LA GUERRA, CIOE’ LA SCONFITTA

di Andrea Ermano – Direttore de L’Avvenire dei Lavoratori |

EGOISTICAMENTE, dai nostri divani televisionari noi occidentali assistiamo allo spettacolo tremendo della guerra: centri abitativi sbriciolati, grattacieli incendiati, città distrutte, donne, vecchi e bambini terrorizzati, morti e feriti tra i soldati e i civili in aumento di ora in ora.

Immagini toccanti, alle quali noi guardiamo ritenendo però che in Ucraina si stia svolgendo uno scontro certo scandaloso, ma tutto sommato circoscritto. Di fronte al quale i giovani in piazza fanno bene a manifestare per la pace. E i vecchi al governo avranno le loro ragioni per applaudirli con una mano mentre con l’altra stanziano centinaia di miliardi nella corsa al riarmo.

La novità del riarmo europeo c’inquieta un po’. Ma ci sarebbe da stare ancor meno tranquilli se l’aggressione russa sfociasse in un attacco atomico. Ma nessuna persona assennata impiegherebbe oggi le armi nucleari. Ma Putin potrebbe anche non essere ritenuto una persona assennata, dopo l’ordine in mondovisione di attivare la minaccia nucleare. Ma è tutto un bluff, perché la dezinformatsiya fa intrinsecamente parte del DNA moscovita, dove nulla mai si lascia intentato pur di confondere le idee alla povera gente.

Non saremo cascati dentro una variante trash de “Il dottor Stranamore” o in mezzo alla fiaba raccontata da un idiota piena di chiasso e furore?  

Contrasta con l’indefinito chiaroscuro di enigmi avvolti nei misteri la grande limpidezza con cui lo storico israeliano Yuval Noah Harari mette in luce il coraggio dimostrato dalla nazione ucraina in lotta per la libertà:

«Le storie sul coraggio degli ucraini infondono determinazione non soltanto negli ucraini, ma nel mondo intero. Sono loro a infondere coraggio ai governi delle nazioni europee, all’Amministrazione degli Stati Uniti e perfino ai cittadini russi oppressi. Se gli ucraini hanno il coraggio di sfidare un carro armato a mani nude, il governo tedesco può avere il coraggio di rifornirli di missili anticarro, il governo americano può avere il coraggio di estromettere la Russia dal circuito Swift, e i cittadini russi possono avere il coraggio di dimostrare la loro opposizione a questa guerra insensata».

L’uomo forte del Cremlino a causa della sua insensatezza potrà anche vincere tutte le battaglie, ma in realtà ha ormai perso la guerra, sostiene Harari. Come non essere d’accordo, tanto evidente è la disfatta alla quale Putin appare predestinato.

Perché “guerra”, alla fine, è sinonimo di “sconfitta”. Un’equazione che avevano ben compreso le nostre madri e i nostri padri costituenti ripudiando il ricorso alle armi come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.  

PECCATO che nel testo di Harari non si accenni, però, al “regime speciale di servizio da combattimento” ordinato domenica scorsa dal dittatore del Cremlino tramite l’attivazione delle “forze di deterrenza”, un’espressione tecnico-militare russa che implica l’impiego eventuale di armi atomiche.

Non si tratta di dettagli. Perché quella «è la mossa di un leader con le spalle al muro», sostiene il politologo USA Ian Brummer, il quale non esclude affatto che lo zar possa far girare le chiavette nelle valige nucleari. D’altro avviso Piero Fassino: «No, non credo che convenga, in primis, proprio a Putin: il mondo si può distruggere una volta sola. È questo che vuole? Non penso».

Dunque, tutto a posto, garantisce Fassino, il quale in quanto Presidente della Commissione Esteri della Camera attinge sicuramente a fonti privilegiate. Tuttavia, il ministro russo Lavrov continua urbi et orbi a ribadire che «la Terza guerra mondiale sarebbe nucleare».

Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate

serenamente e con rispetto chi

come moneta infida pesa la vostra parola! 

Bertolt Brecht lodava il dubbio, ma in mezzo alla battaglia, quando bisognerebbe solo pensare a combattere, cioè a uccidere il nemico se non si vuol esserne ammazzati, ogni tentennamento parrebbe più follia che fellonia. E, a giudicare dall’aria di mobilitazione generale oggi così diffusa ovunque, non c’è dubbio alcuno che stiamo vivendo un mutamento di paradigma rispetto alla cultura della pace e del disarmo, egemone durante i quasi otto decenni del secondo Dopoguerra.

Ma allora, perché non unirsi al coro? Alla carica, armiamoci e partite! Purché, beninteso, noi vecchi si possa rimanere sui nostri tele-divani agitando la stilografica a mo’ di baionetta. Che ci andassero i giovani, in trincea, volando sulle ali dei loro eroici furori… È quel che arguisce senza peli sulla lingua il premier polacco Morawiecki, esponente dell’ultradestra europea: «Si è conclusa l’era della pace e dell’ordinamento internazionale».

