idee che poi, dopo la Liberazione, constatammo essere patrimonio comune di tanti esponenti della sinistra democratica e non comunista. Per esempio di La Malfa, Riccardo Lombardi, Saragat, Tremelloni, Dossetti; e anche di economisti come Francesco Vito e Federico Caffè, allora professori all’Università Cattolica di Milano. Le idee di Keynes divennero perno della politica economica sostenuta dal Partito d’Azione. Noi ne fummo sostenitori anche dopo lo scioglimento, e ne facemmo argomento di iniziativa nei confronti del sindacato.

Proprio per rompere il gelo a sinistra, Riccardo Lombardi, quando era segretario del Partito d’Azione, scrisse nel 1946 una lettera aperta alla Cgil per invitare il sindacato unitario a sostenere una politica economica di sviluppo del Paese, fondata su una rigorosa politica dei redditi. Ricordo che qualche giorno dopo, sconcertato dal silenzio profondo di comunisti e socialisti nel sindacato, Ignazio Silone mi disse che era veramente scandaloso non soltanto che la Cgil non rispondesse, ma anche che tutti i suoi dirigenti l’ignorassero… Riccardo Lombardi portò queste posizioni nel Psi, ma i socialisti non si adeguarono subito alle sue idee. Le condivideva Vittorio Foa, anch’egli proveniente dal Partito d’Azione, ma erano in minoranza nel Psi.

Perché la Cgil non rispose a Riccardo Lombardi?

Perché egli chiedeva la politica dei redditi e l’autonomia del sindacato dai partiti.

Riccardo Lombardi aveva debuttato nella sinistra cattolica, quella di Migliori, il grande capo del movimento contadino cattolico cremonese. Poi Migliori, in esilio, si affiancò ai comunisti, mentre Lombardi andò con Giustizia e Libertà. Aveva quindi la tradizione e la conoscenza di un sindacalismo politico e delle sue difficoltà. Nel movimento sindacale cattolico del primo dopoguerra c’erano infatti sia le spinte verso l’autonomia, sia quelle favorevoli all’allineamento sulle posizioni della Chiesa ed inizialmente del partito popolare. Lombardi era per l’autonomia.

Egli aveva letto molto Gobetti e si professava fautore della sua Rivoluzione Liberale. Era anche uno studioso di economia e quindi capiva la necessità della politica dei redditi. Queste due idee forza – autonomia del sindacato dai partiti e politica dei redditi per il pieno impiego – erano la sostanza della sua lettera aperta, lettera che era diretta purtroppo a una Cgil schierata di fatto su una posizione massimalista, benché Di Vittorio e Togliatti sapessero perfettamente che in Italia mancavano le condizioni per una rivoluzione socialista. Io credo che – se avesse potuto – Di Vittorio avrebbe risposto positivamente alla lettera di Lombardi. Comunque nel 1946 c’erano ancora nella Cgil Pastore e i socialisti, i quali non insistettero certo per una risposta positiva.

Forse temevano il rafforzamento del Partito d’Azione. Un silenzio tattico…

No, il Partito d’Azione era troppo piccolo già nel 1946 perché qualcuno potesse temere… La realtà è che la proposta andava contro corrente, rispetto alle illusioni della sinistra…

Quali illusioni?

L’illusione non della rivoluzione socialista, ma della grande vittoria delle sinistre. Una illusione dura a morire, sulla quale Nenni e tutti gli altri, anche i sindacalisti della Cgil, avevano fatto conto. Che poi era il fondamento stesso del patto d’unità d’azione dei socialisti con il Pci.

La storia non si fa certamente con i “se” o i “ma”. Mi consenta lo stesso la domanda: in caso di risposta positiva della Cgil alla proposta di politica dei redditi e di autonomia, quale scenario politico si sarebbe potuto aprire?

