“LA QUESTIONE SOCIALISTA”

di Paolo Bagnoli – Direttore de La Rivoluzione Democratica |

La crisi del socialismo si manifesta in Italia con la sua totale assenza da quando il PSI è stato travolto dal personalismo del suo segretario. Oggi il problema non si pone ripartendo dal giudizio da dare sull’esperienza di Craxi e sull’efficacia della iniziativa giudiziaria che si scatenò contro il Partito non perché le malversazioni non dovessero essere perseguite e punite, ma per le modalità di natura punitiva che, esulando dal giudiziario, avevano una quasi esclusiva valenza politica; per come, intorno a tale iniziativa, si venne componendo tutta un’opinio politico-mediatica tesa a rappresentare il socialismo italiano per quello che non era, finendo per identificare in Craxi addirittura l’intera storia del socialismo italiano che ha rappresentato, pur nella varietà delle sue stagioni, la vera forza della democrazia italiana.

Il problema del socialismo in Italia si pone gravato da una questione generale che riguarda il livello internazionale e da quella nazionale. E’ evidente a tutti che lo scioglimento della sinistra quale soggetto politico operato dagli eredi del PCI i quali, essendosi trovato ancora in piedi un pezzo del loro partito potevano – e a un certo punto, con la segreteria di Massimo D’Alema del PDS, sembrava che le cose andassero in questa direzione – rappresentare un polo ricostruttivo della sinistra dopo la fine del PSI e lo scioglimento del PCI. Potevano, cioè, impostare una politica in tale direzione a condizione di riconoscere l’errore del 1921 e, pure, come l’aver perso il treno passato nel 1956, avesse determinato una situazione che aveva oggettivamente impedito al socialismo di divenire quel grande soggetto di trasformazione profonda della realtà italiana quale forza centrale del nostro sistema democratico. Prevalsero altre logiche, altri indirizzi; in Italia i post-comunisti mai accettarono una scelta chiaramente socialista – anche nominalmente – pur facendo parte, grazie al PSI, sia dell’Internazionale Socialista che del Partito del Socialismo Europeo. Il risultato è stata la nascita del PD che non è riuscito a essere di sinistra – cosa impossibile peraltro se non si accettano i presupposti socialisti – né di vero centrosinistra nonostante le roboanti dichiarazioni di rappresentarsi come un partito a vocazione maggioritaria.

La ragione è semplice e complessa al contempo, ma considerato che il PD non è mai riuscito a essere veramente un partito e funzionare come tale, ogni scelta si è risolta a una corsa sul posto, sempre più a passo populista, fino alla sconfitta che ha permesso alla destra estranea alla natura costituzionale della Repubblica di avere un governo guidato dagli eredi contemporanei del fascismo italiano. La fine del PSI e l’ostracismo della memoria sulla sua storia – un fenomeno non ancora passato – cui abbiamo assistito per oltre un trentennio non hanno, tuttavia, cancellato la questione socialista dallo scenario del Paese. Non tanto perché la sigla è rimasta in vivo per operazioni di natura strettamente personale e, quindi, con un uso strumentale per fini del tutto diversi da quelli che essa avrebbe comportato, ma in quanto centri di presenza e di resistenza potremmo dire, socialista nel Paese non hanno cessato di essere come pure non sono mancati, nei decenni trascorsi, tentativi che hanno cercato sul piano organizzativo di rimettere in piedi forme di soggettualità proponentesi di portare avanti il discorso per rimettere in piedi un qualcosa che cominciasse a colmare il vuoto verificatosi.

Parimenti dobbiamo registrare come tanti centri culturali di ispirazione socialista abbiano meritatamente operato per tenere in vita non solo il ricordo di uomini e cose , ma il significato di una presenza politico-culturale. E, ancora, va registrato, sempre positivamente, come si siano intensificate le iniziative di natura pubblicistica con la riproposizione di testate di notevole valenza storica caratterizzanti la vita del socialismo italiano e pure si è assai cospicuamente intensificata la produzione libraria di storici, di compagni che hanno avuto funzioni dirigenziali nel PSI caratterizzando un mosaico di tessere senza che sia nata una rete che sarebbe stata di grande utilità per cercare di mettere sui binari della storia presente il socialismo italiano.

