di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |
La riforma fiscale, che il governo Draghi partorirà, non sarà, certo, una riforma tale da costituire un evento storico; infatti, stante la maggioranza che sostiene il governo, cercherà di accontentare le richieste europee senza risolvere i tanti temi che richiederebbero una soluzione stante gli interessi contrapposti dei partiti costituenti la maggioranza.
Passerà sicuramente l’eliminazione dell’Irap, la riduzione (a favore delle imprese) del cuneo fiscale, la soppressione di tante tasse il cui gettito è irrilevante, e forse l’introduzione dello scaglione che dimezza l’attuale maxiscaglione da 28 a 55.000€. Non si affronterà il tema di una progressività limitata ai redditi di lavoro, alla faccia della parità di tassazione orizzontale, non si affronterà la questione delle imposizioni sostitutive che distorcono la parità di tassazione verticale, non si parlerà di alcuna patrimoniale.
Mi voglio invece occupare di una prassi fiscale che a ripetizione deroga, pare siamo arrivati alla diciottesima volta, l’articolo 2426 c.c. che recita “le immobilizzazioni sono iscritte al costo di acquisto o di produzione (…)”, per permettere una rivalutazione ai valori correnti; la rivalutazione si estende anche ad altri assets ma voglio, per semplicità, limitarmi ai soli fabbricati.
In sintesi come funziona? Una impresa acquista un fabbricato e lo pone in bilancio al valore di acquisto a fronte di una diminuzione della cassa per egual ammontare senza incidere sul conto economico dell’impresa. Tale conto economico è invece inciso dalla quota di ammortamento che riconosce il consumo che si esercita ogni anno su quel bene; convenzionalmente il periodo di tempo di vita di un fabbricato è stimato in 33 anni. Quindi se il fabbricato è costato 1.000 € ogni anno si riconosce come costo (quindi diminuzione dell’imponibile fiscale) un importo di 30 €, per cui dopo 20 anni il fabbricato varrà 1.000 meno 30*20= 600 ovvero 400.
La prassi fiscale permette di rivalutare quel cespite al suo valore stimato da un tecnico che, poniamo, valuti quel fabbricato a 1.400 € con una plusvalenza pari a 1000 €, tale plusvalenza non incide sul conto economico (non è considerato un provento) ma è iscritto come riserva di capitale spettante ai soci. Chiaramente questa rivalutazione permette una miglior presentazione del bilancio dell’impresa che mostrerà così maggiori valori nelle attività e nel netto patrimoniale. Ciò permette alle imprese di presentarsi con un bilancio più solido nel caso in cui dovessero chiedere un prestito alle banche (che per la verità, anche senza rivalutazione tengono comunque in considerazione i valori commerciali delle attività).
Il vero vantaggio delle imprese consiste però nel fatto di poter ammortizzare il nuovo valore del fabbricato, portando in dichiarazione dei redditi costi che in effetti non ha mai sostenuto; in sintesi è un regalo fiscale concesso dallo stato (dai contribuenti) anche se viene richiesto un contributo del 3% affinchè la rivalutazione civilistica abbia effetti anche fiscali; l’impresa cioè risparmia il 24% di Ires pagando un solo 3%: quindi su 1.000 di plusvalenza riceve un regalo 210 (ovvero 24 – 3=21% di 1,000).
La domanda che mi faccio è perché questo regalo sia fatto al solo capitale.
Il trattamento di fine rapporto (TFR)
Il TFR è la somma che l’impresa deve ai suoi dipendenti alla fine del rapporto di lavoro; quindi, durante la vita lavorativa nulla è dovuto al lavoratore in quanto il diritto alla riscossione del TFR matura solo al momento delle dimissioni, del licenziamento o del pensionamento. L’impresa comunque annualmente accantona la quota maturata nell’anno e tale accantonamento è fiscalmente deducibile, anche se non c’è alcun esborso di cassa; al momento della corresponsione del TFR si concretizza l’esborso di cassa ma l’incidenza sul conto economico è limitata alla quota maturata nell’anno fino alla data della maturazione del diritto.
Il TFR non è quindi un debito senza creditore, ma un accantonamento fiscalmente deducibile, e tale accantonamento costituisce una passività a lungo termine che di fatto finanzia l’impresa. Si può quindi ritenere che il TFR costituisce una specie di investimento a favore delle imprese, fatto dai lavoratori.
Il trattamento della plusvalenza
Abbiamo chiuso il primo paragrafo con la domanda “perché il regalo costituito dalla rivalutazione, è elargito solo al capitale?”.
La ratio di quel regalo sta nel permettere al capitale di godere di una agevolazione fiscale come premio al capitale investito o per non rendere imponibile il vantaggio per cui gli immobili non soffrono la svalutazione monetaria o per il fatto che il tasso di ammortamento è commisurato ad una vita utile sottostimata. Qualunque sia la ratio generante questo regalo, rimane la domanda del perché esso non vada ripartito in proporzione tra i soci che hanno versato il capitale ed i lavoratori che stanno investendo in azienda il loro TFR.
Se cioè nel momento in cui l’impresa rivaluta il cespite di 970 € (vedi esempio precedente 1.000 di rivalutazione meno il 3% di imposta) il netto patrimoniale è di 7.000 € e il TFR di 3.500 €, non si vede ragione per cui i 970 € regalati non siano ripartiti come 646 al capitale, sotto forma di riserva speciale, e 324 ai lavoratori sotto forma di incremento del TFR.
Inoltre la riserva è accantonata in sospensione di imposta essa, al momento della distribuzione sarà assoggettata ad imposta, salva la possibilità di affrancare la riserva pagando una imposta del 10%. Forse comportamento simile potrebbe essere disegnato per la quota di rivalutazione affluita al TFR, nel momento della sua effettiva distribuzione.
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