Le conseguenze sarebbero state enormi, in campo politico ed economico. La lotta all’inflazione non sarebbe stata guidata da Luigi Einaudi con le restrizioni monetarie… Quindi De Gasperi non avrebbe dovuto fare concessioni ai liberali, ma al suo stesso compagno di partito Dossetti, della sinistra democristiana. In fondo De Gasperi potè estromettere non solo i comunisti, ma anche i socialisti dal governo perché non c’era alternativa alle misure prospettate da Einaudi. La Cgil rifiutava la politica dei redditi… Se avesse agito altrimenti, non avremmo avuto un governo moderato della economia e della politica, ma uno di sinistra democratica, con Dossetti, e questo avrebbe reso più difficile l’allineamento del Psi su posizioni staliniste… Ma lei ha detto bene, la storia non è fatta di “sé” è invece piena di occasioni perdute.

Voglio solo aggiungere che anche gli americani criticavano le restrizioni monetarie per combattere l’inflazione, nella consapevolezza che avrebbero prodotto disoccupazione; avrebbero preferito che gli aiuti del Piano Marshall fossero accompagnati da una politica dei redditi e di sviluppo che avrebbe potuto assicurare il pieno impiego anche in Italia. Su questa linea erano La Malfa, Tremelloni e Dossetti. Riccardo Lombardi – entrando nel Psi – non tornò più sulle sue idee. Furono invece il perno della battaglia politica di Dossetti nella Dc.

E poi, come conseguenza non certo meno importante, se la Cgil fosse stata sulle posizioni suggerite da Lombardi a nome del Partito d’Azione non ci sarebbero certo state le scissioni sindacali.

Certo nel 1946 tra gli esponenti della sinistra – nei partiti e nel sindacato – c’era una cultura ben diversa, rispetto alla politica dei redditi e al principio dell’autonomia del sindacato dal quadro politico. Sussisteva comunque qualche possibilità di dialogo con gli esponenti della Cgil?

Con Di Vittorio si poteva parlarne, ma solo parlarne, perché poi i fatti erano ben diversi. Soltanto dopo Palazzo Barberini e nel rigoglio della lotta autonomistica condotta da coloro che erano rimasti nel Psi cominciarono gli atti concreti. Renato Pierleoni venne da me con Italo Viglianesi, e cominciarono gli incontri tra noi. Non si può dimenticare certo che comunisti e socialisti sostenevano la priorità della lotta di classe, condotta alla maniera staliniana, con la conseguenza che il sindacato era considerato strumento di lotta serrata al capitalismo. Si mutuava questa politica da Carlo Marx, senza rilevare la contraddizione latente nelle sue opere e nel suo pensiero.

Egli da un verso – nella prefazione al “Capitale” – indicava la necessità di prendere come punto di riferimento l’esperienza del paese più industrializzato, a quel tempo l’Inghilterra, e dall’altro verso pretendeva che i sindacati facessero guerra al capitalismo. Ma già nell’800 l’esperienza inglese – come negli anni posteriori quella americana – erano, all’opposto, la dimostrazione che una politica di sviluppo e di benessere per le classi popolari non si concilia con l’ideologia della guerra di classe. Ecco la contraddizione sulla quale non si voleva discutere, preferendo l’astrattezza ideologica alla realtà delle cose. Una contraddizione che ha paralizzato per lunghi anni anche il partito socialista, con gravi ritardi nell’evoluzione del sindacato.

Senatore queste idee riformiste le ha mai inserite nei documenti ufficiali, durante quel triennio tumultuoso per avvenimenti e sigle politiche che va dalla scomparsa del Partito d’Azione fino alla nascita della Uil?

Era in tutti i nostri scritti. Io stesso, del resto, stesi il documento che servì di base per la costituzione del Psu. Fu Ignazio Silone che mi chiese di prepararlo, alla fine del 1948. Fu una bozza che poi, naturalmente, fu modificata insieme con tutti gli altri.

Volevate un sindacato non antagonista, al di fuori degli schermi della lotta di classe. Che tipo di sindacato?

Non ricordo con esattezza tutti i termini usati nei documenti. Comunque la sostanza era che si riteneva necessario di superare l’esperienza dell’accordo tra partiti – l’esperienza del Patto di Roma per intenderci – dal quale far nascere il sindacato. Il sindacato non doveva cioè essere partitico – quindi neanche un sindacato socialista – pur potendo essere diretto da socialisti. Nessuna cinghia di trasmissione. Sostenevamo una linea di sindacalismo industriale, nell’interesse dei lavoratori e dello sviluppo economico.

