ENRICO BERLINGUER. FU VERA GLORIA?

di Mauro Scarpellini – Responsabile Amm.vo Socialismo XXI |

Ho letto e ascoltato il 24 maggio le commemorazioni elogiative di meriti politici e storici di Enrico Berlinguer quale Segretario del Partito Comunista italiano. Veniva ricordato il centenario della nascita.

Dopo un bel po’ di anni trascorsi da alcuni fatti e stimolato dai motivi di commemorazione ascoltati desidero esprimere una riflessione più storica che altro, con una consapevole presunzione nell’uso di questo aggettivo – date le sintetiche analisi di questo articolo, scritto a caldo senza prolungate riletture e limature –  ma che, credo, possa essere pur inserita tra le riflessioni di chi abbia voglia di porre attenzione all’argomento e, in particolare, di chi votò il Partito Comunista italiano diretto da quella importante personalità e sente considerare ancor oggi Enrico Berlinguer degno dei meriti politici e delle lodi che in occasione del centenario della sua nascita sono stati ricordati.

Riflessione più storica in quanto non intendo caratterizzare questo intervento, sicuramente deciso e netto, di alcuna venatura polemica, ma legarlo soltanto alla crudezza dell’accaduto, alla verità dei fatti, non alle interpretazioni.

Cosa è rimasto nella vita politica italiana delle linee politiche indicate e delle aspirazioni da lui suscitate negli elettori che lo votarono? Nulla e qualcosa, contemporaneamente; e mi accingo a spiegare ciò che risulta nulla e ciò che chiamo qualcosa, impropriamente qualcosa, perché è molto di più e di diverso dalle sue ragioni di partenza.

Nulla. Affermazione dura riferita ad alcuni principali fatti avvenuti per come sono avvenuti.

11 settembre è una data evocativa triste. Ricorda l’abbattimento delle due torri di New York nel 2001. Più lontano nel tempo ricorda il colpo di stato in Cile, nel 1973, organizzato, pensato, realizzato dal generale infedele Augusto Pinochet con ogni possibile appoggio della presidenza statunitense di Richard Nixon, del suo Segretario di Stato Henry Kissinger e della multinazionale United Fruits. Sintetizzo il ruolo statunitense usando questa dichiarazione di Kissinger : << Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli>>. Il Presidente Cileno Salvador Allende non era comunista, ma socialista, ma è noto che questa distinzione non rilevava per molti protagonisti politici statunitensi; essi cercavano altro nel ruolo nazionale e internazionale dei partiti politici e dei governi latinoamericani.

Il periodico comunista Rinascita enunciò l’idea della via nazionale al socialismo di Berlinguer scrivendo subito dopo quel colpo di stato. Invito a rileggere quegli scritti. Si leggerà un linguaggio ottocentesco, nelle parole e nei concetti, che parla di proletariato, di borghesia, di masse, di classi e di tanto altro come se ne parlava agli albori e ancora nei primi scritti dell’Italia liberata nel 1945.

Quell’Italia, diceva il censimento nazionale del 1951, riferiva di un paese agricolo simile a quello di anteguerra. Le medie della popolazione attiva dedita all’agricoltura erano queste : 63,4% nell’Italia meridionale (Sardegna esclusa); circa il 60% nell’Italia centrale; 55,7% nelle regioni del nord-est; circa il 35% nel nord-ovest. Per far capire agli elettori dei paesi quale lista dovessero votare alle elezioni comunali, allora e per un po’ di anni le sinistre presentarono le liste con la vanga e la spiga, con la falce e la spiga e altri simboli espressivi e rappresentativi e adatti al livello di maturazione culturale in cui in quell’epoca erano tantissimi elettori. Si aggiungeva un tasso di analfabetismo del 12,9 per cento, contro l’1 per cento in Svizzera, Austria e Germania, il 2 in Gran Bretagna, il 4 in Francia. Peggio dell’Italia era la Spagna col 16.