Se lo dice lui… come stupirsi che in questi nostri tempi, DOPO il Dopoguerra, si respiri un’aria poco pacifica. Né c’è Morawiecki soltanto. Anche l’enfant prodige della storiografia progressista contemporanea Harari si produce in formule bellicose: «Ogni carro armato russo distrutto e ogni soldato russo ucciso incrementano il coraggio degli ucraini a opporre resistenza. Parimenti, ogni ucraino ucciso aumenta l’odio degli ucraini». E prosegue così: «L’odio è il peggiore dei sentimenti. Ma, per le nazioni oppresse, l’odio è come un tesoro nascosto: è sepolto in fondo al cuore e può alimentare la resistenza per generazioni».

Oplà. Eccoci spiaggiati sull’odio come tesoro nascosto e come fattore resistenziale. Eppure avvenne “per dignità non per odio”, secondo Pietro Calamandrei, ciò “che si chiama / ora e sempre / Resistenza”.

LIMITANDOCI ora all’essenziale: l’intervento di tipo militare ci appare assolutamente inidoneo ad aiutare tanto il popolo ucraino quanto l’Occidente quanto il mondo tutto.

Per questa ragione noi qui aderiamo alle posizioni espresse da Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace 2021 e direttore della Novaya Gazeta di Mosca: «La guerra è un crimine. L’Ucraina non è il nemico. La Russia pagherà un prezzo enorme per la scelta fatta da Putin. Mentre le bombe cadevano sull’Ucraina nelle prime ore del 24 febbraio, nella metropolitana di Mosca la gente andava al lavoro particolarmente cupa in volto. Non esultava per la guerra improvvisa. La guerra con l’Ucraina è assurda».

Un gruppo di scienziati russi gli faceva eco pubblicando una lettera aperta contro il proprio governo: «Noi, scienziati e giornalisti scientifici russi, dichiariamo la nostra ferma opposizione all’aggressione lanciata dalla Russia nei confronti del popolo ucraino».

Anche 233 sacerdoti e diaconi della Chiesa ortodossa russa si sono uniti alle voci di protesta: «Nessun appello non violento per la pace e la fine della guerra dovrebbe essere respinto con la forza e considerato come una violazione della legge, perché questo è il comandamento divino: Beati gli operatori di pace (…) solo la capacità di ascoltare l’altro può dare la speranza di una via d’uscita dall’abisso in cui i nostri Paesi sono stati gettati in pochi giorni».

«Signore Dio di pace, ascolta la nostra supplica!» ha scritto ieri papa Francesco in un tweet lanciato anche in inglese, russo e ucraino: «Donaci il coraggio di dire: mai più guerra. Infondi in noi il coraggio di costruire la pace».

Il soft power delle democrazie occidentali può progredire solo in una logica rigorosamente di difesa, in una logica rigorosamente scevra da ogni e qualsivoglia interventismo bellico. Molto possono il fascino delle nostre libertà, della vita economica e culturale, insieme certo anche a un severo strumento sanzionatorio. E confidiamo che le drastiche restrizioni finanziarie promosse contro il despota moscovita da Joe Biden e Ursula von der Leyen (sostenute financo dalla neutrale Svizzera) sortiscano effetti tali da indurre il Cremlino a più miti consigli. Questa è la strada maestra.

Tutt’altrimenti, nel poker del confronto militare, inevitabilmente drogato da appetizioni connesse all’industria bellica, trionferebbe in ultima analisi chi potesse permettersi maggiori margini di scalata nel conflitto.

Ma si sta poco a dire “escalation”se non si pensa a quanto sangue costi. Mentre invece – attenzione! – l’Occidente non sembra avere proprio nessuna convenienza a lasciarsi implicare nella logica del rilancio armato. Qui l’Occidente si vedrebbe anzi in condizioni di fatale subalternità, e ciò per almeno due ragioni fin troppo evidenti:

1) L’Occidente dispone di risorse territoriali notevolmente più limitate dell’asse concorrente.

2) Anche sul piano demografico esso risulta in una condizione di minorità.

Quindi, è verosimile assumere che, una volta ‘traguardato’ il terribile culmine apicale della escalation, noi ci ritroveremmo e territorialmente e demograficamente molto più devastati del nemico.

Perciò, guai a trasformare l’asse concorrente in avversario o nemico. Andremmo incontro a un esito che un giorno gli storiografi futuri potrebbero dover riassumere nella seguente epigrafe:

Scegliemmo la guerra

E fummo sconfitti  Che Iddio ce ne guardi. Eppure, a leggere, a vedere, a sentire certi discorsi, sembra di essere ricaduti non alle nostre pur deprecabili ingenuità giovanili dei tempi dell’invasione in Iraq. No, qui si rischia di precipitare ben più indietro e ben più in basso, nella Berlino o Parigi o Vienna del 1914, e nelle ostentate manifestazioni di avversione totale per il nemico, follemente entusiaste di affrettarsi verso un nuovo macello.