In altri termini dicevamo che tutto ciò che serve allo sviluppo economico serve anche al sindacato, mentre quel che nuoce allo sviluppo nuoce al sindacato e ai lavoratori. Solo con lo sviluppo si sarebbe potuto elevare il tenore di vita. A me sembrava allora che l’Italia – come aveva detto Marx – dovesse riferirsi all’esperienza del Paese industrialmente più avanzato, che erano gli Stati Uniti. Quindi ero altresì sostenitore di una repubblica presidenziale sul modello americano e di un sindacalismo industriale di ispirazione americana.

Malgrado il ruolo pesante che i sindacati americani hanno ricoperto nei confronti del sindacalismo democratico europeo del dopoguerra?

Devo dire che non sposavo certamente l’anticomunismo viscerale dei sindacati operai americani, né lo accettavano Silone ed i suoi amici. Mi sembrava esagerata la crociata anticomunista dell’Afl, pur essendo noi tutti degli antistalinisti e dei democratici. Ma ci sembravano invece centrati i modelli organizzativi e di politica sindacale d’oltre Atlantico, in quanto corrispondenti a una politica sindacale sostenitrice dello sviluppo economico. Non c’era più spazio per la vecchia idea di espropriazione del capitalismo. Anche se parecchi sindacalisti americani avevano sperimentato una milizia socialista, essi avevano poi ritenuto che l’ideologia fosse compito dei partiti, mentre il sindacato aveva il compito ben più pragmatico di lottare per il benessere, anche se ottenuto in regime capitalistico.

Quali elementi politici, storici e culturali portavate a sostegno di questa tesi?

Ricordavamo sia l’esperienza sovietica, sia gli avvenimenti politico-economici che avevano portato al nazismo e al fascismo opponendoli in ogni sede e in ogni occasione a una sinistra troppo dominata dal conformismo ideologico marxista e dalla scarsa conoscenza delle esperienze e situazioni in altri Paesi. La crisi del 1929 aveva portato Hitler al potere in Germania, così come Mussolini aveva instaurato la dittatura in Italia in circostanze similari. Le dittature della destra nacquero insomma perché la maggioranza della società aveva rifiutato lo sbocco politico della dittatura del proletariato e della rivoluzione socialista. Certo, fascismo e nazismo avevano eliminato la disoccupazione, ma a prezzo di perdita della libertà e di guerre spaventose.

Dall’altro lato avevano dinanzi l’esperienza sovietica; anche in quel caso la dittatura del proletariato e la rivoluzione avevano prodotto il pieno impiego, ma a prezzo dello stalinismo e di condizioni di vita d’estrema povertà.

In America, invece, era nata la terza via. Con il New Deal, con una politica di sviluppo economico fondata sul consenso operaio, erano stati raggiunti pieno impiego, prosperità e libertà, senza guerre. La scelta non poteva che essere questa, per tutti coloro che non volevano chiudere gli occhi.

Il sindacalismo che nacque su queste idee, il modello base su cui si sviluppò la Uil, rappresentò in questo senso una svolta. Fino ad allora Psi e Pci erano infatti fautori come si sa d’un sindacato di guerra al capitalismo.

Autonomia dei partiti, politica dei redditi: questo il modello di sindacato che proponevate. Era la sola alternativa al sindacato “cinghia di trasmissione”?

C’era anche il modello delle Trade-Unions inglesi, strettamente legate al partito laburista, ma supponeva un partito politico che raccogliesse la stragrande maggioranza dei lavoratori.

Qualcuno che lo sosteneva in Italia?

Esisteva in Inghilterra perché in occasione delle elezioni politiche gli iscritti alle Trade-Unions votavano in blocco per i candidati laburisti. In Italia non era così, si sarebbe verificato soltanto in caso di egemonia totale del Partito comunista, e quindi in circostanze non desiderabili.

