GIACOMO MATTEOTTI E BRUNO BUOZZI: L’AUTENTICO RIFORMISMO SOCIALISTA E SINDACALE

 

 

di  Silvano Veronese – Vice presidente Socialismo XXI già  Segretario Confederale della U.I.L.|

 

Ricordare oggi i martiri e gli eroici sacrifici di Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi, trucidati il primo il 10 giugno 1924 per mano della marmaglia fascista, andata al potere tramite un golpe con la connivenza dell’allora monarca, ed il secondo fucilato il 6 giugno 1944, mentre iniziava la liberazione di Roma, dall’invasore nazista e dai suoi complici fascisti italiani, non significa soltanto onorare la memoria di due grandi democratici, antifascisti e socialisti, ma è anche il modo migliore per collegare la vita ed il pensiero autenticamente riformista dei due martiri alla nascita della U.i.l. CHE CELEBRA  il 70° (+ 1) anniversario della sua nascita.

Questo collegamento non è un atto arbitrario, anzi, è un atto di riparazione di un errato luogo comune riguardante la  storia sindacale e del socialismo del nostro Paese.

La nascita della UIL (come d’altronde quella della CISL),  anche se avvenuta nel 1950,  ha infatti radici  ben più profonde rispetto ai fatti politici che la provocarono all’epoca. Per quanto ci riguarda esse affondano nel patrimonio culturale ed ideologico del socialismo riformista e del “socialismo” risorgimentale mazziniano delle S.M.S. ai quali la UIL si è sempre ispirata fin dal suo sorgere.

Non è casuale, allora, che la UIL, in occasione e nella sede del suo XVI° Congresso Nazionale tenutosi a Roma nel 2014, volle dedicare una sala per esporre un’importante mostra documentaria su Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi, così come oggi è allestita a cura della UIL veneta nella Casa-Museo a Fratta Polesine un’altra mostra per affermare che – unitamente ad altri importanti esponenti di un lontano passato anche di altre credenze ideologiche ma contigue – i due grandi dirigenti del socialismo riformista rappresentano il Pantheon della UIL, non solo per la testimonianza della loro opera e del loro sacrificio, ma per i valori e l’ideologia da essi professati, che costituiscono, grazie al loro esempio, l’identità ed il modo di essere della Unione Italiana del Lavoro.

Giacomo Matteotti ed il riformismo in anni difficili

Giacomo Matteotti, quando fu rapito e poi brutalmente ucciso da una squadraccia fascista, era Segretario nazionale del PSU di Turati, Treves, Modigliani, Buozzi ed altri, tra cui i sindacalisti Rinaldo Rigola, Ludovico D’Aragona ed Arturo Chiari che ventisei anni dopo i primi due favorirono ed il terzo partecipo’ da protagonista alla fondazione della UIL.

Il PSU era stato costituito nel 1922, dopo che la corrente minoritaria comunista del PSI facente capo a Bordiga, Gramsci, Terracini e Togliatti, su ordine di Lenin, aveva deciso a Livorno la scissione fondando il PCdI, mentre la maggioranza massimalista del PSI, guidata da Menotti Serrati, aveva disposto nel contempo “per pareggiare i conti”  l’espulsione dei riformisti dal partito.

Giacomo Matteotti venne eletto Segretario del PSU, su proposta di Modigliani, perché considerato uno dei dirigenti più autorevoli, colto e molto preparato in materia economica e sociale. Non sempre era in sintonia con l’atteggiamento un po’ “morbido di Turati” e dei turatiani, soprattutto con l’avanzare della tragica esperienza fascista, e parimenti fu sempre molto dura e continua la sua polemica e la sua opposizione ai massimalisti di Menotti Serrati.

A quest’ultimi rimproverava il sogno sterile di una rivoluzione socialista irrealizzabile, sia come fine che come mezzo, mentre ai turatiani ammoniva di concepire la via delle riforme (cioè la costruzione, sia pure graduale, di una società socialista) come fine anziché come mezzo. Un mezzo che – per Matteotti – andava riempito di contenuti concreti rivendicativi per elevare la condizione economica e sociale dei lavoratori, i loro diritti e la loro dignità di cittadini.