Nel 1973 la società italiana aveva già avuto lo sviluppo impetuoso degli anni ’50 e ’60, una crescita importante ed anche una stabilità monetaria (nel 1959 e nel 1964 ebbe il riconoscimento dell’Oscar alla lira assegnatole dal Financial Times). Il centro-sinistra (quello vero, non l’imitazione prodiana) dette un impulso notevole alla crescita. La scuola dell’obbligo, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il superamento della mezzadria, la costituzione delle Regioni stavano cambiando l’Italia e sarebbe occorso anche un linguaggio di analisi più adatto alla realtà, meno astrattamente ideologico, attualizzato.

La contrapposizione della visione berlingueriana con la realtà troverà una dimostrazione da Paolo Sylos Labini nel 1974, col famosissimo “Saggio sulle classi sociali” che fotografò il mutamento intervenuto nella realtà sociale italiana; non era più il tempo della centralità della vanga e della spiga. Sylos Labini cercò di comprendere come i nuovi ceti sociali potessero contribuire continuativamente allo sviluppo della società italiana e non dovessero ripetere preferenze monarco-fasciste e le attitudini della vecchia borghesia di anteguerra. Nuovi ceti si erano affermati, nuove esigenze, nuovi campi di studio per la politica, nuovi linguaggi. Era iniziata quella che il sociologo Giuseppe De Rita chiamò “cetomedizzazione” della società italiana, con la conseguente e parallela compressione della vecchia classe operaia che, tuttavia, era tutt’altro che scomparsa. Ricordo l’invito di Sylos Labini a non ignorare che il concetto di classe si stesse trasformando in ceto sociale, indicando con ciò che la mera classificazione basata sul livello economico e sullo sfruttamento capitalistico non bastasse più a rappresentare l’esistente sociale in cambiamento ma erano intervenuti altri fattori ed altri se ne sarebbero sviluppati conseguendo una tendenza di cambio del corpo sociale e del lavoro richiedente pensieri politici adatti al nuovo quadro osservato.

Ricordo che la stessa classe lavoratrice dipendente, intesa in senso letterale, aveva conseguito formidabili tutele con lo statuto dei diritti dei lavoratori nel 1969, perorato con forza dal Ministro Giacomo Brodolini e, dopo la sua prematura morte, concluso dal Ministro Carlo Donat Cattin,  nonché col nuovo processo del lavoro nel 1973.

Due analisi e due linguaggi, evidentemente scaturiti da preparazioni culturali diverse e opzioni analitiche e risolutive diverse.

Io ho usato le varie tecniche di indagine sociale per il mio insegnamento di marketing e so che l’indagine sociale ha vari fini; può essere a fine commerciale, può essere a fine politico. Ebbene ho notato l’assenza del supporto analitico di indagine moderna negli scritti ideologici di Rinascita; mi spiego, parlo dell’assenza evidente del supporto, dell’uso di tecniche moderne per conoscere la realtà sociale, non per sostituire le tecniche alle idee. Vi ho trovato conferma, invece, di concetti e fraseologie teoriche da libro madre, preziosissimi per una tesi di laurea di filosofia del linguaggio.

L’analisi di Rinascita è interessante, veramente interessante. Ammetto di aver provato una fascinazione nella lettura per la consequenzialità dei concetti ideologici, perfettamente funzionali ad un disegno teorico a prescindere, certamente complessi ma più scorrevoli e meno difficili da assorbire di testi classici di altri autori come, ad esempio, “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Friedrich Engels, sul quale persi molte ore di impegno nella mia seconda adolescenza.

Siamo nel 1973. Rinascita usa riferimenti e riporta e ribadisce indicazioni di Lenin (ricordo che era deceduto nel 1924), cita la pace di Brest Litovsk (quella stipulata dal governo rivoluzionario il 3 marzo 1918 con gli imperi centrali per porre fine alla guerra). Riletta oggi trasferisce una sensazione di vecchiezza, di accurata analisi statica non consapevole a pieno di quel che era cambiato e di ciò che stava per ulteriormente cambiare.