I motivi per cui ciò non è avvenuto sono molteplici. La ragione prima del perché ciò non sia avvenuto è squisitamente politica e pure storica. In primo luogo, perché si trattava di fare seriamente i conti con una lunga storia che, a nostro avviso, hanno un segno largamente positivo; in secondo luogo, ed è il problema sovrastante tutti gli altri, per risolvere la questione socialista, non solo a livello italiano, ciò da cui parte tutto e che motiva le ragioni del socialismo: vale a dire, che il partito che lo esprime ha un senso se si propone di superare il sistema del capitalismo, di operare quella rivoluzione nella libertà che permetta alla democrazia, oggi in ostaggio del mercato e del mercatismo, di liberarsi con cultura libertaristica, di affermarsi e di espandersi per l’affermazione dei diritti e della giustizia sociale.

Solo così il socialismo ha un senso; se così non è non si vede perché si ritenga necessario un partito socialista. E’ evidente che ogni forza politica, per essere tale e stare nella lotta politica quale soggetto attivo, abbisogna non di ragioni fideistiche o, peggio ancora, sentimentali, ma di una salda cultura politica; di un’ideologia, cioè, che dal piano delle idee sappia tradursi in azione e organizzazione, elemento di rappresentanza sociale, capacità di interpretare e rappresentare un blocco sociale quale piattaforma di riferimento primario, sapere che la lotta di classe prima che socialista è un’idea liberale se si considera il liberalismo non tanto un dato che riguarda le istituzioni quanto una concezione della civiltà che discende direttamente dall’idea fondante di libertà. E che, pur dentro un quadro dominato da trasformazioni profonde e da fenomeni nuovi che investono tutto il pianeta, la lotta di classe non solo non è un concetto superato, ma esso è ancora lo strumento primario poiché, quelle che una volta si definivano le classi subalterne, oggi sono alla mercé di un capitalismo finanziario mosso dalla prevalente logica dei profitti internazionalmente organizzati; dallo sfruttamento progressivo delle categorie più deboli quale metodo e sistema; insomma da un insieme intersecantesi di problemi che investono il mondo intero determinando una vera e propria crisi di civiltà. Tale realtà mette a rischio le democrazie che ancora resistono e sono sotto attacco dai nazionalismi e dei sovranismi. Il prezzo più alto lo pagano coloro che si vedono impedita la possibilità di andare avanti per riscattare la propria posizione.

Un partito che si definisce socialista ha la funzione di mettersi alla testa di quest’opera di riscatto forte di una cultura valoriale per affermare una civiltà fondata sull’umanesimo; una civiltà che è a rischio di travolgimento venendo progressivamente meno gli argini della democrazia per quanto concerne i diritti e la stessa concezione della socialità che la giustifica senza una esclusiva valenza economica, poiché la civiltà salva se stessa se pone al centro l’uomo, la sua capacità di essere autonomo, libero di associarsi per combattere non solo per le fondamentali esigenze pratiche, ma anche spirituali: in altri termini. avere livelli che progressivamente si succedono affermandosi e strutturalmente rappresentanti la dimensione concreta della libertà:

Il refrain stanco del “riformismo” è un’espressione di impotenza e di povertà culturale; con metodo liberale che equivale a democratico occorre innestare gli atti i quali, con prassi libertaristica e, nella libertà, portino alla costruzione di una società sempre più giusta, a una vita della comunità ispirata alla socialità, a una concezione del potere che appartiene a tutti e a una organizzazione economica anch’essa fondata sulla libertà – non dimentichiamoci che tutte le libertà sono solidali – e, quindi, non di tipo collettivistico, bensì socializzato restando fermo quanto deve spettare, in quest’ottica, a chi intraprende e a chi svolge lavoro salariato; a uno Stato che garantisca in nome delle proprie ragioni la fondamentale funzione pubblica – è quasi un ossimoro affermarlo – per la primaria funzione di salvaguardia e di servizio ai cittadini a fronte di un avanzato processo che sempre più li considera solo dei consumatori. Inoltre, se si considerano le disfunzioni ataviche e le zone di confusione amministrativa proprie dello Stato italiano. Esso, paradossalmente, più che essere alleato degli italiani nella soluzione dei propri problemi si configura, e non poco, come un soggetto che si muove nella direzione opposta.