Fin dai tempi del suo impegno politico e sociale a livello territoriale nel poverissimo Polesine, Giacomo Matteotti aveva indicato la via del “primato delle organizzazioni sindacali di classe” sulle sovrastrutture partitiche (nel suo caso il PSI), le quali con la loro lotta contrattuale potevano mettere in discussione gli equilibri di reddito e di potere determinati dalla borghesia industriale e finanziaria del tempo. Alle leghe, alla cui costituzione nel Polesine aveva dato un grosso contributo, e alle OO.SS. affidava il compito di promuovere il progresso e l’avanzamento sociale, mentre al partito il ruolo di dare a queste lotte sindacali uno sbocco politico ed un indirizzo verso la costruzione di una società socialista.

Un riformismo quindi molto forte, radicale si direbbe oggi, e per niente moderato e rinunciatario come i massimalisti del PSI ed i comunisti di Gramsci e Togliatti gli rimproveravano.

Il suo impegno fu sempre ispirato al binomio pensiero/azione, ovvero la ricerca di strumenti e metodi adeguati, ma molto concreti per poter conquistare, a favore delle classi più umili, benefici reali e duraturi. Rifuggiva invece da orizzonti astratti e dal disegno rivoluzionario perseguito prima dagli anarco-insurrezionalisti e poi dalle frazioni massimalista e comunista dell’allora PSI.

Giacomo Matteotti, pur dotato di una profonda cultura, non era per sua scelta metodologica né un ideologo né un dottrinario: il suo impegno politico consisteva nell’andare al cuore dei problemi sociali ed economici per affrontarli con proposte concrete e per arrivare a risultati certi, possibilmente rapidi e misurabili con la gente. Era un progetto politico che, vari anni dopo, Riccardo Lombardi avrebbe chiamato “le riforme di struttura”.

Non ho tempo da perdere in dispute teoriche o filosofiche, devo impegnarmi nella valutazione dei bilanci degli EE.LL. e dello Stato, esaminare gli atti di chi ci mal governa ed il merito delle loro nefandezze”, era uso ad affermare coi collaboratori ed i seguaci, mentre gli avversari interni – che nel PSI erano in maggioranza – si attardavano nella retorica protestataria e demagogica volta a “predicare la rivoluzione” sull’esempio russo.

Se rapportato a ciò che assistiamo in questi ultimi anni di sfrenato populismo, possiamo ben dire che l’immagine ed il pensiero  del grande esponente socialista sono di una formidabile attualità.

Anche nella lotta al fascismo montante la sua opposizione non fu solo una contestazione ideologica contro una svolta dittatoriale e socialmente reazionaria del quadro politico di allora, ma anche un’incessante, dura e concreta azione di denuncia del malgoverno, dei brogli e del malaffare perpetrato dagli uomini del fascismo al potere, accompagnata da una  radicale contestazione ad una parte dello stesso PSU propensa a trovare un modus vivendi con la frangia moderata del fascismo.

Il suo impegno si svolse in più direzioni, dall’attività sociale ad incarichi amministrativi locali nel suo Polesine (fu anche Sindaco a Villabalzana), dai mandati parlamentari (il primo fu l’elezione a deputato nel collegio Ferrara-Rovigo) agli incarichi politici a livello nazionale dove era considerato uno dei più preparati giovani dirigenti socialisti.

Il legame di Matteotti con il movimento organizzato dei lavoratori, con le Leghe bracciantili e contadine del Polesine  e le Camere del Lavoro, fu profondo. Quando sorsero le prime federazioni “di mestiere”, come erano chiamate allora, ammoniva i responsabili delle OO.SS. di rifuggire dagli egoismi delle categorie, esortandoli ad avere una visione globale ed alta dei problemi di classe e dei bisogni operai, di essere pronti al confronto con le controparti, ma di tenere con esse  un rapporto di  rigore assoluto ed affatto compiacente. Riteneva che il riformismo dovesse partire da queste lotte, che permettevano di inserire gradualmente le masse popolari nello Stato (dal quale ne erano escluse o ai margini estremi) senza però rinunciare ad un forte impegno per realizzare una società socialista, cioè più socialmente giusta e più democratica.