I saggi su Rinascita portano alla proposta – lo dico in sintesi e con linguaggio non ottocentesco – di incontro tra democristiani e comunisti. Col 51 per cento è pericoloso governare, vedi cosa è successo in Cile. Se vogliamo trasformare l’Italia in un paese socialista e democratico occorre allearsi con la borghesia rappresentata dalla Democrazia Cristiana. L’obiettivo fu chiamato “compromesso storico”. Non ci sono spiegazioni da dare, sinceramente, perché l’operazione di potere che la proposta indica è evidente.

Berlinguer gestì l’incontro parlamentare con la DC e di fiducia al governo Andreotti che fu costretto a perfezionare nel modo in cui lo costrinse il rapimento di Aldo Moro.

Ricordo bene la novità del governo Andreotti che ne nacque – frutto dell’intesa del compromesso storico – rispetto a tutti i governi precedenti. La novità fu che l’Ufficio del primo ministro annunciò le date delle sedute dei Consigli dei Ministri di un intero mese, prima novità, e gli argomenti principali che sarebbero stati portati ad ogni seduta del Consiglio, altra novità. Controllate, fu così. Penso che brividi di gioia e di successo rivoluzionario non possano non aver segnato i ricordi di coloro che sostennero la teoria del compromesso alla luce di così tanta profonda innovazione, preliminare alla costruzione del socialismo in Italia ! Permettetemi questa ironia; anche io ho un cuore di parte che pulsò e per fortuna ancora pulsa allo stesso modo !

Berlinguer non vide il crollo dell’Unione sovietica perché morì prima. La linea del compromesso andò avanti fino alla congiunzione definitiva, alla costituzione di un partito che unificherà gli eredi di quelle che nel dopoguerra venivano polemicamente definite dai partiti laici come le due chiese.

Nel partito costituito non c’è traccia di progetti di Italia socialista da realizzare nella democrazia. Non c’è questo e niente altro che non sia la genericità di un partito che si candida a gestire il potere politico e istituzionale per come si presenta la situazione, senza velleità né aspirazioni particolari. Vi hanno aderito comunisti e democristiani, il Vice Presidente del Consiglio del governo Berlusconi, Marco Follini, la ex Ministra della salute Beatrice Lorenzin, forzista della prima ora, pattuglie di eletti nella lista del liberista Mario Monti dal Deputato Romano ad altri. Tutto legittimo e anche tutto chiaro.

Di tutto il resto cosa è rimasto ? Nulla.

Nel 1976 Enrico Berlinguer elaborò, creò una nuova linea ideologica che assunse parti del marxismo-leninismo e parti dei valori dello stato liberaldemocratico e definì ciò “eurocomunismo“. Partì dalla constatazione che nell’Unione sovietica fosse finita la “spinta propulsiva”.

A quel tempo non compresi cosa si intendesse per “spinta propulsiva”, perché se era chiaro da quale condizione del regno zarista il comunismo sovietico era partito non mi fu e non mi è ancora chiara la destinazione della “spinta”; la spinta indica movimento, movimento di progresso, conquista ed esercizio dei diritti umani, sociali, individuali e collettivi, conquista nell’esercizio delle libertà. Non ebbi questa impressione visitando l’Unione Sovietica, da Mosca alla Siberia, nel settembre del 1970, incontrando dirigenti, sindacalisti, operai, impiegati, né quando vi tornai nel 1986 ed ebbi, al Cremlino, un lungo approfondito scambio di valutazioni con Gennadi Yanayev, responsabile delle relazioni estere della Confederazione sindacale sovietica.

Era fresca l’era di Gorbaciov e Yanayev era – o sarebbe stato – uno dei pilastri, uno dei sostenitori ed attuatori delle scelte gorbacioviane del Partito comunista dell’Unione sovietica. In materia di lavoro gli prospettai la collaborazione che avremmo potuto avere a Ginevra nel Consiglio di Amministrazione dell’ Organizzazione Internazionale del Lavoro per estendere diritti e miglioramenti per i lavoratori sovietici, proporre direttive evolutive adatte a tener conto dello stato di fatto delle condizioni di lavoro nell’Unione sovietica per intraprendere un cammino di evoluzione in merito alle tutele e ai diritti; gli garantii tutta la mia collaborazione quando avesse voluto.

