DISTRIBUZIONE DEL REDDITO E QUESTIONE SALARIALE

 

 

di  Silvano Veronese e Ezio IaconoMembri Ufficio di Presidenza Socialismo XXI  |

 

Nel mezzo di una bufera politica ed economica (manovra speculativa sulla lira che rischiava di mandare in default il bilancio statale e la crisi di Tangentopoli che dopo le dimissioni di vari ministri costrinse il governo Amato alle dimissioni), il 23 luglio 1993 il nuovo Governo presieduto da Ciampi e con Ministro del Lavoro il compagno Giugni raggiunse un importante accordo di concertazione sociale con il mondo delle imprese (in primis la Confindustria) e con i Sindacati CGIL-CISL e UIL, che avviò un processo di politica dei redditi e di risanamento pubblico, di ripresa ordinata della contrattazione dopo due anni di conflitti tra le parti sociali, di contenimento dell’inflazione e di difesa dell’occupazione.

A parte le misure di riforma del mercato del lavoro e di sostegno all’occupazione che non trovarono in seguito (dopo la fine dell’esperienza del governo Ciampi sostituito dal governo Berlusconi) pratica attuazione, se non in pejus con i governi di centro-destra, una parte significativa – per quanto riguarda le politiche del lavoro – furono le muove regole che dovevano ispirare la pratica contrattuale, sempre affidata alla autonomia delle parti, ma nel quadro di una valutazione congiunta dell’andamento dell’economia e nella fissazione condivisa di indici di inflazione programmata.

L’anno prima, la Confindustria aveva disdettato la scala mobile, già rimodulata con l’accordo di S.Valentino nel 1984 dal Governo Craxi, e, perciò, con questo accordo triangolare la funzione automatica della scala mobile di adeguare al costo della vita le retribuzioni veniva affidata alla contrattazione nazionale, per la quale vi era un obbligo per le parti di iniziare le trattative per il rinnovo dei CCNL entro la scadenza degli stessi per evitare moratorie e il non adeguamento delle retribuzioni. In ogni caso era prevista una indennità sostitutiva nelle eventuali more.

Altro punto importante era la fissazione di un secondo livello di contrattazione a livello di azienda (per le grandi e medie imprese) e a livello territoriale per le piccole aziende. Gli incrementi salariali avrebbero dovuto tenere conto dell’andamento della produzione e della produttività in modo da ripagare l’apporto del lavoro allo sviluppo produttivo delle aziende.

In teoria, tale sistema avrebbe dovuto garantire un adeguamento continuo delle retribuzioni, quanto meno una salvaguardia del loro potere d’acquisto, ma così non è stato dato il prevalere in vari Governi, succeduti al Governo Ciampi, di politiche che misero in archivio la politica di concertazione sociale per imporre  una linea liberista e per, certi versi, “anti-labour”.

Infatti, agli inizi degli anni ’90 (grosso modo all’epoca dell’accordo di concertazione testè ricordato), l’Italia era il 7° Stato europeo, solo dopo la Germania, per salari medi annuali, mentre nel 2020 è precipitata al 13° posto sopravanzata da Paesi come la Francia, l’Irlanda, la Svezia e Spagna, che negli anni ’90 avevano salari ben piu’ bassi.

Del resto, il problematico fenomeno del crollo dei salari è stato proprio sottolineato da uno studio della Fondazione Di Vittorio, ove viene ricordato  che se nel 2020 in Europa la media dei salari ha subito una contrazione (per vari fattori) del 2,4 % nel nostro Paese si è attestato su – 7,2 % tornando così ai dati registrati agli inizi degli anni 2000, con una media inferiore ai 30.000 euro lordi annui, ulteriore dato degno di riflessione è costituito dal riscontro che nel 2019 in Italia ben 5 milioni di lavoratori percepivano un salario non superiore ai 10.000 euro lordi annui.

Come associazione “Socialismo XXI secolo”, fin dalla nostra conferenza programmatica  tenutasi a Rimini nel 2019, abbiamo avvertito il dovere di denunciare, tra le altre cose, il rischio che l’approccio ineludibile in favore di una flessibilità contrattata del lavoro non doveva rappresentare l’occasione per un arretramento delle condizioni salariali e che, comunque, essa doveva praticarsi per esigenze produttive straordinarie e non diventare pratica corrente nelle nuove assunzioni. 

 E’, invece, evidente ormai che il dogma della flessibilità si è tradotto in precarietà eccessiva, oltre che in un sottoinquadramento nelle qualifiche rispetto alle mansioni svolte e, conseguentemente, in piu’ basse retribuzioni, oltre a non garantire una continuità del salario per i lavoratori assunti in somministrazione, per i quali si alternano periodi di lavoro e periodi di non lavoro.