Del resto il sindacato è sempre un soggetto politico e quando è autonomo è un soggetto politico autonomo. La sua politica non è una politica di partito, o per lo meno non dovrebbe esserlo perché i partiti sono portatori di ideologie e di interessi particolari, mentre il sindacato dovrebbe non avere ideologie e difendere gli interessi generali della moltitudine dei lavoratori.

Quando nacque, la Uil ebbe questo slogan: “un sindacato democratico nel metodo, socialista nei fini e indipendente nell’azione”.

Io non credevo più, (non ne abbiamo più parlato ma penso che anche Silone fosse d’accordo con me) che il sindacato dovesse avere il socialismo nei fini.

Il socialismo nei fini devono averlo i partiti socialisti; il sindacato deve avere come scopo l’emancipazione dei lavoratori; punto e basta. Anche Marx non voleva un sindacato socialista nei fini, egli vedeva il sindacato come forza autonoma di emancipazione dei lavoratori. Solo che in Marx c’era una contraddizione: e cioè, che mentre da un lato egli era per il sindacato autonomo, per un altro lato lo vedeva come elemento di guerra di classe.

Come a dire che in una fase di pacifica evoluzione Marx era per l’autonomia, ma nel momento della rivoluzione, il sindacato era invece richiamato a prender parte alla lotta globale.

In sostanza affermavate che soltanto nella partecipazione e nello stimolo d’una politica di sviluppo, il sindacato potesse sostanziare il ruolo autonomo…

Certo. Ma a partire dal dopoguerra, nei tempi moderni, in quanto nel passato il suo ruolo politico era stato spinto a esercitarsi nelle lotte per la legislazione sociale.

Gli ambienti economici, le industrie, erano tutti arroccati su posizioni contrapposte alla linea della Cgil, oppure c’erano tendenze diverse?

Naturalmente il capitalismo era diviso. Valletta per esempio voleva un sindacato di dimensioni aziendali.

Rispetto alle vostre tesi di politica dei redditi…

Evidentemente il capitalismo non amava i sindacati, salvo i sindacati aziendali di Valletta, ma avrebbe preferito avere a che fare con Pastore e con Viglianesi anziché con i comunisti e gli altri socialisti della Cgil; non mi pare però che si sia mai sbilanciato. La Confindustria presieduta da Costa trattava con Di Vittorio.

Sì, lo stesso Viglianesi mi ha detto che quando nel ’50 si ritrovarono ad una trattativa con la Confindustria, Pastore non voleva che la Uil fosse presente al tavolo, negandogli rappresentatività. Si accese una discussione animata e Costa rimase zitto. Fu Di Vittorio a tagliar corto affermando: “No, chiunque ha militato nella Cgil ha diritto di sedere accanto alla Cgil”.

Di Vittorio è stato un grande personaggio.

Torniamo al vostro modello di sindacato autonomo, partecipe d’una politica di pieno impiego. Era implicita quindi la crescita al Patto di Roma che diede vita alla Cgil: pensavate che corrispondesse più che altro all’esigenza dei partiti del Cln di assicurare una proiezione dell’unità antifascista, nell’Italia liberata, invece di assicurare un quadro istituzionale valido per le lotte dei lavoratori?

A me pare che quel patto fosse valido. I partiti ed i sindacati, in quel preciso istante, avevano interessi identici: si trattava di ricostruire lo Stato e la democrazia, calpestati da 20 anni di fascismo.

L’unità sindacale era stata un’aspirazione mai realizzata. Prima del fascismo c’erano varie organizzazioni sindacali: socialiste, cattoliche, anarco-sindacaliste, repubblicane.

Fu il fascismo a realizzare l’unità sindacale. Io ricordo che al confino di Polizia, a Ponza, nel 1928, Giuseppe Massarenti, il grande organizzatore sindacale socialista di Molinella ed in generale delle plebi agricole emiliane, ci diceva che lungi dal criticare l’unità sindacale, anche se realizzata dai fascisti, avremmo dovuto invitare i lavoratori a militare nelle organizzazioni sindacali unitarie, per essere poi in grado di prenderne l’eredità dopo il nostro ritorno. Un ritorno nel quale egli sperava, anche senza poter indicare nessuna data alla libertà. Massarenti fu allora criticato da parecchi dei suoi stessi compagni, mentre altri lo difesero. Alla fine, nel 1936, furono i comunisti per primi, proprio con Di Vittorio, in esilio a Parigi, a sostenere che era puerile voler continuare a star fuori dalle organizzazioni sindacali fasciste alle quali aderivano la totalità o quasi dei lavoratori italiani.