Per questo Matteotti si trovava – all’interno della corrente riformista prima e del P.S.U. poi – in sintonia con Bruno Buozzi, suo amico e suo grande sostenitore, a differenza del fiorentino Gino Baldesi, segretario aggiunto della Confederazione sindacale, con il quale ebbe momenti di scontro, leader della “destra” della stessa Confederazione sindacale e del Partito, il quale assieme ad altri sindacalisti riformisti pensava di poter trovare un accordo con Mussolini e coi sindacati fascisti, nella speranza di salvaguardare le conquiste acquisite che venivano messe in discussione dagli agrari e da alcuni settori del padronato, i quali  avevano invece impresso una svolta reazionaria al fascismo giunto al potere.

Ci sarebbe da dire molto sulla vita e l’opera del grande martire socialista di cui esiste una copiosa bibliografia ed una grande iconografia, ma non possiamo concludere questo nostro ricordo senza parlare del barbaro assassinio ad opera di una squadraccia fascista di violenti arditi, mossi da personaggi di primo piano vicini a Mussolini, come il suo portavoce Cesare Rossi, il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi, il tesoriere del fascio Giovanni Marinelli ed il direttore del Corriere Italiano Filipelli che mise a disposizione un’autovettura per il rapimento.

Sarebbe sbagliato pensare che il motivo di questo orrendo delitto sia stato solo quello che la storiografia corrente ci tramanda e cioè la denuncia che Giacomo Matteotti fece in Parlamento sui brogli elettorali e le violenze praticate dalle squadracce contro i candidati e gli elettori di provata fede socialista, denuncia accompagnata da una richiesta di invalidazione dei risultati e della proclamazione degli eletti con il debordante listone fascista ed i suoi alleati.

Certo fu un atto che irritò furiosamente Mussolini, ma la questione di massimo pericolo per il fascio fu soprattutto un’altra: l’accusa che il Governo aveva preparato un bilancio dello Stato falso, accusa che il compagno Matteotti spiego’ in sede di Giunta parlamentare per il Bilancio, dopo che il Re aveva già pronunciato un rassicurante discorso della Corona per l’inaugurazione della  legislatura sulla scorta delle indicazioni fornitegli dal Governo stesso.

In tale discorso la Corona aveva indicato che il bilancio dello Stato era in pareggio, mentre in realtà, come Matteotti successivamente in sede di Giunta delucidò, vi era un passivo di ben due miliardi di lire, all’epoca una cifra enorme !! Oltre ad altri imbrogli.

Nel discorso che, di lì a qualche giorno, Matteotti aveva promesso di pronunciare in sede plenaria alla Camera dei Deputati vi erano anche le prove della corruzione di politici vicini a Mussolini, prima ricordati, che avevano brigato con i Ministeri economici per permettere alla compagnia petrolifera americana Sinclair di ottenere l’esclusiva sulle ricerche della materia prima nel sottosuolo italiano e l’eventuale suo sfruttamento.

Brogli, falso in bilancio e corruzione, tutte accuse provate con fatti e documenti che, se resi pubblici nell’autorevole sede parlamentare, avrebbero travolto il Governo e forse anche personaggi vicini alla Corona implicati negli scandali. Per il fascismo bisognava mettere a tacere il Segretario del P.S.U. e così fu, tanto che la borsa che Matteotti portava con sé al momento del rapimento, e che conteneva la documentazione per il suo discorso di denuncia, non fu più trovata.

La sua uccisione suscitò una grande ondata emotiva anche perché Giacomo Matteotti era molto popolare per il suo rigore, per la sua intransigenza nell’opposizione al Fascio e per le sue denunce sui malaffari e le corruzioni  del fascismo al potere. Purtroppo, la debolezza dei partiti democratici e socialisti, la loro divisione e le loro contraddizioni permisero al fascismo e a Mussolini di uscirne indenni, anzi, fu l’occasione, per il futuro Duce, per dare una svolta autoritaria al Governo ed iniziare un regime dittatoriale con la complicità della Corona.

Bruno Buozzi, altissima caratura sindacale nello sconquasso del Paese

Abbiamo ricordato prima il legame, anche personale, che univa il Segretario del PSU Giacomo Matteotti al leader sindacale Bruno Buozzi, già Segretario generale della FIOM e successivamente della Confederazione Generale del Lavoro quando sostituì D’Aragona, nel 1925, all’epoca dell’inizio della fase dittatoriale.