Questa è la tematica primaria che va affrontata se si vuole veramente cercare non di far rinascere il PSI, ma di dar vita a un soggetto che, rispetto alla stessa storia del PSI, sia un socialismo nuovo; in tal senso quanto ci viene dalla lezione rosselliana è veramente ancora di stringente attualità poiché il socialismo nuovo non può che essere un socialismo liberale. Esso ha una configurazione ideologica diversa sia dal laburismo, esperienza tipica del socialismo inglese ove è il sindacato, ove sono le forze del lavoro che motivano un partito socialista sia da quanto si è venuto condensando nell’idea di socialdemocrazia che esprime un socialismo che nasce dalla classe e si risolve, a ben vedere, nella ricerca di un compromesso sociale con il capitale. Non è il nostro un giudizio negativo perché i meriti della socialdemocrazia europea, pensiamo all’esperienza svedese e a quella tedesca, sono alti; la conquista del welfare ha rappresentato una grande affermazione di civiltà e di coesione, ma non certo avendo come obbiettivo il superamento del sistema, bensì la sua correzione.

Ciò non esprime poco, ma non risolve strutturalmente la grande questione di fondo. La specificità, poi, della storia italiana, a partire da come è nato il nostro Stato unitario e da quanto ne è derivato, rappresenta un terreno che richiede una diversa sostanza ideologica dell’essenza del socialismo fedele al presupposto che esso è, e non può che essere, turatianamente, una “rivoluzione sociale”. Il socialismo liberale la esprime quale ideologia ove, essendo un socialismo nella libertà, rivoluzione liberale e rivoluzione democratica ne costituiscono gli assi portanti. Non si tratta di tematiche novecentesche – basta, infatti, usare il termine ideologia per essere collocati, da taluni storici o commentatori, in una Storia superata da guardarsi con il retrovisore – ma di capisaldi di un pensiero che esprime un metodo e un fine. Ora, poiché metodo e fine si riferiscono al presente guardando al futuro nella consapevolezza necessaria di cosa ha espresso il passato sia l’uno che l’altro non hanno la rigidità di un meccanismo scientifico, ma, nella fedeltà all’ispirazione libertaristica, vivono e si applicano al presente e ai problemi che questo pone con il volontarismo della libertà; non esistono leggi che portino al socialismo, ma intenzioni e rappresentazioni della realtà che determinano le forme della lotta e i fini da raggiungere. Il socialismo richiede una “cultura politica” per una politica che giustifichi il soggetto che deve perseguirla affermandosi nella lotta consentita dagli ambiti della democrazia.

Il problema ha una valenza internazionale, ma in Italia è gravato da un fatto che non costituisce un fattore secondario, vale a dire la crisi della politica e la perdita, quasi, del significato del concetto che la parola significa; un concetto di fatto travolto dalla sequenza sfarinatoria della concezione democratica cominciata con Silvio Berlusconi, non corretta dagli intervalli prodiani, dalle stagioni del centrosinistra – vedi riforma dell’art.5 della Costituzione, legge elettorale, governo di Matteo Renzi – di quelle grillin-salviniane e di quelle grillin-democratiche che hanno progressivamente contribuito, accelerandone il processo, alla decoazione del senso stesso di politica non più concepita come il campo di tutto ciò che riguarda la vita dello Stato e della società – Aristotele docet – ma un’affermazione saldante leadership e popolo a fini di mietere consensi che permettano il prevalere di una certa forza e garantirle il potere.

In questi trent’anni abbiamo assistito a un sempre più crescente sfarinamento della democrazia italiana, delle sue istituzioni nonché alla crisi della legge determinando un divaricante cuneo tra legittimità e legalità che ha, di fatto, resa traballante la certezza dello Stato e saldamente politica l’opzione della giurisdizione. Uno sfarinamento che, tralasciando qui comportamenti, atteggiamenti e decisioni del fenomeno grillino espressione di un reazionario sentimento plebeo, di un tragico folklore del quart’ordine dell’italico sentire frutto della rabbia di un comico che non faceva più ridere e di un visionario fuori dalla dimensione liberale della realtà politica e sociale si è ben evidenziata. Soprattutto con la proposta, prima respinta per tre volte e poi accettata alla quarta da parte del PD, di quella che può ritenersi come la più grave delle ferite inferte alla Costituzione, vale a dire la diminuzione dei parlamentari per apparire virtuosi nel nome del risparmio. Pagato con l’entrata nel governo Conte II – Giuseppe Conte ritenuto da alcuni democratici un rappresentante di un fantomatico e inespresso fronte progressista potrebbe essere pirandellianamente definito come “uno, nessuno e centomila” riuscendo a essere tutto e il contrario di tutto: oggi, perfino, di ostacolare il ripristino dei decreti Salvini contro l’immigrazione che il suo primo governo aveva varato – il PD ha cambiato faccia, fatto muro con i 5Stelle avallando in pieno la teoria grillina del Parlamento come “una scatoletta di tonno” che si doveva aprire. Vergogna e tradimento si potrebbe dire; fenomeno della disgregazione del senso politico basata sull’infantile ragione del risparmio di denaro; una bugia nella bugia poiché dal bilancio della Camera, l’ultimo sotto la presidenza di Roberto Fico – che si definisce un ortodosso, di cosa non sappiamo, ma del nulla siamo certi – si prevedono spese come se i parlamentari non fossero stati tagliati.