Del resto era accaduto che nel 1936-’37, con la vittoria del Fronte Popolare in Francia ed il grande potenziamento della Confederazione Generale del Lavoro Unitaria, 130mila lavoratori italiani emigrati erano entrati in questo sindacato diretto da socialisti e comunisti.

Chissà quanti di questi 130mila avevano in Italia i loro congiunti che invece militavano nei sindacati fascisti, e sempre per lo stesso motivo: c’era un sindacato unitario – quello fascista – in Italia, così come c’era un sindacato unitario in Francia, nato dall’unità tra i sindacalisti socialisti, comunisti e anarchici.

Il sindacato cioè deve tendere all’unità emancipandosi dalla tutela dei partiti. In Francia questa esigenza era molto sentita fin dalla fine dell’800, sulle linee di Proudhon.

Mi pare che non solo Pastore e Buozzi ma anche lo stesso Di Vittorio fossero in quest’ordine di idee. Non si dimentichi che Di Vittorio era di origini sindacaliste rivoluzionarie, e quindi le idee di Proudhon le aveva nel sangue, pur essendo divenuto comunista. Del resto Di Vittorio, come Buozzi, aveva vissuto l’esperienza francese, dove l’autonomia del sindacato dal partito fu sempre rispettata dai socialisti e qualche volta anche dai comunisti, anche per la presenza molto forte degli anarco-sindacalisti nel movimento operaio.

In Italia, poi, altri avvenimenti determinarono le vicende della Cgil. Guerra fredda, patto d’unità d’azione tra Pci e Psi, stalinismo… la Cgil perse ben presto la sua autonomia e questo provocò le scissioni.

Parliamo appunto di queste ultime. Nel giusto sforzo di ricostruire il quadro politico interno e internazionale del tempo, una certa storiografia ha dato l’impressione che la scissione di Pastore fosse stata quasi subìta dal movimento operaio, in quanto imposta dagli Stati Uniti e dal Vaticano. È andata proprio così?

No, la scissione si sarebbe fatta ugualmente, perché Pastore era egli stesso un ex lavoratore manuale e conosceva i veri bisogni dei lavoratori; sapeva che una direzione staliniana avrebbe portato il movimento operaio fuori strada.

Di Vittorio era anch’egli un ex operaio, un autentico capo sindacale. Ma quando propose qualche tempo dopo un “Piano del Lavoro”, un piano di piena occupazione, e riuscì anche a convocare un convegno di studiosi su questo argomento, fu bloccato da Togliatti e dal suo stesso partito.

Con il suo passato, egli non poteva certo ribellarsi a Togliatti e a Stalin. Ma Pastore sì, era inevitabile, con il suo spirito di indipendenza, che lo facesse; naturalmente, una volta decisa la costituzione della LCgil, non poteva non accettare gli aiuti americani e del mondo cattolico. Perciò la scissione della Cisl era endogena ed esogena nello stesso tempo.

Ma la Lcgil nasceva su basi opposte anch’essa rispetto alle idee dei socialisti democratici. Nasceva con l’ipoteca d’una esigenza e d’una volontà di fiancheggiamento del Governo e della Democrazia Cristiana, addirittura con una matrice integralista cattolica.

Noi davamo per acquisito che Pastore dovesse fare la scissione, e che non potesse rinunciare agli aiuti non tanto della Democrazia Cristiana, ma del mondo cattolico; perché non erano attivi e operanti solo la Dc, ma tutto il Clero.