Giova ricordare che questa Confederazione sindacale, fondata nel 1906, non aveva le caratteristiche né unitarie né politiche della CGIL sorta nel 1944 ad opera del CLN dopo la caduta del fascismo, e quindi appare un atto del tutto arbitraria la celebrazione della ricorrenza fondativa da parte dell’attuale Confederazione di Corso d’Italia svolta qualche anno fa.

La CGdL, come pure la FIOM (federazione dei metalllurgici), aveva infatti una presenza largamente maggioritaria della corrente riformista (e dei militanti e degli iscritti al PSU quando fu fondata), mentre i massimalisti – pur in maggioranza nel PSI – erano in minoranza nel sindacato, così come fu largamente in minoranza anni dopo la fazione comunista.

A differenza della CGIL del 1944 totalmente unitaria, nel 1912 la Confederazione subì una scissione da parte degli anarco-rivoluzionari, i quali dettero vita all’USI, mentre nel 1918 i cattolici fondarono la CIL, quasi esclusivamente presente nel mondo agricolo e contadino. I militanti e lavoratori d’ispirazione anarco-repubblicana e risorgimentale, invece, nel 1918 costituirono la UIL, le cui caratteristiche non sono similari all’attuale Confederazione di Via Lucullo sorta nel 1950.

Questo è il quadro sindacale nel quale operò Bruno Buozzi come massimo esponente della più importante organizzazione sindacale dell’epoca, la cui identità però era socialista, a grande maggioranza  riformista: essa politicamente appare, trasferita nella realtà odierna, piu’ simile alla UIL che alla CGIL.

Non a caso, alla nascita della UIL il 5 marzo 1950, vi erano  tra i fondatori e i sostenitori Arturo Chiari, unitamente ad altri sindacalisti, che con Buozzi avevano collaborato in piena sintonia politica e vicinanza nel sindacato negli anni ’20 ed  anche durante la Resistenza per costruire la nuova CGIL unitaria.

Pure di  Bruno Buozzi, sindacalista socialista e riformista, vi sono parecchie biografie, alcune con particolari inediti che meriterebbero di essere approfonditi, ma non è questa la sede ed il tempo. Per quanto ci concerne – come nel caso di Matteotti – meriterebbe di essere studiata la modernità del suo pensiero, rivelatosi ampiamente corretto anche a distanza di molti anni dalla sua scomparsa. 

Di grande interesse giova ricordare le idee di Bruno Buozzi sull’autonomia del sindacato rispetto alle forze politiche ed ai poteri istituzionali, sulla partecipazione dei lavoratori alle decisioni sui processi produttivi e sulle scelte aziendali, oppure sul riconoscimento per legge dei sindacati maggiormente rappresentativi e dei patti da loro contrattati. Se si pensa che i primi accordi contrattuali sui diritti d’informazione e di consultazione dei lavoratori sono stati conquistati dai metalmeccanici soltanto nel 1973, più di sessant’anni anni dopo le enunciazioni di Buozzi, si può ben dire come fosse all’avanguardia il suo pensiero socialista riformista rispetto ai massimalismi di altre correnti, come anche in confronto al pensiero sociale cattolico permeato in quegli anni lontani dall’interclassismo collaborativo.

Discepolo di Filippo Turati, stretto compagno di Giacomo Matteotti, Treves e Modigliani, con loro era un riferimento per la corrente riformista allora in minoranza nel partito socialista, dove dominavano, come già ricordato, i massimalisti di Giacinto Menotti Serrati e dove operava anche la piccola minoranza dei comunisti di Bordiga, Gramsci, Terracini e Togliatti.

Operaio metalmeccanico fin dalla giovane età, divenne nel 1911 Segretario Generale della FIOM, e poi Segretario Generale della Confederazione Generale del Lavoro all’affermarsi nel 1925 del regime dittatoriale fascista, così nel corso dell’esilio di Parigi dove si rifugiò per salvare la sua incolumità dalle ripetute aggressioni subite a Torino e in ragione delle leggi speciali decise dal dittatore che fece decadere tutti i deputati – fra cui lo stesso Buozzi – che si erano raccolti nell’Aventino.

Nella Francia occupata dai nazisti fu arrestato (al carcere di La Santé trovò Giuseppe Di Vittorio) ed inviato prima in Germania e poi in Italia su richiesta di Mussolini, che lo spedì al confino a Montefalco in Umbria, dove fu liberato il 25 luglio del 1943 quando venne nominato dal Governo Badoglio commissario liquidatore degli ex sindacati corporativi fascisti dell’industria.