Oltre a tutto quanto abbiamo sopra accennato una ripresa del socialismo in Italia non può prescindere da un reinventing the policy poiché un soggetto pubblico non è un astronauta e non può librare nel vuoto. Questa è una questione quanto mai complessa poiché non è sufficiente dar vita a un partito se non esiste il campo di gioco adatto; nello specifico quello della politica che abbisogna, per essere, di molteplici fattori culturali, educativi, istituzionali che ne costituiscono imprescindibili dati costitutivi e oggi appaiono in un declino preoccupante di cui non si vede l’arresto. Basti pensare, solo per citare un solo caso, alla scuola e all’Università; a due istituzioni veramente centrali della Repubblica.

Bisogna avere, cioè, la coscienza che il socialismo è un “pensiero compiuto” e i tanti piccoli volenterosi e significativi segmenti cui abbiamo accennato presenti in Italia fanno testimonianza – ripetiamo che la cosa è importante – ma da questa all’innescare un processo politico reale c’è una bella differenza.,

Inoltre occorre allargare lo sguardo allo scenario del mondo. Dicevamo che la democrazia è ostaggio del mercato o dei mercati che dir si voglia. Tanto per non andare molto lontano la svolta neoliberista parte dalla Gran Bretagna di Margareth Thatcher e dall’America di Ronald Reagan. Essa si diffuse come un’onda in tutto il mondo non trovando ostacoli veri sul suo cammino tanto da imporre il mercato quale l’unico spazio della democrazia, a cui non c’erano alternative. Il tracollo dell’Unione Sovietica ne favorì l’affermazione soprattutto per quanto di negativo assunse ll portato della statizzazione della vita economica e sociale che finì per fare un tutt’uno con l’idea stessa del ruolo dello Stato dimenticando, non sappiamo se per ignoranza o per volontà, che i sistemi dittatoriali quali sono i comunisti sono tutti collettivisti e statalisti.

Il risultato fu che non esistevano alternative al capitalismo e alla sua evoluzione barbarica, dimostrando per altro, proprio nel momento in cui gli Stati Uniti e l’Occidente avevano vinto il braccio di ferro storico, gli Stati Uniti che si ergevano a grandi vincitori della disfida in quanto capitalisti, il capitalismo metteva in evidenza tutte le proprie debolezze. Ci fu chi, come Francis Fukuyama, si affrettò a sancire l’indissolubilità del matrimonio tra capitalismo e democrazia poiché, dal momento che l’Unione Sovietica era crollata il modello proprio dell’Occidente non avrebbe avuto più rivali e avrebbe trionfato. Tesi affrettata e ingenua come hanno confermato le controrepliche della realtà. Non solo ma, secondo il politologo americano da questo connubio sarebbe nata un’era di pace e senza più conflitti; la Storia di questi nostri tempi ci dice, drammaticamente, che non è così; le conflittualità latenti sono diventate guerra.

Nonostante ciò non si può dire che la globalizzazione non abbia avuto anche effetti positivi; sicuramente ha evidenziato profonde lacerazioni e diseguaglianze all’interno dei Paesi dell’Occidente. Lo dimostra in modo inequivocabile la situazione che vivono gli Stati Uniti che, dopo il 1945 hanno rappresentato il modello vincente cui guardare, in preda a una crisi profonda e aspra sul limite di una potenziale guerra civile sul piano ideologico e politico: vedi l’assalto a Capitol Hill istigato da Donald Trump.