Ricordo il linguaggio chiarissimo di Michail Gorbaciov che nell’incontro con i delegati al congresso sindacale dell’Unione indicava, tra molte cose, gli obiettivi di pareggio dei conti economici delle imprese, burocraticamente mal gestite. Il traduttore traduceva “conti economici” con “conti statistici”, forse per pudore ideologico, ma la linea di governo di Gorbaciov era per l’accelerazione dello sviluppo gestendo le imprese con criteri di economicità ed efficienza. La definivano uskorenie ma non fu sufficiente a dare una svolta al progresso tecnologico ed economico. La gestione delle imprese non evolse in un tempo ristrettissimo quando alle spalle vi era una cultura pluridecennale di gestione burocratica. Yanayev fu nel gruppo dei quattro dirigenti sovietici che nell’agosto 1991 deposero Gorbaciov con un colpo di stato, fallito dopo pochi giorni ad opera delle iniziative difensive di Boris Eltsin.

L’immobilismo della struttura dello stato e della società sovietiche nessuno lo mise mai in discussione, quindi mi rimane l’incognita del significato di “spinta propulsiva”. In politica si usano frasi, parole, concetti, che nulla o poco significano ma che fanno intendere, che alludono, che fanno palpare qualcosa che non consiste ma che immerge in una nuvola allusiva, enfatica – talora – e perfino psicologicamente esaltante, più o meno spiegabile, figlia del linguaggio politico o del politichese. Così fu anche per altre parole e locuzioni, sia chiaro. Mi vengono in mente alcune analogie : “gli equilibri più avanzati”, “la maggioranza silenziosa”, “l’amerikano”, “i due forni”. Quelle vicende sovietiche che ho riferito furono successive alla morte di Enrico Berlinguer e torno al punto.

I protagonisti dell’eurocomunismo furono tre Partiti e tre personalità politiche; i Partiti comunisti di Italia, Spagna e Francia e i loro Segretari Enrico Berlinguer, Santiago Carrillo e Georges Marchais. L’elaborazione del progetto non fu improvvisata. Maturò in numerosi incontri, analisi, ragionamenti. Sostanzialmente si trattava di proporre la realizzazione del comunismo in sistemi costituzionali liberaldemocratici, quindi senza la dittatura del proletariato. Bella svolta.

Si, bella svolta, perché il Partito comunista – chiamato nel gennaio 1917, alla sua nascita, Partito comunista d’Italia – nacque proprio con l’obiettivo opposto. Questa non è un’opinione ma è lo statuto del partito votato nel 1921. Per non sbagliar la sintesi dei concetti un paio di punti dell’articolo 1 li riporto integralmente.

Articolo 1, punto 3: << Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese>>.  Articolo 1, punto 6: <<Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato statale borghese e con la instaurazione della propria dittatura, ossia basando le rappresentanze elettive dello Stato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese>>.

Questi i punti che determinarono la scissione dei comunisti dal Partito socialista nel gennaio 1921 : abbattimento violento del potere e instaurazione della dittatura del proletariato. La svolta dell’eurocomunismo, quindi, conteneva la negazione non ammessa delle ragioni della nascita e della permanenza del Partito.

Mi domandai perché allora non fosse fatta un’analisi compiuta e non fosse fatta la scelta di una via di ripensamento trasparente, sincera, meno contorta e non sconosciuta, quella del socialismo democratico di cui ampia letteratura, ampia storia politica e ampio consenso in molti paesi del mondo attestava la vitalità e la spinta propulsiva, questa sì, in via sistematica e permanente, tale da concretizzarsi in socialismo riformista. Riformista é contrapposto a rivoluzionario, intendendo per rivoluzionario quello che traguardava l’obiettivo “dell’abbattimento violento del potere” e l’instaurazione della “dittatura” (come da statuto) e intendendo per riformista la sensibilità politica e legislativa di adeguare continuamente il paese ai bisogni, cresciuti e diversificati, sia privati che collettivi. Due macigni di differenza : violenza o democrazia, dittatura o libertà.

Me lo domandai e presi atto che la ricomposizione della sinistra italiana non era un punto d’interesse.