Come avrebbe potuto portar fuori dalla Cgil i militanti sindacalisti cattolici senza l’aiuto della Chiesa, oltre che della Democrazia Cristiana? Certo, è vero che il risultato non era quello che noi desideravamo; quindi tenevamo in considerazione le necessità di Pastore, pur volendo noi una cosa diversa. E poi egli non era contrario alle nostre idee, ma la realtà del suo ambiente era quella che era. L’evoluzione c’è stata, e in seguito lo abbiamo visto, con le politiche della Cisl.

Lei ha detto che sia Silone, sia Saragat e Romita erano convinti che la sinistra non potesse rimanere indifferente dinanzi alla rottura dell’unità della Cgil. Che cosa secondo voi avrebbero dovuto fare i sindacalisti socialisti o non comunisti: uscire dalla Cgil e seguire Pastore, oppure dar vita a una terza organizzazione?

Dovevamo fare quello che hanno fatto con la Uil.

Cioè un sindacato autonomo, una terza forza?

Certamente, anche per esercitare una funzione di raccordo, evitando così l’aggravarsi di una spaccatura del mondo del lavoro in due organizzazioni contrapposte. I danni sarebbero stati altrimenti gravissimi…

Del resto il primo atto della Uil, a pochissimi giorni dalla fondazione, fu l’invio d’una lettera per invitare Cgil e Cisl a un incontro finalizzato all’esame d’un programma d’unità d’azione. Quali furono le reazioni alla nascita di questa terza organizzazione? Fu sentita come una reazione meccanica al disfacimento dell’unità sindacale, o si pensò anche a un passo significativo in direzione delle idee che sostenevate?

Direi che, su vasta scala, fu purtroppo sentita come una conseguenza meccanica, e questo rese difficile lo sviluppo della Uil. Soltanto i dirigenti ed i militanti sapevano che era in ballo qualcosa di molto diverso.

Torniamo al clima sociale del tempo. C’erano stati già molti scioperi, quale reazione avevano prodotto nell’opinione pubblica?

Inizialmente mettevano paura, poi davano invece fastidio, come lo danno oggi. Io credo anzi che il sindacato dovrebbe rinunciare agli scioperi generali. Li ritengo un mezzo di lotta antiquato. Erano un’arma sacrosanta in presenza di governi che ottenevano la stabilità a spese del tenore di vita dei lavoratori, con forti strette monetarie. lo sciopero fu perciò l’arma vittoriosa dei sindacati fin quando non cominciarono ad essere sostenute e accettate dai governi le politiche alternative che fondavano la stabilità e lo sviluppo sul consenso dei lavoratori. Poi sono divenuti anacronistici, riescono soltanto a mettere il ceto medio contro i salariati, e quindi indeboliscono la posizione del mondo del lavoro.

Ma su questo punto vorrei dire ancora qualcosa a proposito degli obiettivi del sindacato. Mentre si è accettata la realtà del mercato libero, rinunciando alle nazionalizzazioni, tarda purtroppo una presa di coscienza veramente tale e pregna di conseguenze sulla necessità e sulla priorità della stabilità monetaria.

Il pieno impiego, se raggiunto con l’inflazione, non dura a lungo: il vero e durevole pieno impiego suppone la stabilità monetaria. Qui non c’entra il keynesismo. La ricerca della stabilità non era importante quando Keynes scriveva le sue opere nel 1930. Si era infatti verificata una tale caduta dei prezzi di tutte le merci, che il successivo loro aumento, ottenuto con spese pubbliche, con disavanzi dello Stato ed anche con svalutazioni monetarie, poteva fare più bene che male. Oggi prezzi troppo bassi creano crolli dei redditi e quindi disoccupazione, ma prezzi troppo alti significano inflazione, reintroducono, per altra via, la disoccupazione, ed indeboliscono la capacità di acquisto degli stessi salariati, dei pensionati e dei minuti risparmiatori, fra i quali ultimi si annoverano moltitudini di lavoratori che posseggono pochi milioni, ma per essi fondamentali, di titoli pubblici.

Le politiche dei redditi vanno ricontrattate di tempo in tempo, soprattutto in Italia dove sussistono problemi come la disoccupazione, e il Mezzogiorno. E poi lo sciopero è storicamente considerato un’arma fondamentale a disposizione dei lavoratori. Ogni vertenza sindacale è in fin dei conti anche uno stimolo fisiologico al sistema, all’evoluzione, all’innovazione.