Si diceva, poco sopra, quanto la Thatcher e Reagan abbiano contribuito ad affermare un processo cui hanno piegato l’Occidente e le sue democrazie; con questo non vogliamo dire che il mercato vada abolito, ma certo se gli si lascia campo libero fino, addirittura, ad identificarlo come il riscontro della democrazia, esso costituisce un pericolo politico. Ciò ha indebolito le democrazie che si definiscono, per la loro struttura, liberaldemocratiche, ma esse non appaiono nelle condizioni di essere all’altezza del proprio compito che è quello di governare problemi prendendo decisioni che siano per il bene della collettività’ in nome del bene comune e della coesione sociale. Su tale debolezza prendono forza le esperienze di Paesi quali la Cina e la Turchia guidati da uomini forti; l’Europa implosa in una dimensione comunitaria che non è né confederale né federale, evidenzia tutta la sua debolezza e incapacità di assumere decisioni su questioni rilevanti quali l’economia, la pace e l’ambiente. Ecco perché anche in Italia abbiamo ammiratori – se pur si tengono a mascherarsi – del presidente russo e di quello ungherese.

Parlare della rinascita del socialismo in Italia prescindendo da tutto ciò diviene pura accademia. Alla sua funzione si collega pure quella dell’educazione alla democrazia: ossia dotare l’opinione pubblica degli strumenti per capire i vari contesti. Ecco perché la funzione del soggetto partito e l’essere della democrazia sono strettamente correlati per permettere ai cittadini di essere informati per giudicare criticamente.

Oggi si tende a ritenere i partiti del Novecento come esperienze da consegnare agli armadi della storia. E’ un errore di quelli capitali perché, così facendo, si dimentica, colpevoli verso il presente e anche il futuro, che i partiti erano vere e proprie scuole di educazione civile nonché, naturalmente, di partecipazione politica. Erano il tramite per il quale la gente stava nella politica laddove il populismo è affermazione di ceto politico basato su un concetto astratto di popolo, ma senza vera gente. Era tramite i partiti, e non tramite i social o le primarie, che si proponevano i leader politici che erano espressione del progetto che il partito aveva elaborato. Per lungo tempo un politologo illustre quale Giovanni Sartori aveva denunciato i pericoli della videocrazia; l’informazione che avviene attraverso i vociari televisivi, la bulimia delle chiacchiere che finiscono per lo più in risse verbali con toni tronituanti; un insieme incomprensibile fatto di nulla sostanza, testimonianza di una caduta generale di cui, peraltro, è riflesso anche la composizione parlamentare.

Abbiamo cercato di elencare le tante intrecciate questioni che pone la questione socialista; proclamarsi riformisti è un non senso logico prima che politico; per la rinascita del socialismo occorre, in primo luogo – è quasi lapalissiano – dirsi socialisti, guardare al problema di tutta la sinistra e impegnarsi sul piano dell’elaborazione culturale per avere coscienza di cosa implica; senza l’impegno nella concretezza della lotta. Ma già elaborare una cultura politica è un aspetto dello stare nella lotta. Nell’impegno ricostruttivo per costruire il socialismo nella libertà bisogna tener conto che è il partito il luogo del progetto politico per cui esso deve essere non solo una forza che rappresenta il lavoro, ma anche il sapere; che recupera la tradizione internazionalista della tradizione socialista tanto più necessaria a fronte dei nazionalismi fascistoidi che albergano nel continente comprese le democrazie occidentali. Di fronte a un mondo che sembra aver programmato la propria estinzione e con ciò pure quella della specie che lo abita, alzare come bandiera identitaria proprio la salvezza della specie modificando gli indirizzi economici e la rapacità dei profitti che arricchiscono i pochi e impoveriscono i tanti; significa lottare per la salute del genere umano. Rispetto al principio della democrazia quale partecipazione al potere non si può deflettere e ciò comporta lo sviluppo dell’autonomia degli individui e la pluralità delle forme sociali di aggregazione.

Affrontare seriamente la questione socialista vuol dire cominciare, dal presente, a costruire la storia del futuro coscienti che la sinistra ha una storia che ne costituisce la radice nel tempo. Occorre, quindi, avere coscienza piena di quanto ciò comporta e dell’alto livello di serietà e di consapevolezza che ne consegue; se così sarà si può alimentare la speranza.

Chiudiamo con le parole di Carlo Rosselli: “il socialismo è, ma potrebbe anche non essere”. Aveva ragione. Se vogliamo che il socialismo sia, tocca a noi; a tutti coloro che credono nel socialismo quale civiltà di libertà, di democrazia e di giustizia sociale.