Enrico Berlinguer morì prematuramente nel 1984, forse anche per lo sforzo fisico della sua generosa intensa attività. La scomparsa del suo progetto fu consumata presto dai suoi successori italiani e dai colleghi stranieri. I giovani non sanno neanche di cosa io stia parlando.

Santiago Carrillo fu espulso, nel 1985, dal suo partito di cui fu segretario dal 1960 al 1982, proprio per le scelte da lui compiute non più ortodossamente filosovietiche e, precursore delle scelte dei suoi compagni italiani, fondò un partito che nel nome non fece riferimento al socialismo; lo chiamò Partito dei lavoratori il quale maturò in breve la convinzione che l’impegno possibile per una politica socialista potesse essere solo nel partito socialista spagnolo e vi confluì.

Georges Marchais visse il suo eurocomunismo in un noto ondeggiamento con le pulsioni filosovietiche. Rimase convinto delle idee marxiste-leniniste e aderì contemporaneamente all’eurocomunismo per sperare di non perdere consensi in favore del partito socialista francese nel periodo della presidenza di Francois Mitterrand. Non gli riuscì l’intento elettorale. Il suo eurocomunismo si estinse.

Dunque, un’idea, un’ideologia – detta in senso serio e positivo -, l’eurocomunismo, ebbe vita breve, nessuna costruzione duratura. Alla luce di come è finito il Partito comunista italiano posso dire che malgrado l’apparenza forte dell’idea e l’apprezzabile ed esaltante consenso di base che ebbe essa fu un’intuizione (debole), un tentativo (debole) per non morire insieme alla crisi che si poteva temere del sistema comunista sovietico e per inventare un’originale alternativa al vedere permanere il riformismo socialista quale unico prosecutore di emancipazione e sviluppo democratico in Europa. Insomma, non si poteva dire che la storia iniziata a Livorno nel 1921 stava giungendo al capolinea.

Perché fu eurocomunismo e non eurosocialismo?

Francesco Bigazzi, già direttore dell’ANSA a Mosca, e Valentin Stepankov, ultimo Procuratore generale dell’Unione sovietica e primo Procuratore generale della neonata Repubblica Federale di Russia, scrivendo su fatti successivi alla fine dell’Unione sovietica, a pag. 18 del loro libro “Il viaggio di Falcone a Mosca” affermano: <<Anche per gli organi giudiziari e inquirenti italiani fu approntata una selezione di documenti, suddivisa per anni : venivano indicate le somme di denaro in contanti trasferite e allegate varie ricevute, tra cui alcune manoscritte dal Segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer>>. 

Conosco Francesco Bigazzi per persona seria e accorta. A cena a casa sua, a Mosca, passammo la serata a parlare di calcio – di cui io sono conoscitore a livello di quasi ignoranza – affinché i microfoni inseriti da qualche parte nelle pareti riferissero al KGB la insignificanza politica della mia presenza.

Non conobbi Stepankov, ma firmò il libro.

Quale fu il merito se di un’idea portante rimane nulla ?

Non sfugga il tema dell’appartenenza dell’Italia alla NATO, alleanza alla ribalta per le dolorose  vicende belliche in Ucraina.

Alle pag. 213-214 del secondo volume dei suoi Diari, Pietro Nenni, con la data 21 febbraio 1962, descrive l’incontro con Arthur Schlesinger jr, collaboratore importante di John F. Kennedy, Presidente degli USA, in visita a Roma. Parlano della possibilità del superamento del governo centrista in Italia e dell’incontro politico di centro-sinistra, cioè dell’incontro tra i partiti politici socialista, socialdemocratico, repubblicano e democristiano sulla base di un programma di rinnovamento della politica nazionale.