Si può constatare, che un notevole numero di lavoratori non è occupato per tutto l’anno e non gode, quindi, di una retribuzione annua intera pari a 14 mensilità percepita dal lavoratore che lavora con continuità a tempo indeterminato.  

Tale ulteriore aspetto deve necessariamente essere tenuto in debita considerazione, stante che, dopo la “presa in giro” di quota 102, ci si avvierà ad un sistema pensionistico integralmente contributivo e, quindi, dovremo pur interrogarci sulle azioni da compiere per garantire una pensione dignitosa a coloro i quali, pur avendo raggiunto 67 anni d’età, non avranno beneficiato della regolarità dei contributi versati, proprio a causa della discontinuità nel rapporto di Lavoro.

Sembra necessario, inoltre, riportare un ulteriore passaggio suggellato dall’accordo del luglio ’93, allorché veniva osservato che: “…tra gli obiettivi della politica dei redditi va annoverato quello della creazione di adeguati margini nei conti economici delle imprese per le risorse finalizzate a sostenere i costi della ricerca…”, con il doveroso impegno a procedere affinché la spesa complessiva a tale scopo, allora pari all’1,4 % del PIL, venisse elevata fino a raggiungere la soglia media presente negli altri Paesi europei, ossia quella del 2,9%.

Nel mettere in relazione la ricchezza che non veniva parzialmente più destinata all’aumento dei salari, bensì  trasferita in ricerca e sviluppo, con il ruolo decisivo sia delle imprese che dello Stato, così da essere sempre più competitivi in un mondo maggiormente impregnato dalla concorrenza, assistiamo ad un ulteriore dato allarmante: nel 2019, infatti, soltanto l’1,35% del PIL è stato destinato alla ricerca, a fronte del 3,4% della Svezia, del 3,01 della Germania e con una media UE che si attesta poco sopra il 2%  ed appare, quindi, che l’incremento dei profitti (testimoniato dal peggioramento dell’equilibrio tra questi ultimi ed i redditi da lavoro a danno dei secondi) non solo non si è riversato sulla retribuzioni medie annue  ma nemmeno nel sostegno alla  ricerca, all’innovazione e allo sviluppo produttivo, ben al di sotto della media europea.

Questi dati dimostrano, qualora ve ne fosse ulteriore necessità, come negli ultimi tre decenni abbiamo registrato un deficit di classe dirigente, mentre abbiamo subito spesso passivamente le prediche riguardanti le sedicenti virtù che sarebbero state via via espresse (ed imposte) dal neoliberismo e dalle c.d. virtù taumaturgiche del mercato, dai richiami al “più mercato, meno Stato”, e  alla necessità di porre fine ai “lacci ed ai lacciuoli” che avrebbero imbrigliato il libero mercato e la concorrenza.

Piuttosto, ad iniziare dalla metà degli anni ’90, vi è stato un aumento esponenziale dei profitti, così come delle rendite e dei privilegi ed un impoverimento sempre più diffuso, con un debole ruolo esercitato dallo Stato, non solo incapace di alleviare le disparità di condizioni e di opportunità presenti nella società, ma con l’aggravante ulteriore di avere un debito pubblico pari a ben 2.700 miliardi, a fronte di depositi bancari che ammontano a ben 1781 miliardi (dati dello scorso mese di ottobre), importo superiore al PIL del 2020, attestato a 1651 miliardi .  

Orbene, se uno Stato continua a fare debito mentre gli italiani (con un buon reddito), com’è loro uso, proseguono ad accumulare risparmio (il piu’ alto nella U.E. !!!)  si può imporre una riflessione in merito ed agire di conseguenza ? 

Come socialisti, nel trarre uno spunto orientato da varie analisi economiche, dobbiamo esercitare una convincente azione politica, tesa recisamente alla riduzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito tra le classi e proporre doverose politiche redistributive, ormai sempre più affievolite e marginali, poiché non è più possibile assumere un atteggiamento passivo, stante una povertà sempre più diffusa ed una difficoltà nella crescita del sistema.

Sarebbe, infine, auspicabile che Socialismo XXI, da sempre pienamente consapevole della necessità di una presenza attiva di una forza socialista a sostegno di tutti coloro che vivono del proprio lavoro e che aspirano ad averlo, un soggetto politico  al passo con le dinamiche sociali e politiche in atto e con lo sguardo rivolto al futuro, come delineato nei documenti approvati a Rimini e piu’ volte in seguito implementati, continuasse ad interloquire con altre forze progressiste che si richiamano a questi valori ed interessi sociali, sulla base di  affinità programmatiche e delle prospettive politiche per costruire una vasta alleanza per il lavoro, per l’eguaglianza nella libertà e nello sviluppo, di cui si sente la mancanza da troppo tempo nel nostro Paese.