Certo, gli scioperi vanno fatti in caso di necessità, ma non dimentichiamo che oggi possono essere sostituiti con altre forme di pressione sui pubblici poteri e sul padronato. Esaminato il problema in chiave storica, dobbiamo ricordarci che fu Marx a sostenere l’utilità degli scioperi, ed aveva ragione, in quanto prendeva a riferimento la situazione dell’Inghilterra di allora, dove non c’era altro mezzo per migliorare le condizioni dei lavoratori. Il sindacato si ritrovava solo e solitario nelle sue lotte; né affiorava la possibilità di creare un partito politico come quello che Lassalle aveva in Germania, perché gli operai votavano ancora liberale o addirittura conservatore. Infine non c’era neanche il clima rivoluzionario esistente in Francia, da cui prendeva le mosse un sindacalismo rivoluzionario. I sindacalisti inglesi, molto moderati in politica, con gli scioperi ottenevano però aumenti di salario che non si ripercuotevano sui prezzi. Marx questo lo vide per primo e manifestando così fu la sua genialità. A quel tempo infatti la grande massa dei disoccupati e l’attivo della bilancia dei pagamenti inglese, con gli investimenti nelle colonie, frenavano l’aumento dei prezzi e quindi si potevano ottenere aumenti di salario senza ripercussioni sul costo della vita.

E fu grazie agli scioperi che il marxismo diventò la componente principale del movimento operaio (malgrado Lassalle, Proudhon e Mazzini) e dei movimenti socialisti in Germania, Francia ed in Italia.

Tutto questo era vero fino al primo dopoguerra: è da allora che comincia la contraddizione fra scioperi e stabilità dei prezzi. Vengono a mancare le condizioni precedenti, che erano poi date dagli attivi delle bilance dei pagamenti e dei bilanci statali nei paesi più avanzati.

Lo si vide in Germania nel 1923: gli scioperi erano vittoriosi ma non servivano a nulla, perché l’inflazione fagocitava tutte le conquiste sindacali. Alla fine dell’ondata inflattiva del 1923 i salari erano scesi, sia pure di poco, ed i sindacati dovettero addirittura rinunciare alle otto ore di lavoro, massima conquista del movimento operaio, per tornare alle nove ore. Malgrado le rinunce non si riuscì ugualmente ad evitare la crisi e la disoccupazione di massa che con gli anni diedero il potere ad Hitler.

Lo sciopero quindi stava diventando controproducente già fra le due guerre mondiali, anche se ancora non dappertutto: per esempio in Francia, nel 1936, gli scioperi furono tutti remunerativi e vittoriosi perché c’era stata una deflazione monetaria che aveva provocato una disoccupazione artificiosa.

Dal secondo dopoguerra, però, con le politiche di pieno impiego e quindi con la scomparsa della disoccupazione di massa, si pone il pericolo che scioperi e improvvise crescite salariali facciano di nuovo aumentare i prezzi, rinfiammando l’inflazione.

Certi tipi di agitazione diventano perciò anacronistiche e con esse il marxismo. Oggi non è più lo sciopero, ma la produttività del lavoro, la programmazione, la stabilità monetaria, che fanno alzare il tenore di vita dei lavoratori, e fanno avvicinare al pieno impiego.

Un esempio viene dagli Stati Uniti: i sindacati americani, senza essere mai stati marxisti, erano antagonisti e fautori di scioperi ancora all’epoca di Roosevelt. Non lo sono più oggi, ricorrono eccezionalmente alle astensioni dal lavoro. Però quando le fanno, le fanno bene.

A suo avviso il sindacato dovrebbe insomma percorrere altre vie non conflittuali per la soluzione delle vertenze d’ogni tipo. È del resto un ripensamento che oggi sta facendo un po’ tutta la sinistra. Si parla di arbitrati, di periodi di raffreddamento delle vertenze, per i servizi pubblici ci sono procedure precise… Lei senatore ipotizza anche uno sviluppo delle forme di partecipazione e di democrazia economica – cogestione, codeterminazione e altro – che sono nelle esperienze dei socialismi e dei sindacalismi europei?