Pietro Nenni annota a proposito della politica estera e militare : << …… Ho spiegato che la nostra impostazione neutralistica è incompatibile con l’oltranzismo atlantico e con una politica d’impronta ideologica. Sono su questo punto della sua opinione, ha detto Schlesinger. Non è invece incompatibile con una politica di distensione che affronti seriamente i problemi del disarmo e della pace. In ogni caso quella che nasce è la speranza di una nuova politica, non la nuova politica “tout court”.>>

Quattordici anni dopo Enrico Berlinguer, nel giugno 1976, dice al giornalista Giampaolo Pansa, intervistatore del Corriere della sera << Mi sento più sicuro stando di qua… >>. Questa sarebbe stata la svolta. Se svolta fu non si può dire che fu rapidissima, tenuto conto che l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica fu del 1956 e quella della Cecoslovacchia del 1968. La maturazione per la svolta richiese molti anni. Ma fu svolta di politica estera? Fra poche righe ne parlo.

Quando si realizzò il primo centro-sinistra (quello vero) nel 1964, i socialisti condizionarono la politica estera e della difesa in base alla convinzione sopra indicata nel diario di Nenni. Essi provenivano da una scelta neutralista e pacifista e accettarono la NATO in chiave difensiva e geograficamente limitata. Pur facendo parte del governo non ebbero mai una subordinazione psicologica o politica nei confronti degli Stati Uniti, paese importante e principale alleato dell’Italia.

I socialisti insistettero per l’esclusione della Cina nazionalista di Taiwan dal Consiglio di sicurezza dell’ONU affinché al suo posto entrasse la Repubblica popolare cinese, benché Taiwan fosse, nei fatti, un protettorato degli Stati Uniti, gestito dal generale anticomunista Chiang Kai Scek, ma la valutazione sulla necessità di migliori equilibri mondiali ai fini di pace prevalse sempre nella valutazione socialista rispetto all’ossequio verso Washington, che non ci fu mai.

C’è un approccio diverso e c’è una finalità diversa tra le due posizioni socialista e comunista. Attiva, propositiva e anche distinta da quella degli Stati Uniti, paese pur alleato dell’Italia, la posizione dei socialisti che dal 1964 erano nel governo nazionale. L’approccio al tema NATO era di politica internazionale e la finalità era l’equilibrio per la distensione internazionale.

Approccio circoscritto – quello espresso da Berlinguer – alla sua sicurezza nello stare ad occidente piuttosto che a oriente; egli non collega il suo approccio ad una motivazione di politica internazionale ma esclusivamente al ruolo del suo Partito in un’Italia alleata all’est o all’ovest. Frettolosi elogiatori non leggono tutta l’intervista e gli attribuiscono un significato travisato, non corrispondente al perimetro tematico all’interno del quale egli risponde; travisano ciò che il Segretario dice, cioè che vuole realizzare il socialismo diverso da quello sovietico – e per questa ragione sta meglio in occidente – ma che gli occidentali non glielo faranno probabilmente realizzare ( https://www.enricoberlinguer.it/enrico/le-idee/l%E2%80%99impegno-per-la-pace/mi-sento-piu-sicuro-nel-patto-atlantico/ ).

Berlinguer connette la sua risposta non ad una visione di politica internazionale per la distensione ma la collega alla realizzazione del socialismo da parte del suo Partito. I paesi dell’est – cioè l’Unione sovietica – vorrebbero – lui dice – che fosse realizzato allo stesso loro modo e, all’ovest, aggiunge, ci sono tentativi per non fargli realizzare il socialismo col compromesso storico. Dov’è la motivazione di politica estera ? Non c’è e, sottolineo, che il peso della scelta tra gli obiettivi di un partito politico e la distensione internazionale non vede un pareggio.

La mia memoria si lega alla visione di disarmo e di pace, di politica di distensione, di incompatibilità con l’oltranzismo atlantico e con una politica di impronta ideologica. La NATO non deve fare politiche espansive; c’è già troppa azione espansiva nel mondo da parte di troppi e occorre puntare al negoziato e ad intese e non ad altro.

Non posso attribuire a Berlinguer il silenzio attuale di coloro che furono dirigenti del suo Partito, ancor oggi in Parlamento e passati ad una visione diversa da quella della sinistra socialista democratica, quindi, chiudo qui sulla NATO.