Dopo l’8 settembre, nella Roma occupata dai tedeschi, nella quale combattè agli ordini di Sandro Pertini a Porta San Paolo nell’eroica difesa della capitale in seguito alla fuga del Re, fu il promotore di quella serie di contatti ed incontri con gli esponenti politici e sindacali cattolici e comunisti (Di Vittorio, Roveda, Grandi, Gronchi, ecc.) che portarono alla firma del Patto di Roma, il quale diede vita all’esperimento di unità sindacale voluto dal C.L.N.  e che durò quattro anni.

Bruno Buozzi fu arrestato ed assassinato dai nazisti in località La Storta, a Roma, insieme ad altri tredici antifascisti, il 4 giugno 1944, il giorno stesso della liberazione della Capitale, dopo essere stato per quasi due mesi nella famigerata prigione-tortura nazista di Via Tasso.

Solo qualche coraggioso libro sul sindacalista socialista ha rivelato le circostanze inquietanti del misterioso arresto di Buozzi, il quale viveva in clandestinità, sotto il falso nome dell’ingegnere Mario Alberti, in un indirizzo segreto. Della sua vera identità e della sua residenza romana ne erano a conoscenza pochissimi esponenti del CLN.  Come hanno potuto Kappler, capo delle SS in Roma, ed il capitano Priebke individuare ed arrestare Buozzi?

Ci sono documenti che fanno luce su questa ed altre vicende collegate al suo arresto, rimaste fino a pochissimi anni fa nell’ombra. In particolare, una nota del capo comunista romano Scoccimarro alla sezione di Milano del suo partito con la quale esprimeva pesanti giudizi su Buozzi, accusandolo di voler imporre un nefasto riformismo alla nascente organizzazione sindacale unitaria e con cui manifestava il più netto dissenso circa la leadership assegnata a Buozzi dal CLN.

Avendo poi vissuto in esilio in Francia per molti anni, Bruno Buozzi aveva avuto stretti rapporti con esponenti del socialismo e del sindacalismo internazionale occidentale ed era il più conosciuto e stimato, a quel livello, tra i sindacalisti italiani. In quanto riformista, non poteva andare bene ad una parte del movimento comunista, come affermava Scoccimarro.

Se non fosse stato barbaramente ucciso, certamente Bruno Buozzi sarebbe diventato un protagonista assoluto della vita politica italiana, del sindacato, del socialismo e della sinistra democratica, che sotto il suo impulso avrebbero  preso “ben altre pieghe” evitando – grazie al suo  apporto riformista – la sconfitta delle sinistre nel ’48 ed una ricostruzione del Paese pagata duramente dai lavoratori, ma avrebbe anche anticipato l’evoluzione democratica del primo centrosinistra, avvenuta solamente nel 1963/64.

Come disse il compagno Di Vittorio, commemorando la sua tragica fine, Bruno Buozzi prima e durante l’avvento della dittatura fascista e nel corso dell’esilio in Francia era stato molto amato dai lavoratori. Era rimasto un operaio in quanto a coscienza e sentimento, e per questo i lavoratori italiani hanno continuato a riconoscersi in lui e ad amarlo fino ad oggi. La UIL ha l’orgoglio di perpetrare i suoi valori ed i suoi sentimenti per una giustizia sociale nella libertà.

I principi fondamentali solcati dai nostri martiri

Anche a distanza di molti anni, in una realtà profondamente mutata rispetto ad allora com’è quella odierna in una Repubblica democratica, la  modernità del pensiero di Giacomo Matteotti e di Bruno Buozzi, i valori permanenti e primari di valorizzazione e tutela del lavoro nella democrazia e nella libertà di  cui essi furono portatori e di esempio, il pragmatismo nell’azione quotidiana non privo di rigore morale e di idealità profonde con cui essi qualificarono il loro agire volto ad un disegno di profondo avanzamento sociale e civile, rappresenta un patrimonio attualissimo ed un  esempio per coloro che si sentono loro eredi a livello politico e sindacale,  come fosse  un imperativo da rispettare sempre,  in ogni azione ed in ogni circostanza.