Certo e poi c’è il Parlamento… dove pure operano i partiti della sinistra. Ai tempi di Marx nessun governo puntava a ottenere il consenso e la collaborazione dei lavoratori e nessun economista credeva al pieno impiego.

La disoccupazione di massa era considerata come un dato ineliminabile nei periodi di crisi. Il pieno impiego si registrava nei periodi di alta congiuntura, e poi la gente riprecipitava nelle strade. Marx ragionava su termini che oggi non si realizzano così brutalmente. Tornano perciò di attualità le idee di Lassalle, di Mazzini e di Proudhon. Proudhon diceva che la capacità politica della classe operaia, organizzata sindacalmente, è l’elemento che promuove le conquiste dei lavoratori, intendendo che i sindacati devono avere una politica economica e una forte capacità di pressione.

Parlare e richiamare le idee di Proudhon – ancora pochi anni fa – faceva digrignare i denti a una sinistra che vedeva soltanto le matrici marxiane.

Certamente. Craxi aveva perfettamente ragione a richiamarsi a Proudhon economista. Naturalmente non tutte le idee di Proudhon sono accettabili, per esempio Proudhon era contrario all’unità italiana perché pensava che l’epoca dei nazionalismi fosse finita e si dovesse puntare direttamente alla federazione europea senza creare nuove piccole nazioni.

In questo quadro l’unità italiana era per lui un contributo alla balcanizzazione dell’Europa, anziché all’unità europea. Sbagliava, ma sulla questione economica era nel giusto.

Insomma Marx aveva ragione nell’immediato, Proudhon era più presbite. Eppure Marx era un intellettuale, mentre Proudhon era un operaio autodidatta che però vedeva meglio nel futuro dello sviluppo dell’economia.

Ma per quale motivo? Perché Marx era più attento alla politica, ed il politico deve guardare all’immediato, al contingente. Proudhon si considerava invece fuori dalla politica, benché una volta abbia avuto un grande successo quando, dopo la rivoluzione del 1848, a Parigi fu eletto con voto quasi plebiscitario all’assemblea nazionale. Lo doveva alla celebrità acquistata con il suo opuscolo “Che cos’è la proprietà? È un furto”, nel quale poi spiegava di non considerarla tale, ma di voler denunciare il fatto che il lavoratore è defraudato.

Pur con questa partecipazione occasionale all’Assemblea Nazionale, si mantenne sempre indipendente dalla politica. Ecco perché era più presbite, vedeva cioè il futuro, mentre Marx – che cercava di influire sulla politica – vedeva al contrario l’immediato, il contingente. E così Marx ebbe ragione allora, mentre Proudhon precorreva i tempi.

Oggi la Uil propone una rifondazione del sindacato puntando alla difesa anche del lavoratore nella società; propone il cosiddetto Sindacato dei Cittadini, il sindacato che tutela il consumatore, l’emarginato, l’utente.

Sacrosanto. Proprio per questo deve servirsi il meno frequentemente possibile dell’arma dello sciopero.

L’utente oggi è chi viaggia, chi va in ospedale, chi va agli sportelli degli uffici pubblici; questa è la maggioranza dei cittadini… D’altra parte se si fanno gli scioperi generali, se si esaltano quelli nelle aziende private, come impedire ai dipendenti dei servizi pubblici di scioperare? E il cittadino si sente sempre più indifeso davanti all’inefficienza dello Stato e anche davanti ai lavoratori in sciopero. Gli utenti sono anch’essi dei lavoratori, per cui le divisioni spaccano anche il movimento sindacale.

Il sindacato dei cittadini è un’idea geniale, salutare, giusta. Ne va dato atto alla Uil. Ma bisogna che, nel costruirlo, il sindacato si ponga il problema di ricorrere il meno possibile agli scioperi. Ci sono altre vie che la storia, ma anche l’intelligenza della sinistra, hanno fatto sperimentare.