Concludo riprendendo dall’inizio di questo scritto : cosa è rimasto nella vita politica italiana delle aspirazioni suscitate da Enrico Berlinguer negli elettori che lo votarono ? Ho scritto anche che è rimasto qualcosa, impropriamente qualcosa, perché è molto di più di una secondaria reminiscenza, ma è una conseguenza di una linea impostata ed esaltata dall’autore ma da lui non alimentata perché scomparso prima.

Dimenticandosi delle ricevute manoscritte rilasciate ad un paese straniero, come scrivono il giornalista Bigazzi e il Procuratore generale russo Stepankov, Enrico Berlinguer elevò la categoria della diversità etica dei comunisti a principio distintivo nella politica.

Penso che non si debba mai smettere di essere contro la corruzione, il tangentismo nazionale e internazionale, l’arricchimento mafioso e altre simili pratiche. Ma il suo taglio distintivo non era solo questo. Era la celebrazione della superiorità morale del suo Partito rispetto a tutti gli altri e seminò efficacemente questo verbo. Faccio solo pochi rapidi commenti sulle omissioni e sugli effetti della semina fatta perché la diversità etica non riguarda solo la percezione delle mazzette.

Se l’etica é il comportamento vero delle persone, dei Partiti politici nel nostro caso, a fronte del bene e del male, la dottrina di Berlinguer non andò mai all’esame critico di fondo del male del passato eticamente sgradevole della storia politica di appartenenza.

Teniamo presenti, in sede storica, questi due esempi sulla diversità etica praticata. L’alleanza dell’Unione sovietica con la Germania nazista per l’aggressione e la spartizione della Polonia nel 1939 vide l’approvazione del Partito comunista italiano che espulse Umberto Terracini e Gianna Ravera perché dissenzienti. Fu diversità etica nel senso di pratica migliore, positiva? O fu altro di poco commendevole commento? 

Natta e Occhetto da Segretari del Partito ammisero anni e anni dopo la morte del “Migliore” le responsabilità di Togliatti al tempo della eliminazione fisica voluta da Stalin dei dirigenti comunisti polacchi, spagnoli e di altri in termini di silenzio e di omissione sui fatti da lui conosciuti mentre era – a Mosca – membro del Comintern, ma “Il Migliore” rimase tale. Diversità etica anche questa?

Una coincidenza temporale voglio raccontarla. L’ho riscontrata negli anni nella lettura di documenti, articoli e relazioni. Enrico Berlinguer fu Segretario dal marzo 1972. Armando Cossutta, tesoriere del Partito, chiese ai Sovietici di aumentare il finanziamento al Partito nel 1974 (rapporto Impedian 122), finanziamento che esisteva da prima e che proseguì. Diversità etica anche questa.

La presunta diversità etica di quella dottrina di superiorità morale è tra le matrici della nascita di “onestà, onestà”, grido che maschera una profonda ignoranza della politica ed esalta la demagogia populista. Gli urlatori di “onestà, onestà” hanno contribuito all’impoverimento culturale, politico, etico – qui ci vuole etico – del paese. Il modo di occuparsi di politica di detti urlatori, ovunque collocati nel panorama dei partiti e dei movimenti – sia formatisi alle elevate scuole di pensiero del vaffa che del celodurismo e del putinismo che altrove – , provoca solo angoscia in chi è in grado di motivare e rimotivare seriamente un impegno per la ricerca e la realizzazione di una politica migliore, priva di demagogie e di corpose ignoranze.

Non si può attribuire a Berlinguer quel che è accaduto dopo la sua scomparsa e non lo so immaginare in un partito genericamente democratico. Egli era pienamente radicato nelle sue convinzioni originarie e non lo immagino totalmente trasformato. Se scrivessi il contrario arrivo a pensare che ne offenderei la memoria; questa è la mia convinzione. Un uomo con ideologia fuori dal tempo, questo sì; con una diversità morale a due facce, questo sì; ma non credo che la persona sarebbe stata capace di ulteriori trasformismi. Si può attribuire una bella quota di responsabilità, invece, a coloro che, convertitisi senza pagare pena e oggi coperti con un mantello diverso, ne svilupparono al peggio i dettami.